CAPITOLO 13 - NOVEMBRE

All'inizio di novembre la situazione dell'esercito veneto in campo e la consegna della città di Brescia rimangono ancora sospese, mentre a Bergamo ormai la fortezza della Cappella è ritornata in mano delle truppe della Repubblica. Gli spagnoli sono accampati nel borgo di san Giovanni presso Brescia, ma soffrono per la scarsità di strame ed il freddo. Una lettera del 31 conferma che i provveditori preferirebbero muovere il campo, per le medesime ragioni di difficoltà lamentate dagli spagnoli. Vi sono colloqui con il vicerè a questo proposito e la Signoria viene sollecitata ad esprimersi. Ma l'opinione prevalente a Venezia è quella di ingiungere al campo di non muoversi senza ordini precisi. Il castellano di Brescia è sempre in attesa di ordini dalla Francia.

Giulio II va da tempo sollecitando un accordo con l'Imperatore, per propiziare il quale, se necessario, Venezia dovrebbe rinunciare a Verona e Vicenza; il Pontefice continua invece ad essere mal disposto verso gli spagnoli e dispiaciuto dei nuovi sviluppi a loro favorevoli. La Signoria decide di informarlo che, dopo che i francesi si sono allontanati, gli spagnoli stanno ancora accampati a Brescia e minacciano di espandere il loro dominio su tutta l'Italia; si chiede al Papa di provvedere.

Lettere dal campo manifestano l'intenzione dei provveditori di spostarsi verso Desenzano: ma si è in attesa degli animali necessari a muovere l'artiglieria, che sono stati richiesti a Brescia e a Bergamo. Con un ordine del 3 novembre la Signoria impone ai provveditori di non lasciare assolutamente il territorio bresciano, spostandosi invece solo un poco verso est perché levandosi saria la ruina nostra. Vi sono mormorazioni a Venezia sul comportamento dei provveditori e sulla loro intenzione di voler levare il campo, anche se essa è appoggiata da altri come una decisione necessaria, prima che comincino a morire i cavalli per gli stenti. Lettere dal campo del 1° e 2 novembre lamentano che le istruzioni da Venezia non siano ancora giunte. In tale situazione, sentito il governatore, i provveditori decidono autonomamente di muovere verso Desenzano, per ovviare alla penuria di strame e vettovaglie e sfuggire alla rigidità del clima; permane tuttavia la difficoltà di disporre di bovi e carri per il trasporto.

Lo Stella da Lucerna racconta a Venezia dei suoi tentativi di rendersi amici gli svizzeri e di screditare l'opera del cardinale Sedunense. Come risultato, gli svizzeri vorrebbero tenere una dieta l'11 novembre a Lucerna e sollecitano un loro accordo con Venezia e l'Imperatore. D'altra parte, il Caroldo informa che i milanesi pare abbiano licenziato gli svizzeri, che ne sono sdegnati ed hanno protestato e minacciato il cardinale, saccheggiando alcune case a Lodi.

Una lettera del 3 novembre informa che l'indomani mattina il campo partirà verso Desenzano perché i fanti non intendono più rimanere. Per parte sua, il vicerè andrà verso Soncino. A Brescia si insedia un consiglio di 12 cittadini (5 ghibellini e 7 guelfi) per governare la città in nome della Lega. La lettera successiva a Venezia dei provveditori è del 4 novembre e viene da Desenzano, dove il campo si è nel frattempo spostato, in mancanza delle risoluzioni dalla Signoria. E ciò perché l'ordine di Venezia del 2 novembre - che imponeva di non muovere le truppe - è purtroppo arrivato in ritardo. I provveditori chiedono denaro per pagare i soldati ed informano che il governatore è risoluto a non prolungare oltre la sua condotta con la Signoria.

Il giorno 2 novembre - scrive il Lippomanno da Bergamo - si è installato nella Capella come castellano il camerlengo Carlo Miani con alcuni fanti. Il castellano francese, uomo da bene e stimato dai bergamaschi, è in attesa di un salvacondotto dal cardinale, ma si ritiene che non lo otterrà senza pagare: anche l'Obignì del resto, si dice, per avere il suo salvacondotto avrebbe versato 11 mila ducati. E infatti, conferma il Caroldo da Lodi, il cardinale che sta a Sant'Angelo nel lodigiano per paura degli svizzeri, richiesto del salvacondotto per i francesi della Cappella, temporeggia. Il Guidotti informa che il vicerè si è intanto trasferito con il campo a Ghedi.

L'ambasciatore presso il Papa riferisce che costui è dispiaciuto che gli spagnoli abbiano preso Brescia a nome della Lega perché desiderava fosse consegnata direttamente a Venezia; e commenta: non si pol più; tornato sia l'orator yspano a Roma farà far letere al vicerè [SAN, XV, 317]. Il Lando che accompagna il Curzense verso Roma, è arrivato a Siena, e si dirige su Viterbo. Venezia spedisce ai provveditori in campo 5000 ducati e 2000 a Crema.

Forse in risposta alle accuse formulate contro di loro, il 5 novembre i provveditori da Desenzano danno ampie spiegazioni della venuta costì e riferiscono anche che il castellano di Brescia ha fatto sapere che, qualora la Signoria concludesse una lega con il Re francese, egli consegnerà la rocca a Venezia. Intanto, Venezia scrive all'oratore presso il Papa di non essere assolutamente disposta a barattare il suo territorio e gli ordina di non accettare alcuna discussione a tal proposito. Scrive anche ai provveditori di aver compreso le loro spiegazioni e raccomanda di non muoversi da Desenzano e di rimanere uniti; quanto al castellano di Brescia, se vuole arrendersi avrà un salvacondotto, ma è inutile che si ricerchi altro accordo con Francia.

Vediamo ora alcuni fatti accaduti nel frattempo a Bergamo. Già il 29 ottobre il Consiglio cittadino [Az 12, 36r] aveva votato un contributo di 25 ducati d'oro per trasporto di suppellettili e familiari alla moglie di Alvise Garzoni, già podestà di Bergamo dal 1509, in considerazione dei meriti acquisiti dal marito e intuitu pietatis et multis aliis rationabilibus respectibus, ipsa etiam contentante. Il dono era stato preceduto da una relazione di Paolo Bonfio già Giudice dei Malefizi che, a nome della donna, aveva così richiesto. Su questa base, il notaio Bernardo Besani de Rota, conduttore dei banchi grandi, nel Consiglio del 4 novembre promette di pagare il fitto dei banchi stessi, e di dare a Francesco Albani i 25 ducati d'oro che lo stesso Francesco pagherà alla moglie del defunto podestà. Il Consiglio decide anche una spesa di sei testoni per le spese di sei cavalli mandati dai provveditori generali per accompagnare la donna a Venezia e proteggerla nel viaggio, sempre in riconoscimento dei meriti del marito.

Alla data del 4 novembre [Az 12, 39v], in un Consiglio ristretto presieduto dal provveditore da Mosto e in presenza di dieci anziani e nove deputati, si discute a lungo sugli accadimenti in città e soprattutto sul modo di scrivere al Dominio in merito alla presa della Cappella, avvenuta con le fatiche, le veglie e le onerosissime spese di tutta la città e di quei fedelissimi cittadini nel mantenere anche molti fanti, dal momento della dedizione della città e fino alla presa stessa, per la custodia e l'assedio della fortezza. Una tale rivendicazione di meriti è dovuta al fatto che i bergamaschi sono stati informati di come parecchi privati abbiano fatto intendere al Dominio che non solo la cessione della Cappella, ma la presa dell'intera città siano dovute al loro personale interessamento, alle loro opere ed alla loro diligenza. Il Consiglio si riconvoca per l'indomani mattina sui medesimi argomenti. Difatti, il 5 novembre, in un Consiglio allargato [Az 12, 40v], si propongono i testi di due lettere al Dominio e si votano i due testi, che sono molti simili. Quello approvato dice:

Serenissime princeps ed domine excellentissime, avenga siamo certi il mag.co Proveditor nostra habia particularmente dato notitia a la Sublimità Vostra circa la recuperation di la Capella, nondimeno questa fidelissima cità per l'alegreza et contento ha riceputo di tal acquisto, li è parso far queste ala Celsitudine Vostra, cum la quale havendo prima gracie al summo Dio, si alegremo cum tutto il core cum la solita devotion et bona fede di tutta questa cità verso di quella. Ben che havemo per più vie inteso alchuni particulari apresso di Vostra Excellentia attribuirsi questa laude et operatione di haver fatto non solo questa recuperation di la Capella, ma anchora di la cità nostra, cosa che invero è aliena da ogni verità, perché questa fidelissima cità si è recuperata lei istessa per la immutabile et ardentissima fede sua sempre verso la Celsitudine Vostra et non per potentia né operatione de particulari. Et il simile haversi reaquistata la Capella per dilligentia et industria del mag.co nostro Provisor et per bona cura, sollicitudine, vigilantia et gravissime spese per tutta la cità universalmente fatte, faciendo far bone guardie per i citadini et molti altri fanti condutti et pagati per essa cità al assedio di preditta Capella, dala dedition dela cità fin al presente, et cum grandissime vigilie et stenti, operando de dì et de notte molte altre cose occurente et necessarie, talmente che ditta Capella non poteva tenirsi se non per pochissimo tempo. Sì che Vostra Celsitudine si pò render certissima queste operatione dover esser ascritte a tutta la cità nostra et fidelissimi citadini in genere, et non a persone private, come è notorio. Et ala gratia di quella si ricomandiamo di continuo et offerimo. Bergomi, secundo novembris 1512. Consilium maius civitatis Bergomi. Si scrive a Venezia nella forma votata, avendo prima cancellato, per richiesta del da Mosto, le parole date in caratteri tondi.

Il vescovo Niccolò Lippomanno, che da tempo era stato eletto a Bergamo, si fa vivo con gli anziani della città da Roma il 6 novembre [Lett. 9.3.6. # 36] e così si rivolge ai suoi fedeli, evidentemente in risposta ad una lettera gratulatoria.

Spectabiles amici charissimi,
per le lettere vostre receute questi zorni ho inteso quanto quella mag.ca cità ha hauto agrato ch'el sia piacesto al clementissimo Salvator nostro et al summo Pontifice moderno promuoverme a quello episcopato. Né achadeva fusse usato per vui iustification alcuna de non haver fato tale congratulatione più presto, perché oltra che per asai citadini et altre persone de quel paexe che se sono atrovati de qui l'era stà satisfacto abundantemente a questo amorevol offitio, me era etiam noto el natural instituto de tuta quella natione esser de haver achari et accepti tuti li episcopi che pro tempore hano hauti, et maxime quelli de la patria nostra. Per la qual cosa, benché a una infinita obligation ch'el se ha a Dio non li è loco de augmento pur se acrescer se potesse, me cognosco esser debitor eo magis de referir infinite laude et gratie ala sua Divinità, che per la lui gratia habia fato chader sorte sopra de me indegno peccatore ad esser grato pastore a quella sua devotissima cità, populo et natione.
Ali quali tuti referisco imortal gratie del offitio de la congratulatione usato verso de me, et de la bona opinione i dimostrano haver de la persona mia. In la quale, benché non ce siano quelle parte che se recerchariano a dover studir tanto pexo, pur dovemo haver ferma speranza ne la summa bontà divina che supplirà lei, et non le excellentissime parte scriveti esser in me, ala cura ad me demandata et comessa. Vero è che tantum quantum in me erit non son per manchar ad ogni ben, honor, commodo et gloria, sì temporal come spiritual, de quella mag.ca dignissima cità, de queli spectabili citadini et de qualunche dilectissima persona de quella diocesi. Ali quali tuti in genere et in specie sempre me offerisco et recommando
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Giungono intanto per diverse vie notizie a Bergamo circa i movimenti degli spagnoli. Una prima comunicazione è di Betino Mena, sindaco di val Calepio, il quale scrive al provveditore di Bergamo il 6 novembre da Adrara [Lett. S.3.1, 20]. Egli comunica che è appena arrivato in valle un commissario e furiere del capitano generale degli spagnoli, il quale, sotto minaccia di gravi pene, ha chiesto agli abitanti di portare 120 some di pane al giorno, 60 some di vino e 30 capi di bestiame grosso da carne al campo degli stessi spagnoli. Informa di questo perché se il provveditore li potesse liberare sarebbe un gran bene. Prega anche di mandare qualche istruzione su come gli abitanti si debbano comportare, perché essi desiderano ubbidire ai suoi ordini.

Una seconda lettera è diretta agli anziani della città e proviene con grandissima urgenza da Giovan Andrea Momotus da Desenzano il 6 novembre [Lett. 9.3.6. # 33]:

...in questa maytina è zonto messo a Brexa de la terra de grissoni et sguizeri dele quale un mio propinquo pratico nele cancelarie et confeudo cum el dito messo, non obstante alguna lega fata cum milanesi per gli sguizeri diti grissoni esser n° 12.000, quali sono al comando et servitio dila nostra ill.ma Signoria in sema cum piuser Capitani de sguizeri et voler esser homeni dabene et attender quello hano una volta promesso ala ill.ma Signoria et tuto quello serali comandato voiano esser obedientissimi et extirpare li inimici loro. Sì che state di bona volia et alegrative, per che spero che le cose nostre andarano melio de quello che qualche duno se crede. Et ben che il campo nostro sia reduto nela riperia di Salodio et circumstante, l'ano fato per bon respeto, el quale per el presente non le posso scriver; ma spero in breve ve scrivarò tal cosa che restareti molto contenti. Se dice che spagnoli se hano a levare del teritorio bresano et andar nele lor payese per che dubiteno de cose che forse ge poriano intervenire. De questo me podeti intendere. Sì che non habiate paura et state di bona volia. Se mandati litere, mandatele per la via di la montagna. Ale Spectabilità vostre me ricomando.

Lo stesso informatore scrive ancora il giorno seguente [Lett. 9.3.6. # 38]:

...heri da sera zonse da li mag.ci Provisori uno trombeta de spagnoli cum letera del vice Re, qual i disse a bocha per parte del vice Re come sue Signorie dovesse andar a tuor Bressa et fortirla a suo piacere; ma quello che dicesse la litera del vici Re non se sa, ma se presume tuto quello ha dito el trombeta. Et subito spazorno uno cavalero ala volta de Venetia cum litera, et se aspeta la risposta, et tuto quello sarà ordinato per la ill.ma Signoria se exequirà. Verum est che in breve se partiremo di qua e veniremo ala volta di Bressa; et stati di bona volia che le cose succederano di bene in melio. De poi ozi, siando al contrasto il signor Gubernatore cum certi condutori per li azogamenti loro, disse: "Gobernate et state come posseti, che ad ogni modo habiamo andar de qua ala volta di Bressa". Et se dice che spagnoli fabricano uno ponte ala volta de Sonzino et Iorzi, per passar et andar in cremonese....

Il Consiglio bergamasco aveva votato in precedenza (27 ottobre) l'elezione di due oratori da mandare ai provveditori generali, senza peraltro nominarli né stabilire il loro preciso incarico. Ancora l'8 novembre [Az 12, 42r] il Consiglio propone di scrivere a G. Antonio Assonica e Taddeo de Albano: siccome per diverse importantissime cause la comunità deve mandare oratori al Dominio, provino essi a sondare se sarebbe gradito l'invio degli oratori, perché il Dominio aveva già scritto che la città non ne mandasse. La richiesta viene avanzata al fine di risparmiare denari per la condizione dei tempi. Non è noto se vi fu una risposta.

Tra il 6 e il 9 novembre i provveditori fanno sapere che il campo spagnolo, che stava a Ghedi, si sposterà probabilmente oltre l'Oglio per la presenza di un contagio a Ghedi stessa, a Rovato ed a Travagliato. Infatti, il 9 l'esercito del vicerè arriva a Chiari. Il provveditore di Orzinuovi scrive di aver ricevuto artiglierie e di aver rifiutato alloggiamenti di militari ad Orzinuovi: di questo ha avvertito il Guidotti.

Da Roma il 10 novembre si comunica l'arrivo costì del Curzense, che viene con lo scopo di trattare un accordo con il Papa, il quale vorrebbe Ferrara, Parma e Piacenza; un accordo tra la Signoria e l'Imperatore; ed un accordo su chi debba andare al ducato di Milano. Ma il commento è: Tamen, chi ha cervello tien non seguirà acordo alcuno [SAN, XV, 324]. Il Caroldo da Milano scrive di essersi recato in visita a Vigevano dal cardinale Sedunense e di aver parlato con i capitani svizzeri, i quali si sono mostrati favorevoli a Venezia. Tuttavia, anche il Re francese ha mandato emissari agli svizzeri, promettendo loro del denaro. Brescia rimane sempre in mano ai francesi; il Duchetto Massimiliano è fermo a Verona, in attesa di decisioni sul suo futuro.

Intorno al 12 novembre si registrano a Venezia alcuni interessanti sviluppi. Vi è, innanzitutto, un vivace scambio tra l'oratore spagnolo e la Signoria: il primo si lamenta di non avere ancora avuto i denari che Venezia aveva promesso; il Doge, a sua volta, accusa gli spagnoli di essere stati la causa della perdita di Brescia, in spregio dei capitoli della Lega e dei voleri del Papa. In secondo luogo, giungono due messi del governatore Baglioni, il quale dichiara apertamente di non voler più servire Venezia: il Doge se ne fa meraviglia e pretende una spiegazione per iscritto, al fine di consultarsi per una risposta (essa sarà peraltro negativa e partirà il 14 novembre). In terzo luogo, arriva una lettera di Paolo Agostini, a nome del marchese di Mantova: quest'ultimo ha inviato lo stesso Agostini dal Capello per dichiararsi servitore della Signoria, avendo saputo per certo che a Roma si è raggiunto un accordo per cui Brescia sarà data a Venezia e Ferrara al Papa. La Signoria decide di protestare nei confronti del Papa per l'atteggiamento ostile degli spagnoli, mandando nel contempo una gagliarda lettera in tal senso al Guidotti che sta a Chiari con il vicerè. Da Milano il Caroldo informa che il vescovo di Lodi sollecita un accordo con Venezia e gli svizzeri, disposto in tal caso a cedere Cremona e Geradadda. Una lettera segretissima parte per il Caroldo. A Bergamo, i francesi che stavano nella Cappella sono sempre in attesa del salvacondotto.

Il 14 novembre giunge da Roma una lettera importante del 7, con notizie che vengono reputate negative per Venezia. Giunge anche un'altra lettera dal campo con informazioni del medesimo tenore. Lette segretamente in Collegio, queste lettere lasciano tutti dubbiosi. Compare anche l'oratore spagnolo e corrono parole grosse. E' interessante riportare con qualche dettaglio il contenuto della lettera da Roma - così come la sunteggia il Sanudo [SAN, XV, 331] - perché essa è molto indicativa del clima e del modo di procedere di queste trattative, davvero molto singolare.

Le lettere informano che il Papa in presenza degli oratori veneti, spagnoli ed imperiali ha dichiarato l'intenzione di stipulare il seguente accordo: Verona e Vicenza andranno all'Imperatore; Padova e Treviso a Venezia, con l'obbligo di pagare un censo annuale di 30 mila ducati ed un'investitura iniziale di 250 mila; Parma, Piacenza, Reggio e Ferrara saranno del Papa; Milano sarà data a Massimiliano Sforza. Alla dichiarazione del pontefice gli oratori veneti ribattono che questa non era la pace attesa, dal momento che Verona e Vicenza appartenevano già a Venezia. Il Papa replica che Venezia avrà anche Bergamo, Crema e Brescia e, in ogni caso, se Venezia rifiuterà avrà tutti contro. Gli oratori cesarei si accodano, dichiarando che evidentemente Venezia non desidera la pace. Il Papa convoca immediatamente il notaio per rogare l'atto, anche senza l'assenso di Venezia. In presenza del notaio e dei testimoni egli dichiara: Notè che questo è l'acordo che volemo far ... Si la Signoria vorà la intrerà et aceterà, si no, so danno ...Volemo Ferara e che le zente di Spagna ne aiuta averla, e che questi do prometano anular il Concilio.

Gli oratori spagnoli, tuttavia, non desiderando promettere il loro aiuto per Ferrara, dichiarano di non voler stipulare in assenza del Curzense. Il Papa manda allora un messo per convocarlo ed intanto gli oratori veneti propongono al Papa di scambiare Verona e Vicenza con Cremona. Ma i rappresentanti cesarei replicano che i veneti trattano per Cremona senza tuttavia possederla: essi intendono quindi aderire alla proposta del Papa. Al che gli ambasciatori veneti si allontanano, mentre entra il Curzense. Gli informatori dichiarano di non sapere come la trattativa sia proseguita, ma dicono che nulla è stato concluso. L'altra lettera degli oratori ai provveditori è dell'8 novembre e li invita a stare allerta perché gli ambasciatori cesarei e spagnoli hanno mandato a dire al vicerè che, potendo dare addosso all'esercito veneto, lo faccia: siché dies mali sunt [SAN, XV, ibidem].

Di fronte a tali infauste notizie, la Signoria convoca il Senato e propone di scrivere agli oratori a Roma che la Repubblica non intende lasciar Verona e dare Vicenza, ma potrebbe invece cedere Cremona; vi è anche uno speciale incarico di informare il Papa della grave disillusione provata per il fatto che, non essendo ancora spirata la tregua con l'Imperatore, già si facciano nuovi patti. Vi è un'accesa discussione, ma la proposta passa. Ai provveditori si ordina di restare uniti, di ritirarsi sulle rive dell'Adige, di costruire un ponte sul fiume ad Albaredo, di cercare di ottenere ad ogni costo il castello di Brescia; e si promettono denari. Il 15 novembre, lettere da Mantova informano che l'accordo è fatto nel senso che Brescia sarà della Signoria, ma che nel complesso la pace non sarà favorevole a Venezia. Il Doge protesta con l'oratore spagnolo, promettendogli che tutto questo gli si ritorcerà contro. E a Venezia l'opinione pubblica comincia a virare in favore dei francesi perché, di fronte alle intollerabili condizioni proposte, un accordo con Francia pare preferibile. Questo è il primo segno di un possibile rovesciamento delle alleanze.

Le notizie del campo al 14 novembre sono pessime: infatti, il castellano di Brescia ha avuto ordine dalla Francia di cedere la fortezza all'Imperatore. E le notizie che si susseguono da Roma tra il 9 e il 12 novembre, mandate dagli oratori Foscari e Lando, non sono migliori. Esse dicono, in buona sostanza, che il Papa ha proposto nel concistoro il ventilato accordo. Il cardinale Grimani ha difeso appassionatamente la causa della Repubblica asserendo che, dopo tante spese, sangue e sacrifici per cacciare i francesi dall'Italia ed aiutare il Papa, essa non meritava un simile trattamento, che sarìa con denigratione di questa Santa Sede. Tutti i cardinali si sono commossi in favore di Venezia. Allora Giulio II, in collera, ha ricordato che l'obiettivo dell'accordo era quello pacificare i cristiani contro la minaccia turca. Invano i cardinali e gli oratori veneti hanno cercato di smuoverlo: egli asseriva di agire per il bene di Venezia. L'oratore veneto Foscari a più riprese ha cercato di convincere il pontefice, che ha tuttavia concluso dando a Venezia 15 giorni di tempo per entrare nell'accordo. Intanto però, dicono le relazioni, i capitoli non sono ancora firmati.

Il Pasero [PAS, 1961, p. 208] così efficacemente descrive la temperie politica dopo la presa di Brescia: Il deluso senato veneto ... si sentì spinto a superare ogni esitazione ed a condurre avanti le segrete trattative già da tempo proposte da Luigi XII, aderendo alla impostazione di un nuovo raggruppamento di forze, soprattutto valido a contrastare le pretese dell'imperatore tedesco che nel convegno di Mantova, non potendo ottenere il ducato di Milano per Carlo d'Asburgo, aveva chiesto lo smembramento della Terraferma veneta ed il riconoscimento degli antichi diritti cesarei sulla pianura padana da Padova all'Adda. La suprema volontà di Venezia, al contrario, era di recuperare le provincie perdute ... con l'aiuto dei francesi, che da parte loro si mostravano desiderosi di tornare in Italia e di prendersi le loro rivincite contro gli spagnoli, i quali chiaramente denunciavano invece il proposito di impadronirsi del ducato milanese. La occupazione del bresciano da parte del generale spagnolo fu dunque di grande portata nel giuoco contrastante di molti interessi, perché Brescia rappresentò sempre un obiettivo vitale per i veneti, una rivendicazione a suo giudizio legittima per l'imperatore e nello stesso tempo una moneta di scambio per gli ambiziosi disegni del Cardona, il quale si preoccupava di tacitare i tedeschi e di far loro rinunciare all'opzione da tempo posta sui domini sforzeschi. Anche il pontefice Giulio II, già messo in sospetto per l'accresciuta potenza degli spagnoli e desideroso di ristabilire in Italia un equilibrio di forze che assicurasse la pace, mostrava di favorire le esigenze imperiali sulle provincie venete (novembre 1512), allo scopo di ottenere l'appoggio di Massimiliano e di contrapporlo al re di Spagna.

Vittore Lippomanno il 9 novembre informa da Bergamo che gli svizzeri hanno lasciato Milano perché non sono stati pagati. Il cardinale con 300 uomini sta a Vigevano, in attesa di un salvacondotto da Milano per andarsene. I francesi che stavano a Brescia e a Crema sono tuttora a pe' di monti e quelli in Bergamo ancora attendono il salvacondotto del cardinale. Un'altra lettera dello stesso Lippomanno dell'11 dice come a Bergamo sia opinione comune che Brescia sarà presto di Venezia. Massimiliano Sforza intanto ha lasciato Verona e poi Mantova per Cremona, dove è stato bene accolto, cominciando così il processo per riacquisire il ducato di Milano. Altre lettere da Roma, ricevute a Venezia il 16, informano che i dubbi dei cardinali sull'accordo proposto vanno aumentando ed il Papa stesso appare ora titubante.

I provveditori riferiscono il 15 e 16 novembre che tra breve il castello di Brescia sarà consegnato agli spagnoli: il castellano non ne è contento, ma deve ubbidire. I provveditori, secondo l'ordine del Senato, si sposteranno a Villafranca, in attesa di altre disposizioni. Nicolò Michiel, da Orzinuovi, ha inteso che gli spagnoli vorrebbero presto prendere Crema, ma egli si sta preparando. E proprio da Crema Nicolò Cadepesaro scrive che un capitano spagnolo, il Caravajal, e Vincenzo Guidotti hanno visitato la città, che è apparsa loro inespugnabile; Renzo Orsini, capitano delle fanterie, la tiene e la governa, ma ha bisogno di denaro. Lo stesso Guidotti informa da Chiari di colloqui con il vicerè, il quale reclama dalla Signoria i denari promessi; pare voglia andare con l'esercito sul bergamasco; gli spagnoli, che alloggiano a loro discrezione sul bresciano producono danni; il vicerè asserisce di avere nelle sue mani la città di Brescia e che avrà presto anche il castello.

A Venezia (17 novembre) si mandano istruzioni agli oratori in Roma perché rifiutino di cedere Vicenza e Verona, come già era stato ordinato; e per ringraziare i cardinali che hanno appoggiato la causa della repubblica nel concistoro, pregandoli di perseverare. Contemporaneamente, si concede libertà al governatore ed ai provveditori di sistemarsi in luogo sicuro in prossimità dell'Adige. Intanto i provveditori (16 novembre) mandano alla Capella di Bergamo Gerolamo Tartaro con i suoi fanti. Pontevico è in custodia di Gerolamo Fateinanzi; Orzinuovi è in mano del provveditore Nicolò Michiel; due compagnie di cavalli leggeri con Zuan Bernardin da Leze e Alexandro Donato sono inviate sul bresciano a rafforzare quel territorio. I provveditori attendono i denari per Crema e poi si muoveranno perché a Desenzano scarseggiano vettovaglie ed è iniziato un contagio; si sposteranno quindi a Villafranca. La notizia della peste scoppiata al campo veneto viene confermata il 17 novembre. E intanto a Venezia l'umore popolare si va sempre più orientando in favore dei francesi e tutti reclamano a gran voce, sentendosi traditi dal Papa e dagli spagnoli, un accordo con loro.

Il 17 novembre - questa volta con estrema tempestività ma senza alcuna giustificazione - il Consiglio bergamasco [Az 12, 43v] propone di eleggere quattro cittadini che, insieme con il Provveditore, facciano un diligente censimento degli uomini atti alle armi ed alle guardie, in tutte le vicinie; e poi assegnino ai luoghi soliti e necessari in tutta la città quegli uomini per custodire i posti loro assegnati. I deputati avranno il potere di costringere le guardie a trovare le armi necessarie ed eleggeranno, con il provveditore, due deputati alle coscrizioni e alle custodie in borgo s. Leonardo ed altri due in borgo s. Antonio. Con ampia delega, si eleggono: Leonardo Comenduno, Antonio de Lulmo, il conte Marco Calepio e Fedrigino del Zoppo. Il Consiglio decide ancora di eleggere tre cittadini per allestire gli alloggiamenti opportuni, sia nella Casaccia che nella Cittadella nonché in altri luoghi della città e dei borghi, nel caso in cui si debbano alloggiare militari. E si eleggono a questo incarico Benedetto de Passis, Ottolino da Alzano e Federico Rivola.

Il 19 novembre poi [Az 12, 44v], il provveditore e gli Anziani, vengono informati da Vincenzo Guidotti, che sta a Chiari presso il vicerè, che l'esercito spagnolo passerà presto i confini dell'agro bergamasco. Al fine che in tale eventualità i militari non producano troppo sconcerto, ma tutto avvenga con la minore spesa e danno possibile, il Consiglio decide di avvisare i luoghi confinanti verso la pianura. Dopo un lungo dibattito, si dà incarico a Gerolamo di Nicolò Vitalba di recarsi nei diversi luoghi del piano bergamasco per informare gli abitanti ed avvertirli di seguire attentamente l'avanzata degli spagnoli. Si elegge anche il collaterale Silvio Taglioni perché raggiunga Vincenzo Guidotti e lo segua, per assisterlo e per trasmettere tempestivamente notizie sull'avanzata dei militari al provveditore ed agli anziani. Si stabilisce loro un salario di mezzo ducato al giorno. Gerolamo e Silvio partono il 20; il 22 torna Gerolamo e il Consiglio gli pagherà il 28 novembre sei testoni per il salario di tre giorni. L'11 dicembre tornerà Silvio.

Di questa missione del Taglioni ci è rimasta una lettera diretta agli anziani della città, la prima dopo il suo arrivo a Romano il 20 novembre [Lett. 9.3.6. # 40]. Essa dice:

In questa hora 21 son zonto a Rumano et presentato a questo mag.co Provisor per intender se cosa havesse sua Magnificentia de momento. Dal qual non ho hauto altro, salvo el medemo ha el mag.co Provisor de lì, del retirarsi del campo nostro ultra el Melzio, per la peste de queli logi dovi sono et per la penuria del viver, et non per altro respeto. Similiter, restar 200 cavali lizeri a Iorci per sicurar questi payesi de giotono, et mandarsi de lì uno comestabile cum fanti per custodia dela Capella.
El vice Re heri passò a Pontolio cum cavali circa 200, et molti cum cariazi erano passati avanti lui, et più asai passono a Urago per Soncino, dovi se die al presente atrovar. El resto del exercito, li cavali intendo, antiguardo sono a Palazolo et Pontolio; le fantarie veramente sono a Chiari; quando siano per levarsi, se dice qua per luni proximo; altra certeza perhò non hano. Verum est passarano Olio. Domino Vicentio Guidoto per ... questo mag.co Provisore aloza a Iorci, poy va a Sonzino, secondo occore per quanto ha de presenti in questa sera aspeta sue dovi sarò charito; et havendo cose di momento subito darò aviso. Sta matina passò qui carri X de momento (?) per Crema et tolsino quanti bovi erano qui a questo bisognio. El ven fato molti insulti per queste strade fin qui sule porte da giotoni spagnoli, e n'è in presone de quelli che sono stà presi. Se mi sentirò sicuro andarò ultra, se non restarò, sinché habi compagnia sufficiente. Maximum est che nulla habiamo a dubitare che le cose non habino a succeder a bon fine per la ill.ma Signoria nostra...
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Intanto il 19 l'esercito veneto era arrivato a Villafranca, dopo aver guadato il Mincio con la fanteria, come aveva riferito il Taglioni, mentre i carri ed i cannoni erano passati da Valeggio. I provveditori mandano un trombetta a Verona con richieste di cibo, ma senza ottenere risposta. Poi il campo si sposta ulteriormente a Vigasi, ma il 22 novembre il Consiglio di Venezia ordina ai provveditori di attendere prima di varcare l'Adige, anche se il ponte che era stato allestito è ormai pronto. Il vicerè spagnolo sta a Chiari ed il 19 parte per Soncino, con l'intenzione di passare l'Oglio verso Milano; tuttavia, parte del suo esercito lo vuole abbandonare. Una lettera da Bergamo del Lippomanno del 17 manifesta apprensione per lo spostamento del campo veneto verso est e per la consegna del castello di Brescia agli spagnoli; e alla stessa data il da Mosto scrive che alcuni dei francesi che stavano alla Cappella sono fuggiti da Bergamo per riparare a Trezzo. Il 20 novembre il Consiglio bergamasco [Az 12, 45v] vota un anticipo a Iacopo di Carlo Gargani, che viene incaricato quale depositario di 20 ducati d'oro, da spendere per le necessità delle custodie della città che si dovranno istituire, secondo quanto ordineranno i deputati.

Il 22 novembre poi viene annunciato a Bergamo [Az 12, 46r] che la peste ha colpito in città, soprattutto intorno alla piazza. Ed affinché il contagio non aumenti oltre per incuria, dopo molte discussioni, si decide all'unanimità di sospendere lo ius in genere, a discrezione degli Anziani: il trombetta Andrea Gualandri proclama l'ordine sul regio nuovo. Ma il 26 novembre [Az 12, 46v] decentibus de causis la sospensione viene rimossa, a partire dal 1° dicembre.

A Venezia, il 23 novembre si apprende dal Caroldo che il vescovo di Lodi ha chiamato Massimiliano Sforza a Cremona, contro il volere degli spagnoli, e intende insediarlo a Milano. Ha anche fatto capire che, offrendo agli spagnoli 20 mila ducati, costoro non si opporrebbero più all'insediamento, anzi una parte di loro si allontanerebbe.

I provveditori giungono a Ronchi il 22 e comunicano che vi si fermeranno, in ossequio al volere della Signoria, fino a quando gli agenti imperiali lo permetteranno, in attesa di altri ordini. Poi il 23 il provveditore Cristoforo Moro, malato, lascia il campo per Venezia e due emissari imperiali ingiungono al Capello di allontanarsi da quei luoghi che appartengono all'Imperatore, lamentandosi per i danni loro arrecati. Il provveditore, scusandosi per i danni, fa osservare che i veneti hanno il medesimo titolo per stare sui territori dell'Imperatore di quanto ne abbiano gli spagnoli di stare sul territorio bresciano, che è di Venezia. Scrive anche Nicolò Michiel dagli Orzi in data 21 e manda informazioni di interesse soprattutto militare; riporta tuttavia un tentativo dei bresciani di farsi ratificare dei privilegi dal vicerè, il quale risponde che ciò sarà fatto quando la Lega avrà dichiarato chi è il signore di Brescia.

Gli oratori Foscari e Lando informano da Roma che il 19 il Papa ha sottoscritto un accordo con l'Imperatore. Nulla si sa del contenuto, ma gli oratori spagnoli non lo hanno sottoscritto. Pare, riferiscono gli ambasciatori veneti, che il Papa abbia voluto questo accordo per la gran paura che ha del Concilio, che è stato convocato per il 3 dicembre. Vi sono state nel frattempo nuove rimostranze degli oratori di Venezia al Papa, il quale ha addossato a Venezia il rifiuto di un accordo che pretende sia a favore della Signoria.

Si apprende in seguito che i capitoli dell'accordo firmato prevederebbero quanto segue: Padova e Treviso restano a Venezia; il Friuli rimane impregiudicato, a disposizione del Papa; Verona e Vicenza coi loro territori vanno all'Imperatore; Bergamo, Crema e Brescia vanno a Venezia; Cremona e Geradadda a Milano; 300 mila fiorini all'Imperatore per l'investitura di Padova e Treviso, oltre a 30 mila ducati l'anno; Parma, Piacenza, Reggio e Ferrara al Papa; Milano a Massimiliano Sforza, che dovrà sposare una figlia dell'arciduca di Borgogna. Venezia avrà 20 giorni di tempo per accettare, altrimenti si darà aiuto all'Imperatore per recuperare le terre che gli spettano, in base ai capitoli della Lega di Cambrai.

Quando a Venezia si conoscono i termini di questo accordo, si va rimproverando sempre più apertamente al Papa la sua avversione alla Repubblica; per questo, tutti reclamano un accordo con il Re di Francia. Si ritiene anzi che il Collegio stia già discutendo di questo. L'ambasciatore spagnolo con ciera meninchonica dice di aver saputo che il Papa ha fatto l'accordo senza l'approvazione degli spagnoli e che forsi l'è per lo mejo, e si lassi far a Dio; con tal parole. Il Principe li rispose verba pro verbis [SAN, XV, 352].

Scrive da Milano il Caroldo di essere lì arrivato da Vigevano con il cardinale svizzero. Il Duchetto è a Cremona e verrà a Milano per insediarsi, ma senza l'approvazione degli spagnoli; gradirebbe tuttavia l'assenso di Venezia perché i due stati uniti potrebbero essere molto forti.

Il 26 novembre si apprende a Venezia dal Guidotti che il vicerè ha deciso di spostare l'esercito sul bergamasco; il Caroldo l'ha pregato di non far danno ai sudditi veneti, ma costui dice che è necessario porre al riparo l'esercito, non solo sul bergamasco, ma addirittura in Bergamo. Anche il Capello a Ronchi ha saputo che il vicerè vuole andare sul bergamasco: per questo il da Mosto gli ha chiesto quattro homeni da capo. E Nicolò Michiel dagli Orzi comunica che il 23 le fanterie spagnole passeranno l'Oglio verso Romano e Martinengo. Conferma anche che il vicerè si incontrerà a Soresina col Duchetto. Il 20 ed il 22 il Lippomanno scrive da Bergamo confermando i timori per la venuta degli spagnoli sul bergamasco.

Dicono i diari del Beretta a questo proposito: Die 24 novembris 1512 et successive venerunt pedites Hispani ex Cremonensi et Brixiensi in agrum Bergomensem, videlicet, Martinengum, Romanum, Colonium, Urgnanum, Spiranum, Luranum, Arcene, Stezate, Verdellum, Vallem Triscurii, Scanzium, Alzanum, Vallem Breni, et totam Insulam, et alia loca et valles, ubi steterunt expensis civium et rusticorum, dicentes velle ire in Mediolanum ad reponendum in statu Ducatus Maximilianum Sfortiam, qui erat Soresinæ, et cum montes et planities Bergomi superbe nimis et intolerabilibus impensis haurirent et vastarent, essetque apud Viceregem Hispanum in Soncino d.nus Vincentius Guidottus secretarius Venetus, rogans eum continue ad supplicationem Bergomensium, ut levaret Bergomenses tantis damnis, declararetque impossibile esse pedites quinque mille posse alimentari in tam sterili territorio... [BER, 108v].

Lettere da Roma del 24 dicono, tra l'altro, che il Papa ha nominato cardinale con il titolo di sant'Angelo Matteo Lang, vescovo Curzense, il quale non parteciperà tuttavia al Concilio del 3 dicembre; egli vorrebbe invece andare a Milano per insediare personalmente il Duchetto. Gli oratori informano poi che in vari modi si sta premendo sul Papa circa gli accordi, dei quali tutti a Roma si dolgono, dicendo che è bon provedersi la Signoria e non star più. Il giorno stesso il Papa fa chiamare il Lando e, in udienza segretissima gli comunica che si duol separarsi di la Signoria, e che è mal lassarla sola, e che la non vol l'acordo e li capitoli interloquti, però etiam lui è nostro amico, et si ben ha fato l'acordo, però non sarà altro, perché el manderà a la Signoria domino Zuan Stafileo episcopo de Sibinico a tratar dito acordo... e debi avisar secretissime la Signoria nostra, perché l'ama et è bon pastor verso quella [SAN, XV, 360].

Reiteratamente, tra il 29 ed il 30 novembre l'oratore spagnolo, conte di Cariate, prega che si rimuovano le truppe venete dal veronese per non dare occasione all'Imperatore di rompere la tregua; chiede anche il resto dei denari per il vicerè. Il Doge replica ancora una volta che gli spagnoli sono sul territorio bresciano che spetta a Venezia; tuttavia, si consulterà con i Savi. Intanto il Duchetto sta a Soresina e si prepara ad entrare in Milano con un ricco seguito. Gli spagnoli sono sempre a Soncino, in attesa delle risoluzioni della Lega da Roma.

Evidentemente spaventato per l'approssimarsi dell'esercito spagnolo, il Consiglio bergamasco propone ed approva il 29 novembre [Az 12, 36r] la parte seguente:

Ut civitas nostra ostendat priscam et antiquam fidem et devotionem versus serenissimum statum Dominii nostri Venetorum, et pro presentibus bellicis occurrentiis ipsa civitas possit se tueri ab omni periculo et suspitione periculi; ibit pars quod elligantur tercenti provisionati apti et idonei ad arma, qui non habitent in civitate nec suburbiis, et plus et minus prout spectabilibus Antianis presentibus et futuris videbitur necessarium, quibus sit attributa omnis libertas et facultas circa hoc, et inveniendi pro hac exequtione denarios quocumque modo nomine mag.ce comunitatis et quietationes et obligationes debitas pro dictis denariis faciendis; et dicti provisionati elligantur per dies decem, et plus etiam si opus fuerit, arbitrio prefatorum dominorum Ancianorum et distribuantur sub ordine et regimine trium capitum civium idoneorum et proborum elligendorum nunc per presens maius Consilium. Il quale Consiglio subito elegge i tre capi, che sono: Ottolino da Alzano, Fedrigino del Zoppo (sostituito poi dal conte Marco Calepio) e Gerolamo dela Vitalba. Il 30 novembre [Az 12, 48v] si assegnano a ciascuno dei tre capi 50 ducati d'oro, a titolo di anticipo per pagare i cinquanta uomini assegnati a ciascuno.

A conclusione di questo capitolo, si esaminano di seguito alcuni documenti di diversa natura, a cominciare da quelli riguardanti il territorio, Un documento di interesse generale, citato dal Baldi [BALDI, Reg. A, f. 64v] alla data dell'8 novembre è una decisione presa nel Senato veneto, secondo la quale tutti gli atti emanati dai giusdicenti e podestà alieni nei luoghi posseduti da Venezia prima della presente guerra siano annullati e revocati, secondo il tenore della parte presa dallo stesso Consiglio il 3 marzo 1510. Quell'ordine include le terre e luoghi fino al momento recuperati, come quelli che saranno recuperati, acciocché per tal causa non sia il Senato in dies infastidito.

Vi sono poi (alcune citate dal Baldi) talune disposizioni riguardanti la suddivisione delle spese per il mantenimento di genti d'armi. La prima [BALDI, Somm. Gr., 309] è del 14 novembre: Se bene per lettere de Proveditori de dì ultimo agosto 1512 era stato ordinato che le vallate non fossero astrette e contributione alcune di spese fatte per li stradiotti per il Piano et Città, non s'era però a loro osservato, anzi, comandato che alloggiassero genti d'armi, onde fu di novo per esse Vallate ricorso alli detti Provedidori da quali fossero replicate le lettere, perché a tal contributione di spese né meno alloggio de genti d'armi fossero astretti, dichiarandoli per la forma de loro privileggi essenti da simil aggravii, commettendoli però a Rettori di Bergamo il tutto tenessero in sospeso sinché dall'ecc.mo Senato fosse altrimente deliberato, al quale havevano indirizzato in nuntio d'esse Vallate, et come in lettere datte adì 14 novembre 1512 (Reg, I, 164 e IV, 74v).

Il 15 novembre i provveditori generali scrivono a Bartolomeo da Mosto dal campo presso Desenzano su questa materia [Lett. S.3.1, 18]. Essi ricordano di essersi occupati spesso in passato degli stradiotti inviati a Bergamo nonché di altre angherie e gravezze. L'ultima e fermissima loro deliberazione è che, senza indugio ed eccezione, a tutte le spese fatte per gli stradiotti e a qualunque altra spesa gli uomini delle valli e montagne e quelli del piano debbano contribuire per la rispettiva porzione dell'estimo. Così il provveditore eseguirà. La lettera fu presentata a Bergamo il 18 novembre e mandata ad esecuzione. Del medesimo giorno, il 15 novembre, è un'altra comunicazione dei provveditori al da Mosto [Lett. S.3.1, 19]. Secondo il testo, un nunzio delle valli ha riferito che, contro i loro privilegi e contro quanto scritto dai provveditori lo scorso 30 agosto al da Mosto, costui li vuole costringere a contribuire (insieme con il piano) alle spese per gli stradiotti che furono alla custodia; inoltre, egli vuole loro accollare in tutto o in parte le spese di genti d'arme e stradiotti che stanno in quelle valli; ciò è contrario ai loro privilegi. Il da Mosto non può assolutamente consentire che i privilegi siano contraddetti, anzi, essi devono essere osservati. Pertanto non imputerà alle valli l'alloggio di genti d'arme o di stradiotti né chiederà che contribuiscano a tali spese, fino a nuovo ordine della Signoria, alla quale il nunzio delle valli è stato riferito ed indirizzato. Attenda quindi gli ordini e tenga ogni azione in sospeso fino ad allora.

Secondo il Baldi [BALDI, Somm. Gr., 309v], il 18 novembre gli abitanti del piano di Bergamo ancora una volta ricorrono ai provveditori per ottenere lettere contro l'esenzione dalle contribuzioni delle valli. I provveditori comandano quindi ai rettori di Bergamo che le vallate contribuiscano secondo il loro estimo, dichiarando che questa è la loro ultima intenzione e volontà. Ma, alle proteste dei valligiani, ancora una volta i provveditori si ricredono, asserendo che le lettere a favore del piano sono state estorte a loro insaputa. Comandano pertanto la restituzione dei pegni tolti alle valli e la sospensione della causa fino a nuova deliberazione del Senato. Ciò avviene alla data del 29 novembre ed il 6 dicembre successivo i Rettori comandano la restituzione dei pegni (Reg. I, 156 e IV, 74). Un'ultima lettera di Paolo Capello ad da Mosto su questa questione è datata da Ronco il 29 novembre [Lett. S.3.1, 11; anche in BALDI, Reg. A, f. 124r]. Il provveditore ricorda che molte volte egli stesso ed il suo collega hanno scritto sulla controversia tra il piano e le valli a proposito delle spese degli stradiotti. Egli è ormai stanco di ascoltare gli ambasciatori delle due parti. Il 14 novembre era stato scritto al da Mosto a favore delle valli perchè non intraprendesse azione alcuna in tal materia senza ordini dalla Signoria. Ora i valligiani sono ritornati e si sono lamentati che il da Mosto continua a molestarli ed avrebbe inoltre affermato che le lettere del 14 sono state ritirate il 15. Lo scrivente non ricorda che vi sia stata una seconda lettera, anzi, rimane fermo nel suo proposito del 14 e ribadisce che il da Mosto deve ubbidire a quelle lettere fino a nuovo ordine della Signoria. Faccia quindi restituire ogni pegno sequestrato, subito e senza spesa, perché così vuole l'equità, non avendo ancora stabilito la Signoria chi sia il debitore. Et non mi lassarà venir più ale orechie simel molestie. Un appunto in calce dice che il 6 dicembre il da Mosto, in esecuzione delle precedenti del 29 novembre presentatigli da un nunzio delle valli, così richiedendo anche Domenico Benzoni pignorato a nome delle valli, scrive per sbloccare i pegni.

Sulla questione dell'amministrazione del territorio, vi è anche una piccola appendice alla questione della ribellione di Lovere [Lett. S.3.1, 13]. Il 25 novembre il Capello scrive al da Mosto da Ronco, informandolo che si è presentato a lui Zuan de Lolmo da Bergamo, medico fisico, il quale ha presentato lettere direttive perché lo si elegga podestà di Lovere. E siccome il Capello lo ama molto e desidera riconoscere i suoi meriti verso lo stato, scrive ordinando che il da Mosto voglia subito far eseguire tali lettere, per convenienti rispetti concernenti il bene pubblico. E se detto magistrato fosse per arte sta' riferito ad altri, me ne... Vostra Magnificentia facia dar la possession del prefato officio de Podestà, et come è predito cun ogni presteza; a lui recomendandome. Non consta peraltro che questo personaggio sia mai stato alla podestaria del paese del Sebino.

Si riuniscono infine qui di seguito tutte le lettere indirizzate al da Mosto da diverse persone, riguardanti militari o materie di carattere militare. Il 2 novembre dal campo presso Brescia scrivono i provveditori [Lett. S.3.1, 23]. Essi ricordano di avere già chiesto in precedenza che nella causa di Paolo di Ondei, uomo d'armi di Marco Antonio Motella, il da Mosto si astenesse dall'emettere sentenza fino a quando l'interessato potesse venire a Bergamo. Egli si trova in campo al servizio della Signoria ed ha una causa per alimenti chiesti dalla madre Franceschina. Essendo intervenuti fatti nuovi, i provveditori chiedono che entro 10 giorni da oggi, nonostante una precedente lettera del 19, il da Mosto senta la parte e faccia giustizia.

Oldrado e Nicolò Lampugnano scrivono da Trezzo il 7 novembre [Lett. S.3.1, 22] attirando l'attenzione del provveditore sul fatto che certe persone da Chavrià, soprattutto alcuni di cui mandano il nome, danno aiuto di vettovaglie al castello di Trezzo e fanno altre male azioni in pregiudizio di tutti, propalando informazioni. Pregano quindi di fare quanto gli parrà conveniente perché quegli uomini si astengano da tale commercio. Il nome degli interessati è in una Memoria de li homini che dano aiuto al Castello [Lett. S.3.1, 21]: si tratta di Baldesar dal Gixo, Antonio e Tonolo consule suoi figlioli e Iacomo Maria di Cataneis, tutti dati come abitanti di Chavrià.

Il 10 novembre da Desenzano i provveditori indirizzano una lettera [Lett. 9.3.6. # 39] che dice:

Il presente lator è soldato el milita sotto el sp.le conte Alexandro Donato, capo nostro di cavalli leggieri, el qual alias fu piezo de quelli zentilhomeni di Lupi per certa lana, etc., come da lui vostra Magnificentia intenderà. Et per che par che li creditori vogliano astrenzerlo a la satisfactione de dita lana, cosa aliena da ogni ragione, perhò pregamo vostra Magnificentia voglia, sì per esser securtà come per esser soldato, far che ditti creditori astrengano li principali debitori, che sono i diti de i Lupi quali de iure debbono esser prima constreti, non permettendo che dicto soldato nostro sia molestato per dicta causa, come recercha ogni iustitia. Tamen, se la Magnificentia vostra ha altro in contrario, rescriva..... Il 14 la lettera viene presentata al provveditore da Dario Mapello a nome di Giovan Andrea de Urio, stipendiato del Donato, il quale è evidentemente la persona interessata a chiederne l'esecuzione.

Un'altra lettera dei provveditori da Desenzano dell'11 novembre è in sostanza una richiesta di informazioni [Lett. S.3.1, 16]. Un tale Pedercino da Bergamo, per conto del cittadino Cristoforo Fontana, ha riferito circa quattro debitori, tutti da Bonate, a cui essi provveditori hanno rilasciato una sospensione di sei mesi per debiti privati, a causa di danni subiti per il maltempo. Pedercino afferma che per questo debito il da Mosto ha invece fatto loro un salvacondotto per due mesi e in passato per sei mesi; un altro salvacondotto era loro stato rilasciato per due anni dai francesi. I provveditori non credono interamente a tutto ciò e chiedono al da Mosto informazioni su Cristoforo Fontana, sia sulla sua fede verso la Signoria, sia per l'annullamento del salvacondotto, sia sul merito del salvacondotto in rapporto ai danni subiti.

Si ricordano ancora una lettera dei provveditori da Desenzano (13 novembre) [Lett. S.3.1, 17] circa un militare che si trova al campo, Betin da Bergamo, che pare sia molestato per una controversia che ha con Gasparo da Solza, il quale vuole tirare la causa per le lunghe e riferirla a Venezia: faccia il da Mosto citare Gasparo entro otto giorni. Andrea Faletro, provveditore di Lendinara, scrive al da Mosto il 17 novembre [Lett. S.3.1, 12]. Il latore della lettera, Bartolomeo Borello da Bergamo, ha una causa con il fratello Giovan Giacomo per un certo credito. Bartolomeo gli è stato caldamente raccomandato dal podestà di Vicenza Francesco Faletro, perché si è adoperato per lui in certe importanti circostanze. E siccome lo scrivente non può provvedere da Lendinara perché il fratello non ha avanzato alcuna richiesta, voglia gentilmente il da Mosto dare spedizione alla causa, essendosi Bartolomeo adoperato per la Signoria.

L'ultima lettera [Lett. S.3.1, 15] viene da Nicolò Arcimboldo, commissario generale di Trezzo, il 20 novembre. Una persona del da Mosto lo ha informato che Costantino Paleologo si è lamentato presso lo stesso da Mosto perché soldati dello scrivente hanno fatto prigioniero un suo stradiotto e, come richiesto dal da Mosto, questo non è stato rilasciato. Informa che ieri mattina essendo assaltati li nostri da li franzesi, tuti venerno cridando Marcho et Franza et da molti de nostri fu conosuto che insieme cum lor gli era questo stradioto, et che più dete de le ferite a de li nostri, et quando fu preso haveva la lanza sanguinante, et fu preso pocho de dreto ali franzesi quando se retiravano et proprio andava dreto a loro, solo che non consona andasse per offenderli; et ultra di questo ne è acertato che lui da pochi dì in qua era nel castelo. Per questo questi nostri capitanei et soldati se rendeno difficili a relassare uno soldato del Barone; ma, o soldato suo o no, s'è demonstrato inimico. Io ho preso questi mezi: farò examinare questi me hano dito le suprascripte cose et mandarò el dito suo ala M.V., la qual si pò render certa che no si mancherà per conservare la optima amicitia è fra questi dui ill.mi stati.... La lettera ha un certo interesse in quanto riferisce di alcuni fatti d'arme al confine milanese, dei quali è tuttavia piuttosto difficile stabilire la data precisa.

Nel complesso, gli avvenimenti del novembre a Bergamo appaiono generalmente privi di interesse, mentre ci si prepara all'arrivo delle truppe spagnole sul territorio ed in città. Il campo veneto si è allontanato da Brescia verso il veronese e la Lombardia appare sempre più sotto la minaccia delle truppe svizzere e spagnole. Importante invece appare il periodo per la definizione della politica di Venezia e la struttura delle alleanze, perché si va delineando sempre più chiara la possibilità di un accordo tra la Repubblica - molto delusa nei confronti di Giulio II per il tradimento delle sue aspettative di riacquisizione delle città della terraferma veneta - ed i francesi.