CAPITOLO 2 - L'ANTEFATTO





Dalla Lega di Cambrai (1508) alla rotta di Agnadello (1509)

Nell'estate del 1508, a causa della politica aggressiva che in precedenza aveva adottato soprattutto nei confronti delle potenze italiane, Venezia si trova a dover fronteggiare contemporaneamente molti nemici. Il più determinato di tutti, colui che funge da atalizzatore della comune reazione, è papa Giulio II della Rovere. Egli intende promuovere un'alleanza della cristianità occidentale contro il Turco e sa che, escludendo dall'alleanza Venezia, favorirebbe le rivendicazioni degli alleati nei confronti della Repubblica. Egli stesso, d'altra parte, è il primo a volere la restituzione delle città di Romagna che Venezia aveva sottratto al Papato pochi anni prima, alla morte del pontefice Alessandro VI. La lista di coloro che avanzano rivendicazioni nei confronti della Repubblica veneta è molto lunga. Nell'Italia settentrionale vi è l'Imperatore d'Austria Massimiliano, ansioso di riguadagnare il controllo delle terre poste ad oriente del Mincio, cioè Verona, Vicenza, Padova, Treviso e Friuli, nonché dell'Istria, terre che Venezia teneva dal secolo precedente a titolo di vicariato imperiale, poi di fatto trasformato in possesso. Vi è il re francese Luigi XII il quale rivendica diritti su Bergamo, Brescia, Crema e Cremona (quest'ultima ambita anche da Massimiliano), territori che Venezia aveva acquisito con il trattato di Blois. Nel meridione d'Italia, il re d'Aragona vorrebbe occupare Bari, Brindisi ed Otranto; ad est, l'Ungheria guarda alla Dalmazia; per non parlare di Cipro, alla quale tiene il duca di Savoia, e dei signori di Mantova e Ferrara, che reclamano i loro propri territori.

Questi sono, in breve, gli interessi politici e territoriali che stanno alla base di una Lega conclusa il 10 dicembre 1508 a Cambrai, secondo la quale, in caso di sconfitta, Venezia non avrebbe potuto sopravvivere come stato, ma solo come città, passando i territori descritti ai rispettivi pretendenti. Una tale prospettiva allarma comprensibilmente la Serenissima che si vede isolata e cerca di rappacificarsi con il papa e l'imperatore; ma i suoi sforzi non sortiscono effetto alcuno. Sarebbe stato invero difficile per Venezia riconciliare la conservazione della sua indipendenza, nonché di tutti i vantaggi che le erano venuti dall'espansione in Terraferma, con le condizioni che Giulio II indirettamente le detta con il suo monitorio del 27 aprile 1509. Esso contesta infatti alla Repubblica le usurpazioni territoriali in Romagna, il rifiuto alla loro restituzione, le pretese di ingerirsi nel conferimento dei benefici ecclesiastici nei territori veneti, di imporre decime e di esercitare la propria giurisdizione sul clero. In mancanza di un formale atto di sottomissione da presentare entro un mese, Venezia sarebbe stata colpita da scomunica ed i suoi territori da interdetto. La Repubblica in un primo tempo risponde appellandosi al Concilio. Ma si tratta soltanto di un'opposizione di carattere giuridico. Per ulteriori dettagli di questi avvenimenti, cfr. Belotti [1989], in particolare al vol. IV; Cozzi [1986], specialmente alla parte I, cap. V; Lane [1978], al cap. XVII; Norwick [1983], soprattutto ai capp. 30-32; Silini [1992], al cap. II.

Ben altri sono tuttavia i problemi immediati che Venezia deve fronteggiare, perché proprio nei primi mesi del 1509 nella Terraferma veneta, dopo una lunga fase di riarmo, ci si sta avviando alla guerra. Da tempo Bergamo ed il suo territorio erano stati pesantemente chiamati a contribuire. Così, nel dicembre 1507 [BALDI, Somm. Gr., 296v] il Senato veneto distribuisce 10.995 cavalli su tutta la Terra Ferma, 900 dei quali toccano al territorio bergamasco. E, come sempre, vi sono dispute infinite su chi sia tenuto a pagarli. I provveditori generali dichiarano che alle spese di cavalli, condotte, guastatori ed altro tutti sono tenuti a contribuire, sia gli esenti e privilegiati che non, come in una terminazione del 18 aprile 1508 [BALDI, Somm. Gr., 297v]. Silini [SILINI, 1992] ha documentato sulla base di informazioni per Lovere gli ingenti sforzi di uomini, denari e mezzi che questa parte del territorio stava affrontando.

Non appare agevole delineare con sicurezza, nella massa di informazioni spesso conflittuali raccolte dalle varie fonti, quale sia stata la disposizione delle diverse forze in campo e quale la successione degli eventi. Per questo, è sembrato più opportuno affidarsi a dei testimoni che hanno vissuto gli avvenimenti narrati e li hanno riportati con vivezza di dettagli, anche se talvolta con scarsa precisione, con qualche difetto di prospettiva e con l'inevitabile parzialità di chi tali avvenimenti aveva personalmente sofferto. Si tratta, innanzitutto, di un frammento di Diario di Pietro Assonica [ASS], che copre il periodo 1509-1511, in cui l'autore si sforza di narrare, in una prosa latina non priva di eleganza, oltre alle sue vicende personali, anche l'evoluzione della situazione politico-militare generale nei territori della Terraferma veneta. In secondo luogo, ci sono rimasti i Diari di Marco Beretta [BER], riguardanti l'intero periodo delle guerra d'Italia, i quali, in un latino più approssimativo, complementano utilmente le cronache dell'Assonica, soprattutto in un'ottica bergamasca, ponendo l'accento sulle vicende, anche minute, della città nel corso di questo periodo storico particolarmente turbolento. A queste due principali fonti, poco aggiunge un altro frammento di Cronaca di Giovan Battista Quarenghi [QUA], poco ricco ed informativo e piuttosto disordinato.

A tutte queste principali fonti la presente narrazione - come del resto quella di altri storici locali, anche quando non le citano specificamente - in larga parte si rifà, omettendo quelle notizie che sono parse meno importanti, come le esecuzioni capitali, le morti improvvise, i segni celesti ed altri dettagli di genere cui gli autori dell'epoca attribuivano importanza come segni premonitori di ulteriori sciagure, quasicché gli avvenimenti veri riportati fossero di poco conto. La citazione puntuale di chi e dove abbia riportato quale notizia avrebbe appesantito intollerabilmente il testo che segue. Sappia quindi il lettore che nelle opere citate sono da ricercare le informazioni che vengono qui fornite, integrate da altri testi moderni ed ordinate a seconda delle specifiche esigenze della presente trattazione.

A partire dal febbraio 1509, più frequenti ed insistenti si fanno le disposizioni del governo veneto di Bergamo, per fronteggiare una situazione avviata ormai verso uno scontro campale. Il 16 febbraio i rettori della città, il podestà Alvise Garzoni ed il capitano Francesco Venier, ordinano il blocco di qualsiasi scambio di vettovaglie e di materiale strategico tra il territorio e l'esterno quia ser.mus Ludovicus rex Francorum et Mediolani dux, erat in dissentione et inimicitia cum prælibato ex.mo Dominio, et erat rumor belli futuri, qua de re fiebant utrimque multi apparatus bellici [BER, 54v]. Contemporaneamente, il Consiglio della città provvede alla nomina di dieci deputati per predisporre, con maggior celerità ed in collaborazione con i rettori, le difese e la raccolta del denaro necessario. Ed il 21 febbraio [ibidem] si prendono disposizioni per il reclutamento degli uomini validi alle armi nella città e nei sobborghi, e di un ingente numero di guastatori sull'intero territorio.

Venezia è informata e conscia dei pericoli incombenti e cerca in ogni modo di rincuorare i bergamaschi. A questo scopo tendono le lettere che provengono dalla capitale e dai provveditori in campo verso la fine di marzo e l'inizio di aprile del 1509. Tra queste, si ricorda una ducale di Leonardo Loredan ai rettori con la quale si lodano i bergamaschi per la loro fede e dedizione al Dominio [24 marzo 1509; R. 99. 23, 279r] ed altre ducali [26 marzo 1509; ibidem] in risposta a lettere rettorali che informavano Venezia come alcuni cittadini fossero in ansia per certe preoccupanti notizie venute da Milano: il doge dichiara trattarsi semplicemente di artificii et stratagema di Francesi per causar qualche timor ali subditi nostri. Dice ancora che si è approntato un potente et valido exercito che non solum harà ad far star sicuri et quieti dicti fidelissimi nostri, ma sarà causa gagliardamente conservar et deffender in ogni occorrentia tutto el stato nostro da chi havesse mal animo contra quello. La fede dei bergamaschi è, secondo il doge, la miglior garanzia di stabilità ed i provveditori generali che stanno per lasciare Venezia avranno buona custodia della città, a difesa della quale saranno inviate anche artiglierie e truppe. Si chiede ai rettori di spiegare tutto questo ai bergamaschi perché si conservino nella loro buona disposizione verso la Signoria.

Anche i provveditori Giorgio Corner ed Andrea Gritti (che erano stati nominati a Venezia il 14 marzo) scrivono il 6 aprile 1509 [R. 99. 23, 279v]. Dicono di aver ricevuto ambasciatori della città, ai quali hanno chiarito le loro intenzioni, che ora mandano per iscritto ai rettori. Ad essi ordinano di rafforzare le guardie nei fortilizi, senza badare a spese, di accrescere le scorte e l'armamento della città e delle valli. Ed impongono anche di sostenere il morale dei bergamaschi, e di segnalare tutte quelle necessità che non potessero essere assolte localmente. Ed i deputati cittadini rispondono ai provveditori il successivo 11 aprile [R. 99. 23, 280r] ringraziando per le buone parole ed assicurandoli della loro fedeltà a Venezia. Riferiscono che il giorno stesso i rettori hanno convocato il Consiglio della città, nel quale gli ambasciatori inviati al campo hanno fatto una completa relazione della buona accoglienza ricevuta; poi sono state lette le lettere ai rettori del 6 aprile; e tutti hanno manifestato una grande commozione per la sollecitudine espressa dai rappresentanti del Dominio. Infine, protestano ancora la loro prontezza ad ogni comando della Repubblica. Ma quanto Venezia stesse sottovalutando i pericoli della situazione si incaricheranno presto i fatti di dimostrare.

Dal complesso delle informazioni, sembra di poter concludere che, a protezione del territorio bergamasco contro l'esercito francese, la Repubblica veneta aveva posto in opera le seguenti difese. Innanzitutto il censimento degli uomini, delle armi e delle vettovaglie cui si è già accennato. Poi, il richiamo dall'Emilia di cinquecento fanti agli ordini del bergamasco Lattanzio Bongi inviati alla custodia della Ghiara d'Adda; cento balestrieri comandati da Raniero Sassetta schierati a Ripalta Secca; altri settanta con Vitellozzo Vitelli a Treviglio; duecento stradiotti a Verdello ed Osio inferiore e lungo il corso dell'Adda (25 marzo); circa duecento uomini d'arme a Caravaggio, sotto Taddeo Martinengo della Motella e Carlo Secco; si menzionano anche, fra Treviglio e Caravaggio, trecento uomini d'arme, comandati dallo stesso Alviano. In tutto, alcune centinaia di uomini delle diverse specialità, per fronteggiare le truppe francesi che tra marzo ed l'inizio di aprile, vanno effettuando scorrerie al di qua dell'Adda e procurando danni nella pianura bergamasca.

Così, il 10 marzo, in occasione di un'ispezione da parte di Nicolò Orsini di Pitiliano, capitano generale dell'esercito veneto, ai fortilizi del territorio bergamasco, truppe milanesi di fanteria e di cavalleria leggera passano l'Adda verso Pontirolo, come se volessero aggredire lo stesso capitano. La guerra non è ancora stata dichiarata e la frontiera veneto-milanese è tuttora aperta. Ma presto (14 marzo) i milanesi richiamano i patria i loro sudditi, specialmente i militari e coloro che possono essere di utilità per approntare le difese, bloccando sotto pene severissime l'accesso al bergamasco. Con mossa speculare, il 18 marzo, si annuncia a Bergamo che nessun milanese potrà lasciare le terre del Dominio veneto, senza speciale permesso.

Si prolungano per quasi un mese le schermaglie preliminari, che servono ai due eserciti per ultimare i preparativi, disporre gli schieramenti e saggiare le reciproche intenzioni. I primi a muoversi sono i francesi, ed il giorno cruciale è il 15 aprile 1509 quando, alle prime luci dell'alba attraversano l'Adda, sorprendendo i Veneti che, dice l'Assonica [ASS], non avevano disposte le guardie, non avevano mandato esploratori, non avevano custodie armate e nulla temevano, ritenendosi al sicuro. La manovra dell'esercito francese si sviluppa lungo tre direttrici: a nord, con l'aiuto di tremila brianzoli l'esercito del re da Brivio, Lecco ed Olginate assale e devasta Villa d'Adda e si dirige poi verso Caprino dove quei valligiani, avendo chiesto invano soccorso alla città, riescono a far fronte all'assalto, non senza molte uccisioni e devastazioni. Più a sud, le truppe del re conquistano e largamente distruggono l'Isola bergamasca. Ancora più in basso verso Cassano si concentra la parte più valida dei militari francesi e milanesi che, procedendo verso Treviglio, riesce ad attirare in un tranello le truppe di cavalleria leggera di Giustiniano Mauroceno e novecento stradiotti di Vincenzo Naldi che vi erano accorsi. I veneti tentano di rifugiarsi in città, ma i trevigliesi chiudono le porte e li lasciano in balìa dei francesi, decidendo di arrendersi ai francesi del Gran Maestro Carlo d'Amboise, con i quali essi erano di fatto conniventi. Il podestà di Treviglio Vitellozzo Vitelli viene trascinato con un laccio al collo di fronte al Gran Maestro, cui lo stesso Mauroceno è costretto a baciare il piede.

Quando vengono annunciate a Bergamo la caduta dell'Isola e le stragi della valle di san Martino, si diffonde la paura. Il 15 aprile si pongono custodie in città ed alle porte e si istituisce un coprifuoco. La città non era custodita da presidi armati ed i dieci deputati eletti alla guerra parevano del tutto incapaci di predisporre le difese. Quando poi si conosce la rovina di Treviglio, dove il podestà ed i comandanti erano stati catturati, e si annuncia la perdita della Ghiara d'Adda, la paura diventa orrore e vengono alla luce gli odi intestini con la richiesta, non tuttavia esaudita, di prendere ostaggi ghibellini, a garanzia della parte avversa. Lo stato d'animo dei bergamaschi è vivacemente descritto dall'Assonica [ASS] il quale riferisce che il 16 aprile 1509 in città si diffonde la voce che i nemici si stanno avvicinando alle mura per entrare attraverso le porte meridionali. Suonano le campane a martello, si sprangano le case, vi è un trambusto generale di donne discinte e di torme urlanti che cercano di salvare le vite e le cose, risalendo le ripide strade e rifugiandosi tra le mura della città alta. Ma non di soldati nemici si tratta, bensì delle donne trevigliesi che cercano rifugio a Bergamo.

Dall'alto delle fortificazioni, attraverso le porte aperte, gli abitanti atterriti cercano di intravedere se davvero l'esercito nemico si sta avvicinando. Poi, a poco a poco, gli animi si acquietano e molti si ritrovano sulla piazza intorno al podestà per predisporre le difese. Allora si traggono le armi dai depositi per consegnarle ai cittadini, si piazzano i cannoni, si svuotano dagli abitanti e dalle suppellettili i borghi, particolarmente quello meridionale di san Leonardo. Ma i rettori bergamaschi faticano a trovare un accordo, e conseguentemente ad approntare una valida difesa.

I francesi invece sono più interessati ad assicurarsi il possesso del territorio conquistato, cioè l'Isola, la Ghiara, e tutto l'agro (tranne Caravaggio che resiste) e la valle di san Martino, ove fa eccezione Caprino che si oppone con tanto valore da vanificare ogni sforzo. Poi deviano verso la val Sassina, aggrediscono e saccheggiano Taleggio e prendono il castello di Pizzino, che vengono successivamente riconquistati.

Mentre hanno luogo queste schermaglie preliminari, nel milanese si va raccogliendo il nerbo dell'esercito francese comandato da Carlo Chaumont d'Amboise e da Gian Giacomo Triulzio. Si tratta di quarantamila soldati, tra i quali spiccano per la loro prestanza gli uomini d'arme della cavalleria pesante, ben supportati dall'artiglieria. Le truppe venete, per parte loro, convergono su Pontevico, dove si raccoglie intorno alla fine di aprile del 1509 un esercito disordinato, male armato e preparato, il cui numero è stimato tra quaranta e sessanta mila uomini. Di esso fanno parte stradiotti greci, zagadari, croati e schiavoni, fanti romagnoli, balestrieri, sclopeteri, truppe di cavalleria leggera, compagnie di ventura, provisionati al soldo governativo, cernide provenienti dal territorio. Li comandano il capitano generale Nicolò Orsini, conte di Pitiliano, e il capitano della cavalleria Bartolomeo Orsini, signore di Alviano, i quali hanno una forte rivalità personale, oltre a concezioni strategiche opposte. L'Alviano, infatti, più giovane ed energico, sollecita, contro il Pitiliano più saggio e temporeggiatore, una tattica d'attacco preventivo alle posizioni francesi sul territorio milanese. Com'è naturale, le divergenze tra i due sono fonte di grave irresolutezza che la Signoria veneta, per parte sua, non è in grado di dirimere. Gli ordini generali del Senato sono piuttosto vaghi: non ritirarsi dalla linea dell'Adda; difendere la Ghiara ed evitare lo scontro campale; impegnarsi soltanto in caso di necessità, oppure qualora la situazione dovesse presentarsi particolarmente favorevole. Anche i due provveditori Andrea Gritti e Giorgio Corner sono confluiti a Soncino.

Proprio al Gritti, a Manerbio, Bergamo invia un'ambasceria composta da Paolo Zanchi, Pietro Assonica ed Antonio Balbo per riferirgli dello stato della città, delle discordie interne, dell'apatia dei rettori; e per chiedergli che, oltre che governanti più capaci, voglia mandare alla città ed al territorio anche presidi adeguati. Alle quali richieste, dopo qualche esitazione, il governo militare risponde con l'invio di millecinquecento fanti comandati da Lattanzio Bonghi. Per parte sua, il Senato invia un altro provveditore, Marin Zorzi, che in un primo tempo rinuncia all'incarico, ma poi finisce per accettarlo, e al suo arrivo (2 maggio) viene accolto dai cittadini con grandi dimostrazioni di entusiasmo. Ma, commenta il Beretta [BER, 56r], minime providit, nisi bonis verbis hortando.

Alla fine di aprile 1509 l'esercito veneto avanza verso i confini occidentali: il 4 maggio è a Fornovo presso Caravaggio ed il 5, ricondotti all'obbedienza tutti i luoghi della Ghiara, dà il saccheggio a Rivolta e Brignano che si erano poco prima ribellate e si accampa a Rivolta. Poi, il 7 maggio, una parte delle truppe pone l'assedio a Treviglio, fortemente presidiata da millecinquecento guasconi sceltissimi, sessanta uomini d'arme ed ottanta cavalli leggeri. L'esercito regio, che stava all'armi al di là dell'Adda a Cassano, non osava muoversi, sapendosi impari alle forze venete. Queste rinnovano gli attacchi su Treviglio, ma alla fine si preferisce arrivare ad una composizione pacifica tra gli assediati francesi e gli assalitori: in cambio della restituzione dei prigionieri veneti catturati nel corso della precedente dedizione, il presidio francese viene lasciato uscire ed il paese dato in preda alle truppe dell'Alviano e di Dionisio Naldi, che fanno strage degli uomini, donne e beni. Poi, tutto quel che rimane viene dato alle fiamme per saldare il conto del tradimento precedente. Tutto questo viene commentato negativamente dalla pubblica opinione, la quale condanna il fatto che l'esercito veneto abbia lasciato uscire indenni i nemici francesi, ed abbia invece ucciso e dato alle fiamme gli italiani.

Intanto (1 maggio 1509) Luigi XII era entrato a Milano. Egli decide di avanzare subito verso Cassano e si fortifica a Rivolta. La strage di Treviglio è la causa occasionale della reazione dei francesi, il cui esercito varca l'Adda il 9 maggio: lo stesso re ed il Triulzi passano tra i primi per rincuorare le truppe. Vi è qualche disorientamento nel campo veneto, dove molti sono occupati a rapinare e vendere il bottino e per questo abbandonano i ranghi diretti verso i rispettivi luoghi d'origine, dove intendono rifugiarsi, rinunciando a combattere. I soldati hanno anche motivi di lamentela, perché le paghe dovute sono come sempre in ritardo ed essi non hanno di che sfamarsi: uno stato di cose addebitato ai provveditori. Se a questo si aggiungono le discordie e l'irresolutezza dei capitani, cui si è fatto cenno, si comprenderà come rimanga relativamente facile ai francesi assaltare e porre a fuoco Rivolta (12 maggio).

Gli eserciti si fronteggiano per cinque giorni e la battaglia campale viene impegnata il 14 maggio ad Agnadello dove, in poche ore, l'esercito veneto subisce una durissima sconfitta. Errori tattici e difficoltà di comunicazione tra le diverse parti dello schieramento veneto, unitamente alla superiorità del controllo delle truppe da parte francese, fanno sì che soltanto i soldati dell'Alviano schierati all'avanguardia veneta affrontino il combattimento con determinazione e coraggio e con perdite ingenti. Il grosso della truppa invece, ed in particolare la cavalleria pesante, perde il contatto con le avanguardie. E mentre ancora queste stanno combattendo e le sorti della battaglia permangono indecise, la cavalleria, presa dal panico, abbandona le armi e si dà ad una fuga precipitosa, nel tentativo di riparare verso Brescia, Crema e Cremona, ma non Bergamo. L'inclemenza del tempo non consente ai francesi di perseguire immediatamente i veneti in fuga e dà modo al Pitiliano di ripiegare su Caravaggio e poi su Chiari, dove invano tenta di riorganizzare l'esercito. Tale è il terrore dei fuggiaschi che, narra l'Assonica [ASS], vi fu chi non si accorse neppure di aver attraversato l'Oglio, che sta tra Agnadello e Brescia, dove si era riparato.

Il palleggiamento delle responsabilità della disfatta, sia a livello istituzionale che personale, durerà a lungo. Venezia biasimerà il Pitiliano ed il provveditore Cornaro, per il loro insufficiente impegno. Altri, come l'Alviano che cade prigioniero, accuserà di tradimento i condottieri Luigi Avogadro, Battista Martinengo, Giacomo Secco e Pietro Longhena. Un altro bresciano, Giovan Francesco Gambara, sarà fortemente sospettato di collusione con il Triulzio.

Le perdite di Venezia sono ingenti, ma ancor più grave appare la disfatta morale. Le truppe venete senza guida si disperdono per le campagne, ritirandosi in disordine verso i luoghi fortificati orientali della Terraferma. Il giorno dopo la battaglia (cioè il 15 maggio 1509) Pietro Assonica era in viaggio verso Venezia e si trovava a passare nei pressi di Brescia. Egli così descrive quanto gli capitò di osservare: ...si potevano scorgere intorno a Brescia gli ingenti resti dell'esercito, talché, se non avessero avuto scritto in volto l'orrore, si sarebbe potuto credere che il campo avesse cambiato collocazione, e non che l'esercito fosse stato vinto e posto in fuga. Si aggiunga anche che tutte le salmerie che procedevano per diverse strade si erano portate a salvamento. Si radunò un consiglio dei capi e si decise di ritenere chiunque era stato reclutato perché non si allontanasse; si posero anche guardie per intercettare i fuggitivi. Quando ciò fu conosciuto, molti fuggirono travestendosi, abbandonando le armi e lasciando i cavalli per ingannare le custodie. Non vi era alcuno che non fosse terrorizzato al solo nominare i Francesi [ASS].

Ottenuta la vittoria sul campo, il re francese avanza verso Caravaggio, dove la popolazione lo accoglie, ma la rocca resiste e cade soltanto il 15 maggio, sotto il martellamento dell'artiglieria francese. Il giorno 16 anche il castello di Martinengo cede ai francesi. Tutti i centri della pianura bresciana (Chiari, Rezzato, Lonato, Peschiera) si affrettano a consegnarsi. Poi gradualmente, i francesi procedono all'occupazione del territorio con colonne di uomini armati che si dirigono verso Palazzolo e Valcamonica attraverso la riviera orientale del Sebino. Il 18 maggio i francesi entrano a Bergamo: li comanda il milanese Antonio Maria Pallavicino, che si dichiara ben disposto verso la città. I rettori, il provveditore e le altre autorità venete vengono fatti prigionieri nell'episcopio ed il 20 maggio tradotti sotto scorta a Milano lachrimabiliter spectante civitate, come riferisce il marchesco Beretta. Anche a Brescia, il 20 maggio 1509, il consiglio municipale all'unanimità delibera la resa all'esercito veneto, che il 22 maggio è arrivato ad Ospitaletto. Il Triulzio e Marco Martinengo prendono possesso della città a nome del re, che il 23 maggio fa il suo solenne ingresso, con corteo di cardinali e nobili. I bresciano chiedono ed ottengono che il loro podestà, Sebastiano Giustinian, e la sua famiglia siano lasciati partire per Venezia. Anche Crema si arrende inviando ambasciatori al re, che concede al podestà veneto il ritorno in patria.
Toptop



Il periodo della dominazione francese (1509-1511)

La rotta di Agnadello segna un momento di gravissima difficoltà per la Repubblica veneta dà inizio nel territorio bergamasco al periodo della dominazione francese. Durante questo tempo la documentazione si fa relativamente scarsa ed incerta, ma la rapidità del collasso generale nei territori veneti autorizza a pensare che la fede dei sudditi non fosse affatto incrollabile, come Venezia riteneva. Questo è infatti ciò che più colpisce la Repubblica e ne causa l'iniziale profondo scoramento.

L'apparato statale francese è profondamente diverso da quello veneto. Esso fa capo al re, dal quale emana ogni potere. Nei territori italiani occupati il re esercita questo potere attraverso un suo Gran Maestro, carica nella quale si succedono dapprima Carlo di Amboise fino al 1511, poi temporaneamente monsignor de Dudes e infine, dal giugno 1511 e fino alla sua morte, Gastone de Foix. Nelle singole province vi è un luogotenente e, più tardi, vengono nominati un regio commissario ed un governatore, i quali hanno attributi simili, rispettivamente, a quelli del podestà e capitano veneti. A Milano siede poi il Senato, un organo di governo creato fino dal 1499 con funzioni di tribunale amministrativo di suprema istanza nel diritto civile e criminale.

Ecco come si esprime Francesco Bellafino, cancelliere della comunità di Bergamo in una sua valutazione generale del periodo di regime francese: Il cristianissimo Re dà le sue leggi ai Bergamaschi, crea prefetto della città Antonio Maria Pallavicino e podestà Agostino Panigarola, giurista esperto, uomo illustre per dottrina ed integrità ed illustre per bontà ed esperienza. Il Re concede in dono all'erario ed alla città 4000 ducati d'oro all'anno e crea un ordine senatorio di grande equità a garanzia della civile concordia. Promuovendo in modo ammirevole la munificenza, l'equità e la giustizia, governa per due anni, otto mesi e diciannove giorni [BEL]. Pare tuttavia difficile concordare con lui, come l'analisi delle informazioni che seguono ampiamente dimostrerà.

Non vi è dubbio che, inizialmente, nella province lombarde gli abitanti si dimostrino favorevoli ad accogliere le truppe occupanti; incuriositi dai costumi e dalla moda francesi, tendono a copiarli ed a fraternizzare. Per parte loro, i francesi conservano, almeno all'inizio, gli statuti e le leggi in vigore e la struttura amministrativa locale, rispettando le consuetudini. Ma presto, sul piano economico, vi sono misure protezionistiche da parte dei produttori e commercianti milanesi contro i panni di lana e le ferrarezze del bergamasco e del bresciano. Essendo venuto in tal modo a mancare lo sbocco verso il mercato di Venezia, da cui le provincie lombarde restano separate, ed essendo ostacolato il flusso delle merci verso il milanese, le condizioni dell'economia vanno progressivamente declinando. Anche l'agricoltura va male e si profila una scarsità di granaglie e carni. Per queste ragioni, a poco a poco, il sentimento comune va lentamente virando in senso anti-francese.

Non dissimile appare il giudizio del Pasero intorno al governo francese della confinante provincia bresciana. Dice egli infatti: Il nostro giudizio ... non può concludersi in senso positivo, anche considerando la brevità di quel dominio. Non eliminò gli innegabili difetti del precedente veneto e non favorì il progresso civile, acuì i dissidi interni e non valse a sopprimere le ingiustizie sociali, a migliorare i costumi e le condizioni di vita, a rinvigorire il funzionamento delle istituzioni comunali; non si preoccupò di far meglio respirare l'economia locale già così compressa da Venezia. L'intervento moderatore del senato milanese trovò frequente ostacolo nella sprezzante mentalità delle autorità militari, nella regale noncuranza dei diritti precostituiti, nella esosità del fisco; una certa confusione dei poteri e delle giurisdizioni e le frequenti manifestazioni di arbitrio e di malcostume amministrativo furono tali da rapidamente disgustare gli umori pubblici e da volgere in irritazione le iniziali simpatie [PAS].

Ma conviene dare spazio ai dati, esaminando di seguito l'evoluzione della situazione politico-militare generale tra il 1509 ed il 1511. Poi la situazione a Bergamo e nel distretto, nonché i rapporti tra città e territorio sotto il dominio francese, precedentemente al 1512. Sfortunatamente, una tale suddivisione dell'intera materia presenta qualche inconveniente perché costringe il lettore a considerare le vicende sotto punti di vista diversi, che potrebbero apparire artificiali. Tuttavia, il mantenimento di un rigido criterio cronologico nella descrizione di tutti gli accadimenti ad ogni livello - che pure è stato tentato in una prima redazione - crea salti continui tra vicende locali e generali che confondono eccessivamente il quadro d'insieme. Quest'ultima soluzione - che sarà invece utilizzata per il solo anno 1512 nei capitoli 3-14 - non si è dimostrata percorribile su un periodo più lungo.
Toptop



L'evoluzione della situazione politico-militare generale

Sotto la pressione dei francesi, l'esercito veneto in rotta va ripiegando rapidamente verso Venezia. Superata Brescia, dove le truppe non vengono accolte tra le mura della città, l'esercito si dirige verso Verona. Anche Crema - un presidio ritenuto inespugnabile e per la cui fortificazione Venezia aveva profuso ingenti sforzi e molto denaro - cade il 23 maggio per dedizione dei cittadini. E lo stesso accade a Cremona che viene presa il 16 giugno da Galeazzo Pallavicini senza alcuno sforzo. In pochi giorni, il re francese ottiene tutto quanto aveva convenuto a Cambrai. Peschiera, che avrebbe dovuto essere consegnata a Mantova, viene invece espugnata da Luigi XII, che vi entra il 30 maggio, con grande strage dei difensori ed impiccagione dei rettori veneti. Ciò fornirà in seguito al Papa il motivo per un'accusa di infrazione dei patti.

Il 2 giugno, Verona, abbandonata dall'esercito e dalle supreme magistrature venete, si consegna all'ambasciatore di Massimiliano presso il re, in attesa dell'Imperatore, che latita. Atteso invano il suo arrivo, il re francese lascia Peschiera verso Cremona, Crema e poi Milano, dove entra trionfalmente il 1° luglio cum pompa et spectaculis plurimis, toto Mediolano præ læitia gestiente ob adeptionem status Venetorum a lacu Benaco citra [BER, 61r]. Vicenza cade nelle mani di un nobile vicentino, Leonardo da Dressano, che, bandito dai veneti, fa ritorno in città e se ne impadronisce in qualità di vicario imperiale. A questa notizia anche Padova, i cui abitanti avevano ragioni di risentimento contro i veneziani, si sollevano. I capi militari ed i magistrati veneti abbandonano il campo, il Dressano chiede la resa a nome dell'Imperatore e i cittadini si consegnano, eleggendo ambasciatori a Massimiliano e sedici nobili al governo della città.

Alla fine della sua precipitosa ritirata verso la capitale, l'esercito veneto si insedia sulle rive della laguna. Venezia consegna a Massimiliano Trieste e Gorizia e manda, ma inutilmente, un oratore all'Imperatore nella speranza di addolcirne l'atteggiamento. In città prevale un clima di tristezza e disperazione e l'Assonica, che vi si trovava in occasione delle celebrazioni del Corpus Domini, descrive con grande efficacia il tono assai mesto, quasi luttuoso, delle cerimonie solitamente molto sfarzose e le misure per il presidio dei quartieri intorno alla piazza di san Marco, per controllare possibili subbugli. Molto interessante anche la sua narrazione dell'avventuroso viaggio da Venezia attraverso la Terraferma per il ritorno in patria con un gruppo di fuggiaschi, nel tentativo di ottemperare ad un richiamo di tutti i sudditi bergamaschi da parte del regime francese, sotto la minaccia della perdita di tutti i beni [ASS].

Come si è detto, nell'impossibilità di incontrarsi con l'Imperatore per pianificare le successive mosse contro Venezia, Luigi XII aveva lasciato Peschiera ed attraversato l'Adda con l'esercito. Il governo veneto immediatamente registra l'alleggerimento della situazione sul fronte francese e comincia a premere sui trevisani, che si preparavano a consegnarsi a Massimiliano, mandando un presidio in città: già il 10 giugno 1509 sulla città di Treviso sventola lo stendardo di san Marco. Non solo, ma anche il Friuli resiste e rimane fedele, ed Udine chiede addirittura un presidio di stradiotti, nell'eventualità di doversi difendere.

I veneziani cominciano a chiedersi se la reazione di scoramento alla sconfitta di Agnadello non sia stata eccessiva e vanno esplorando le possibili opzioni. In mezzo a profondi contrasti all'interno della classe dirigente, si va delineando una strategia a lungo termine, che è quella di affrontare gli avversari separatamente, utilizzando tattiche diverse. Appare chiaro come sia conveniente innanzitutto tacitare i nemici cedendo loro quelle terre che non possono comunque essere difese. Quindi, i porti della Puglia vengono restituiti al re di Napoli; Rovigo, Este, Monselice ed il Polesine, rivendicati dal duca di Ferrara, vengono da lui rioccupati; il marchese di Mantova riprende Asola e Lonato. Quanto alle città della Romagna - Ravenna, Rimini, Cervia e Faenza, che erano state all'origine della discordia - esse vengono riconsegnate il 28 maggio al rappresentante del Papa. E' altrettanto evidente che i territori lombardi in mano francese sono per il momento da considerare perduti. Tuttavia, quelli della Terraferma veneta presi in nome dell'Imperatore appaiono assai più aggredibili, tanto è vero che alcuni hanno sfidato impunemente l'Imperatore parteggiando per Venezia; inoltre, nei territori occupati, già pochi giorni dopo il passaggio dei poteri, gli abitanti hanno cominciato a sperimentare il regime più pesante e più sgradito dei commissari imperiali. Disgustati per le angherie e le ruberie delle truppe francesi, anche gli abitanti della città e territorio di Brescia cominciano a tumultuare ed a congiurare, costringendo il governo ad un forte controllo dell'ordine pubblico. Molti sono anche i fuorusciti dai territori, e soprattutto dalle valli in mano francese, che raggiungono l'esercito veneto.

Già nel giugno 1509, vi sono notizie di moti anti-imperiali nelle città cadute sotto il dominio di Massimiliano. Venezia li asseconda, anzi, il 17 luglio di quell'anno con un improvviso colpo di mano essa riesce a riconquistare Padova, alcuni luoghi del suo circondario e del Polesine, e Legnago, città importante sull'Adige, da dove si possono controllare le vie d'accesso a Vicenza e Verona. Massimiliano, da Trento dove si trova, verso il principio di agosto 1509 marcia su Padova con un esercito cui contribuiscono forze francesi, pontificie, spagnole, mantovane e ferraresi, in una congerie poco organizzata ed eterogenea. Ad esso si oppongono ventimila veneti assediati i quali, durante il mese che i loro oppositori impiegano per iniziare il cannoneggiamento, hanno tutto il tempo per approntare le difese. L'abilità e la disciplina dei veneti, comandati dal Pitiliano che intende in questa occasione rimediare allo smacco subito solo tre mesi prima, hanno ragione di ogni assalto; fino a che, il 30 settembre, Massimiliano decide di ritirarsi, con una grave perdita di prestigio.

Passando le Alpi pochi giorni dopo egli lascia indietro parte delle sue forze con il duca di Anhalt a difesa delle altre città venete. Rincuorato da questa vittoria, il 14 novembre 1509 il Pitiliano avanza anche verso Vicenza ed ha ragione dell'Anhalt che la difende. Un attacco su Verona una settimana dopo fallisce, ma altre città minori (Cittadella, Bassano, Feltre, Belluno, Este, Montagnana, Monselice) vengono intanto catturate. Un tentativo su Ferrara per via del Po (26 dicembre 1509) non ha successo.

E mentre interpreta e fomenta i segni di malcontento che si manifestano nei territori da lei precedentemente occupati ed ora in mano francese, Venezia inizia anche un difficile lavorìo diplomatico nei confronti di Giulio II. E' questa la partita più ardua perché il Papa era stato l'oppositore più pervicace della Repubblica, colui che aveva fornito le motivazioni della guerra ed aveva raccolto nella lega di Cambrai tutti gli altri nemici di Venezia. La Repubblica comincia con il sondare le condizioni del Pontefice per una eventuale rappacificazione, alla quale l'ambasciatore francese a Roma, comprensibilmente, si oppone. Proprio in quest'occasione si registra il primo dissenso politico tra Giulio II e Luigi XII, dissenso che diverrà poi palese, dapprima con il richiamo degli ambasciatori e poi con le altre mosse ostili che saranno appresso ricordate.

Una missione di sei nobili veneti inviata in un primo tempo a Roma riceve un trattamento quasi offensivo. Giulio II non si considera assolutamente soddisfatto dalla restituzione dei territori di Romagna e chiede quindi alla Repubblica, con le scuse formali, l'integrale accettazione dei patti sottoscritti a Cambrai. Queste condizioni vengono immediatamente rigettate dal Senato come del tutto inaccettabili. Ma il governo veneto, purtroppo, si ritrova in questo frangente totalmente sfiduciato ed abbandonato dalle potenze cristiane. Tenta allora l'impensabile, cioè di rivolgersi al Turco (11 settembre 1509), cioè alla potenza contro la quale gli alleati di Cambrai avevano inteso combattere: una mossa questa assolutamente inaudita per uno stato cristiano, da cui si può comprendere il grado di scoramento di Venezia.

Ma il Sultano non risponde all'appello ed allora, verso la fine dello stesso anno, ulteriormente scossa a questo punto per l'intervenuta sconfitta della flotta fluviale del dicembre 1509 cui si è accennato, Venezia si risolve a riconsiderare le proposte del Papa. Queste vengono formalizzate il 29 dicembre e di nuovo appaiono così gravose che il Senato ancora le rigetta. Dopo un ulteriore mese di trattative e piccole concessioni da parte del Pontefice, finalmente un accordo viene raggiunto. Il 24 febbraio 1510 a Roma, in una cerimonia altamente simbolica, Venezia chiede ed ottiene l'assoluzione dalla scomunica ed accetta le condizioni definitive. Esse prevedono la rinuncia ad appellarsi al Concilio, ad imporre le decime ecclesiastiche, ad esercitare la giurisdizione sul clero e sui sudditi papali, al controllo sull'attribuzione dei benefici; il riconoscimento della libertà di navigazione sull'Adriatico; la cessione del visdominato di Ferrara; e sanzionano la perdita delle terre di Romagna. La Repubblica accetta riluttante, protestando tuttavia di essere costretta dallo stato di necessità, denunciando l'onerosità del trattamento e riservandosi di riaprire la questione alla prossima opportuna occasione.

Comprensibilmente, la riconciliazione tra Venezia e Roma non viene bene accolta dagli altri membri della Lega, ed in particolare da Luigi XII, che si trova ora ad essere il principale bersaglio della politica del Pontefice, risoluto a scacciare dall'Italia le potenze straniere. L'annientamento di Venezia non comporta tuttavia ancora lo scioglimento della Lega di Cambrai. Nel gennaio 1510 muore il Pitiliano e la Repubblica deve affrontare il problema della sua sostituzione. Il comando supremo viene affidato ad Andrea Gritti. Non essendo un militare, costui fatica a conquistare la fiducia dei condottieri mercenari ed è in un primo tempo costretto a ritirarsi di fronte all'avanzata delle truppe congiunte francesi, tedesche e ferraresi. Queste riprendono Lignago e poi Vicenza il 24 marzo 1510. Ivi ha luogo un'orrenda strage di civili inermi che si erano riparati in due grotte soprastanti la città, un evento che provoca nei territori veneti ulteriore sconcerto ed esecrazione contro la ferocia dei francesi.

Ma proprio quando la demoralizzazione dei veneziani raggiunge un nuovo minimo, quasi miracolosamente, non per una qualche specifica azione da loro intrapresa ma solo per la fortuna degli eventi, la situazione politica e militare va gradualmente migliorando. L'8 aprile 1510 viene annunciata a Bergamo una pace e confederazione tra i re francese ed inglese, che dovrà durare per un anno oltre la loro vita. Massimiliano cade in una delle sue non inusuali fasi di inattività. Luigi XII riceverà più tardi un grave colpo per la morte dell'Amboise avvenuta a Reggio nel maggio 1511. Il Pontefice, pago per il momento della rivincita ottenuta su Venezia e della riacquisizione delle terre di Romagna, comincia anzi a progettare di estendersi ad acquisire anche Ferrara. Accampando l'illiceità di certi benefici che Alfonso d'Este, partigiano dei Francesi, aveva ottenuto da papa Alessandro VI - anche in ordine ai diritti che Alfonso deteneva sulle saline di Comacchio, che erano in competizione commerciale con le saline papali di Cervia - Giulio II minaccia una scomunica contro Ferrara. Il re francese comprende che questa mossa implica un ulteriore riavvicinamento del Pontefice a Venezia e cerca di opporsi, ma la scomunica parte e con essa l'interdetto ecclesiastico contro il ducato. La valutazione generale da parte delle potenze in campo è che la ricomposizione tra Roma e Venezia sia in atto, e questo ulteriormente solleva il morale della Repubblica.

Un'altra importante ragione dell'attenuazione della pressione su Venezia è l'entrata sullo scacchiere italiano degli svizzeri. Costoro erano già al soldo del Pontefice fin dall'inizio della guerra, ma ora interviene un preciso accordo per il loro utilizzo contro i francesi nei territori milanese e bergamasco. L'accordo prevede che essi scendano sulla Lombardia da Bellinzona, mentre contemporaneamente i veneti lasceranno Padova e si dirigeranno su Vicenza e Verona. Duemila svizzeri di fatto scendono su Varese e Como, contrastati dal Triulzi e dall'Amboise (settembre 1510), ma poi subito si ritirano con i beni predati, accampando la scusa che essi erano stati reclutati per difendere la persona del Pontefice e non già per combattere le truppe francesi ed imperiali. I veneti, che avevano acquisito nell'agosto del 1510 Vicenza, avevano iniziato verso l'inizio di settembre il cannoneggiamento di Verona dove stava una guarnigione francese assediata. Se il condottiero veneto Lucio Malvezzi avesse subito attaccato la città, avrebbe probabilmente potuto impadronirsene. Ma egli esitò per due settimane, dando così il tempo alle forze francesi, liberatesi dalla minaccia svizzera, di convergere su Verona. L'occasione è perduta ed i veneti si ritirano dall'assedio. Sotto le mura di Verona muore il condottiero bergamasco Lattanzio Bongi, prefetto dell'artiglieria e dei fanti veneti, che viene ricordato con solenni esequie a Bergamo il 14 ottobre.

Le forze francesi dell'Amboise erano appena arrivate ai confini veronesi quando apprendono che forze veneto-papali comandate dal nipote del papa, il duca di Urbino, si sono impadronite di Modena (17 agosto 1510). Verso la fine di agosto, il papa stesso, risoluto a prendere personalmente parte alla lotta, lascia Roma e si dirige a tappe forzate su Bologna, ordinando ai cardinali di seguirlo. In città la famiglia Bentivoglio, espulsa dal Papa nel 1506, tramava fidando sull'appoggio francese. Governava Bologna il cardinale Francesco Alidori, che già in precedenza era stato assolto a stento da un'accusa di peculato e, si mormorava, in grazia di un legame omosessuale con il Papa. Verso l'inizio di ottobre lo Chaumont dalla Lombardia marcia verso sud, opera una finta su Modena, poi scavalca la città ed il 18 ottobre arriva alle mura di Bologna. Il pontefice aveva chiesto rinforzi a Venezia ed agli spagnoli, ma gli aiuti ritardavano. I cardinali consigliavano di abbandonare la città e mettersi in salvo, e il papa, in preda ad un accesso di febbre, già si considerava perduto. Ancora febbricitante, decide di arringare i bolognesi sulla piazza, concedendo loro alcuni privilegi ed altri ancora promettendone. Poi, convince gli ambasciatori imperiale, spagnolo, ungherese ed inglese, ad iniziare colloqui con l'Amboise perché si trattenga dal portare le armi contro il Pontefice e discuta le condizioni per una pace. Lo Chaumont, poco assennatamente, in attesa di ricevere ordini dal re, accetta. Ma intanto giungono i rinforzi: una colonna di cavalleria leggera e di stradiotti inviata da Venezia, sotto il provveditore Paolo Capello; ed un contingente spagnolo, inviato dal re d'Aragona in cambio dell'investitura del regno di Napoli, che il Pontefice gli aveva intanto riconosciuta.

La situazione si capovolge e immediatamente il papa non pensa più a difendersi ma ad attaccare. E intanto giunge un inverno freddissimo, e l'Amboise raduna le sue truppe ai quartieri invernali sui territori parmense, aretino e ferrarese. Ritirandosi, porta con sé come viatico una scomunica papale.

I cardinali, restii a seguire l'ardimentoso Pontefice, muovono lentamente da Roma e si insediano in buon numero a Milano, da dove decidono di convocare un Concilio per accertare e per porre riparo agli abusi del suo pontificato. Sorge tuttavia un dubbio giuridico, perché essi si trovano in minoranza ed il Papa non è presente. Si consultano due giureconsulti dello studio pavese, i quali opinano che, in vista di un solenne impegno che Giulio II aveva assunto in occasione della sua elezione di convocare il Concilio entro un certo tempo ormai scaduto, la convocazione sarebbe stata valida. Il 16 maggio 1511 a Milano, tre procuratori, a nome dell'Imperatore, del re di Francia e di nove cardinali citano il Papa a comparire il 1° settembre successivo con l'intero Concilio a Pisa per questioni pertinenti alla chiesa ed alla sua propria persona e per la riforma del capo e dei membri della chiesa. Questa citazione viene anche affissa alle porte della chiesa di Bergamo il 24 maggio.

Ripreso coraggio, nel corso di un inverno impossibile tra nevi e gelo, il Pontefice si dirige verso Mirandola per espugnarla, in preparazione dell'azione su Ferrara. Il castello di Mirandola era pervenuto alla vedova di Ludovico della Mirandola, che era figlia di Giovan Giacomo Triulzi, la quale governava quel luogo all'arbitrio del padre. Carlo d'Amboise non arriva in tempo a soccorrere il castello e, dopo molti giorni di assedio, quando i fossati della città sono gelati e non forniscono ormai protezione alcuna a chi voglia scalarne le mura, gli abitanti si arrendono al Pontefice. Unanime è la meraviglia per la sua impresa nel dirigere e vincere in tali impossibili condizioni ambientali, ormai settuagenario, quell'impresa. Restaurato al governo di Mirandola Giovan Francesco, che era stato scacciato dal suo defunto fratello Ludovico, il Papa ritorna a Bologna per ricostituire l'esercito e condurlo contro Ferrara.

Egli non cessa tuttavia di lavorare ad una possibile pace. A tale scopo si raduna una conferenza a Mantova, tra rappresentanti del re francese, dell'Imperatore e del Papa. Ma non si trova l'accordo, perché il Pontefice non ritiene eque le condizioni proposte. Si tiene anche un concistoro nel corso del quale vengono eletti cardinali il vescovo sedunense, persona di grande autorità presso gli svizzeri, ed il vescovo curzense, che tuttavia rifiuta la porpora offertagli. Questi due personaggi compariranno spesso nel corso degli eventi futuri.

Nel febbraio 1511 l'Amboise tenta senza successo di riprendere Modena e poi piuttosto improvvisamente nel marzo, all'età di 38 anni, cade malato a Reggio e muore di erisipela l'11 marzo, quando ormai circolavano voci di una sua guarigione. La salma viene portata dapprima a Milano, dove si tengono solenni esequie e poi in Francia.

I capitani francesi eleggono a succedergli Giovan Giacomo Triulzi che era stato da tempo un abile generale e sicuro fautore della causa francese. Costui porta in campo l'esercito e riesce a rioccupare Concordia, nei pressi di Mirandola. Anche il duca di Ferrara riesce a contrastare efficacemente un esercito papale che si dirige su Ferrara, ottenendo una vittoria presso Bastia. Ciò mette di nuovo in difficoltà il Pontefice, almeno sul piano tattico. Il suo esercito è comandato dal cardinal legato Alidori, poco pratico delle armi e sommamente inviso ai bolognesi, e dal duca di Urbino. Le truppe spagnole sono condotte da Fabrizio Colonna, uomo esperto nelle armi, ma con forti motivi di rancore verso il duca d'Urbino per via di una disputa dinastica sulla medesima città. Le truppe di Venezia sono sotto Paolo Capello.

Il Triulzio comincia a premere sulle truppe papali per impadronirsi di Bologna, dove i Bentivogli suscitavano grandissimi tumulti. Quando i francesi si avvicinano alla città, i bolognesi decidono di consegnarsi agli stessi Bentivogli, piuttosto che a loro; poi assalgono il castello e lo distruggono fino alle fondamenta. Abbattono e rifondono in un cannone la statua bronzea del papa fusa da Michelangelo. In preda al panico, l'Alidori fugge, senza neppure avvertire il duca d'Urbino. Il 23 maggio 1511 il Triulzi fa il suo solenne ingresso e consegna la città ai Bentivoglio. D'ordine del podestà questo avvenimento viene solennizzato a Bergamo con suono di campane e spari di bombarde, per marcare la sconfitta degli eserciti pontificio e veneto.

Il Papa va ad Imola e poi si rifugia a Ravenna, dove convoca il nipote per contestargli la responsabilità della sconfitta. Verso Ravenna, da Rivo dove si era temporaneamente riparato, si dirige intanto anche l'Alidori. Il duca di Urbino, che ben sapeva come quest'ultimo fosse stato il principale artefice della disfatta di Bologna, quando lascia il Papa incontra casualmente il cardinal legato. In un impeto di rabbia, lo assale e lo ferisce, lasciandolo morto nella via e ritornando ad Urbino. Grandissima è la disperazione del Pontefice per la morte del suo favorito. Mentre il suo esercito si disintegra, egli si ritira a Rimini, per meditare sulla sua nuova situazione. Essa non è davvero favorevole, perché la presa di Bologna ha posto in mano dei francesi tutta l'Italia del nord, vanificando il progetto del suo riscatto dagli stranieri, cui Giulio II aveva lavorato per anni.

Tra i molti difetti, certamente non mancano al Della Rovere le virtù del coraggio e della perseveranza. E va quindi progettando una nuova alleanza, una lega in funzione anti-francese, alla quale far partecipare, oltre a lui stesso in qualità di promotore e capo, Venezia, Spagna. Inghilterra e, possibilmente, l'Imperatore. Venezia, che deve tenere il fronte in Friuli e nel Veneto, non può che essere favorevole. Non vi sono obiezioni da parte spagnola, dal momento che Ferdinando, ha già raccolto tutto quanto gli spetta in Italia, e ha interesse a conservarlo opponendosi ai francesi. Anche Enrico VIII è allettato dalla prospettiva di impegnare i suoi nemici francesi sul fronte meridionale, mentre egli stesso li contrasta a nord. Rimane, indeciso come al solito, Massimiliano. I negoziati hanno inizio intorno al principio di luglio 1511.

Vi è tuttavia il problema del Concilio, convocato a Pisa con l'appoggio del re francese e dell'Imperatore. Alcuni cardinali non sono ora molto sicuri di aprirlo e, d'altra parte, lo stesso Pontefice dichiara di volerne indire uno egli stesso nelle forme canoniche nel maggio successivo, in tal modo svuotando di contenuto la progettata assemblea pisana. La quale, viene dapprima spostata al mese di novembre e si apre tra l'ostilità locale, soprattutto dei fiorentini e di altri. Allora si decide di spostare la riunione a Milano, dove il 14 novembre ha luogo la prima sessione di alcuni cardinali e prelati, soprattutto francesi, scomunicati dal Papa. Non si trattò tuttavia di un vero Concilio, ma di una riunione che convocò il Concilio Ordinario per il 13 dicembre 1511. Ma l'atmosfera generale non appare favorevole per l'arrivo di numerose bande di svizzeri fino alle porte di Milano. Il Concilio viene spostato quindi al 4 gennaio 1512, ma esso ha ormai perduto di interesse: soltanto cinque cardinali e numerosi vescovi francesi partecipano, citano il Papa e leggono un processo, seu potius oratione quadam iniuriosa [BER, 86r] contro di lui. E l'iniziativa finisce per naufragare.

Tuttavia, il 4 ottobre 1511 viene proclamata la "Lega Santa" per cacciare i francesi dall'Italia. In questa fase, l'Imperatore preferisce non aderire all'alleanza ed attendere in disparte un'occasione propizia per allargare la sua influenza in Italia. Lo stesso re d'Inghilterra dilaziona un poco la sua partecipazione, che tuttavia sarà formalizzata il 17 novembre. Un esercito spagnolo-pontificio si va raccogliendo nel meridione d'Italia e lentamente inizia a risalire la penisola, al comando del viceré di Napoli Raimondo di Cardona. Gli svizzeri, che si erano spinti fino a Milano verso la metà di dicembre, vengono allontanati dal Triulzi; attamen, ut dicebatur, instante Iulio secundo Pontifice, cito reversuri in Lombardiam quia et Pontificis exercitus cum exercitu regis Hispaniæ veniebat Bononiam et Ferrariam. [BER, 86r, 13 dicembre 1511].

Nel frattempo, a partire dal giugno 1511, è comparso sulla scena italiana, a sostituire lo Chaumont, un giovanissimo nipote di Luigi XII, Gastone di Foix, duca di Nemours, considerato uno dei capitani più dotati del suo tempo per il coraggio, la rapidità di decisione e le grandissime capacità organizzative in campo militare. Egli avrà vita brevissima - morirà infatti nella battaglia di Ravenna dell'aprile 1512 - ma avrà la ventura di dar prova di tutte queste qualità in grado sommo, lasciado di sé un grande ricordo.
Toptop



La città di Bergamo sotto il dominio francese
Preliminarmente, sembra utile qualche commento sulla situazione sociale ed economica della città intorno agli anni della dominazione francese. Nella totale assenza di documentazione esistente, riesce veramente difficile fornire una stima ragionata del numero degli abitanti della città. Bisogna quindi accontentarsi di qualche frammento di informazione del Beretta, secondo il quale una leva del 1509 per l'accertamento degli uomini atti alle armi tra 15 e 65 anni nella città e nei borghi, accertò che il loro numero fu di 3556 uomini [BER, 61v, 4 luglio 1509]. Passare da questo unico dato ad una stima globale richiederebbe qualche conoscenza della distribuzione per età e per sesso degli abitanti, che manca del tutto. Esiste in bergamasca, del 1476, un estimo molto accurato per Gandino da cui si può desumere la struttura di quella popolazione. Nell'ipotesi che i dati per quella comunità siano applicabili anche alla città e borghi di Bergamo di circa cinquant'anni dopo - ipotesi non del tutto infondata, dal momento che le popolazioni antiche, fino alla fine del secolo XVIII, erano generalmente caratterizzate da una prevalenza delle classi giovani di popolazione - si può calcolare che gli uomini di 15-65 anni possano aver rappresentato tra il 25 ed il 29% dell'intera popolazione. Si può quindi stimare che il numero di persone abitanti nella città e borghi di Bergamo possa essere stato intorno a quindicimila. La relazione del Michiel citata al capitolo 1 fornisce qualche scarno dato sulle attività economiche di questa popolazione.

La narrazione che l'Assonica ci ha lasciato degli eventi immediatamente seguiti a Bergamo dopo la disfatta di Agnadello è altamente drammatica ed inevitabilmente interpretata in chiave anti-francese, come ci si potrebbe attendere da un cittadino di fede guelfa. Egli riferisce che subito in città la fazione ghibellina alza la testa, mentre, presentendo un'imminente rovina, molti della parte opposta decidono di abbandonare Bergamo: i Brembati, Benaglio, Olmo, Grumelli e Vertova con le famiglie si ritirano a Lodrone; i del Passo, altri Benaglio e Vertova ed i Mozzi verso Verona; i Tasso, ed altri, tra i quali la moglie dell'Assonica con i figli - che in tal modo si ricongiunge al marito - a Venezia. Il provveditore Marin Zorzi tenta di adoperarsi per una riconciliazione tra il capo della fazione ghibellina Soccino Secco e Francesco Albani, a nome dei guelfi; ciò anche attraverso i buoni uffici di Aurelio Solcia, che, pur essendo imparentato con l'Albani, seguiva la fazione ghibellina.

Quest'ultima difende l'idea che non sia prudente opporsi ad un re che stava arrivando sull'onda della vittoria, ma sia invece più opportuno arrendersi ed in questo modo difendere le persone, i beni ed i raccolti. Arriva anche una richiesta di resa da parte di Antonio Maria Pallavicino per conto dei francesi, con molte promesse di benefici, ma con altrettante minacce di devastazioni, uccisioni ed incendi, in caso contrario. Ahimè, quale era il volto della città atterrita, incapace di decidere, priva di ogni aiuto, che aveva mutato in disperazione ogni speranza!, lamenta l'Assonica [ASS].

Il provveditore convoca gli anziani ed il popolo nell'aula del consiglio ed indirizza loro una lunga ed appassionata perorazione con la quale fa appello alla loro fedeltà ed alle tradizioni; promette aiuti da parte della Repubblica; li scongiura almeno di attendere il l'arrivo di rinforzi e le future mosse del re, piuttosto che macchiarsi di una resa ignominiosa. I primi interventi dei maggiorenti sono favorevoli alla resa e questi intimidiscono anche coloro che sarebbero di parere opposto. A questo punto, i ghibellini, per evitare che qualcuno si alzi a contraddire l'opinione che sembra prevalere, abbandonano l'aula e si portano nella chiesa di santa Maria maggiore, dove ha luogo un'assemblea tumultuosa nel corso della quale vengono eletti, alla voce e senza formali votazioni, alcuni anziani, i quali, a loro volta, si ritirano nella sacrestia.

Ivi Paolo Zanchi esorta tutti alla concordia, nell'imminenza delle decisioni che seguiranno, ma che nessuno ancora conosce. Vi è un impegno generale e poi, in un'atmosfera di grande commozione, i presenti giurano toccando corporalmente con le mani il crocefisso. Fu quasi infinito il numero di coloro che giurarono [ASS].

I cittadini pongono un presidio alla porta di san Giacomo e poi di nuovo la scena si sposta presso la chiesa di santo Stefano. Ma non è affatto chiaro ciò che l'assemblea si appresta a decidere. Come già prima, alcuni vorrebbero consegnare la città, altri preferirebbero attendere l'arrivo delle truppe, senza pregiudicare la situazione, e quindi senza compromettere la loro fedeltà a Venezia. A questo punto Soccino rende noto che già due messi, Lavazolo Colombo e Jacopo Redrizati, sono partiti incontro al re per annunciargli l'arrivo di una delegazione pronta a consegnargli la città; ed argomenta che qualora ciò non fosse avvenuto, l'ira del re avrebbe potuto scatenarsi implacabile su di loro. Molti rimangono sorpresi che la decisione importante sia di fatto già pregiudicata. Ed allora, per tagliar corto ad ogni recriminazione e per togliere ogni indugio, una quindicina di persone, guidate da Francesco Albani, montano a cavallo e raggiungono il re a Caravaggio per consegnargli la città. E' il 17 maggio 1509. In questo giorno inizia a Bergamo la dominazione francese.

I capitoli che Luigi XII concede alla città portano proprio questa data [Reg. Duc. A, 156r; R. 99. 23, 14v]. Alcuni di essi sono di particolare interesse ai nostri fini. Per esempio, la città vorrebbe (cap. IV) che tutto il territorio bergamasco le fosse soggetto: il re risponde che desidera, in linea di massima, che siano conservate le usanze passate e, se vi sono richieste particolari, Bergamo le avanzi, e si provvederà. Bergamo chiede allora (cap. V) che tutti gli uffici, benefici, onoranze ed utilità della città e del territorio siano equamente distribuiti tra i cittadini, e non altri, a giudizio e per decisione del Consiglio della città. Si risponde, in maniera piuttosto sibillina, che sua Maestà, pur non negando l'accesso delle cariche ai cittadini, non intende riservarli soltanto ad essi e si riserva di decidere persona per persona, trattando chiunque come se fosse originario francese. Anche un'altra parte (cap. VI) del privilegio è interessante ai fini delle descrizioni che seguiranno. I bergamaschi chiedono che tutti i beni dei ribelli veneti caduti in mano della città o dei privati restino di proprietà di chi attualmente li detiene, a qualsiasi titolo essi siano stati acquisiti. Tale richiesta il re accetta, facendo eccezione per i beni che fossero stati dei suoi propri seguaci, ed introducendo con ciò un'altra nota di ambiguità che sarà causa in futuro di non poche controversie tra le fazioni della città. E' chiaro che non tutte le richieste potevano soddisfare le aspirazioni dei bergamaschi, anche se la Pederzani [1992, pag. 126] ritiene che tutte le richieste di Bergamo trovarono pieno accoglimento e che il re fu pronto ad accettare ogni richiesta del centro urbano a sfavore del territorio.

Per l'esecuzione dei capitoli, Leonardo Comenduno e Paolo Zanchi rimangono al campo regio, mentre gli altri ritornano in città, accompagnando Antonio Maria Pallavicini, designato dal re come governatore di Bergamo. Il castello, comandato da Sebastiano Bono viene consegnato ai francesi, così come la fortezza della Cappella, comandata da Giovanni Venier; le autorità venete sono catturate; i beni saccheggiati, contrariamente all'accordo seguito in precedenza tra Soccino Secco e Francesco Albani. Parrebbe che sul piano militare la situazione sia ormai perduta, ma certo gli umori della popolazione rimangono incerti.

Infatti il priore di san Leonardo, Donato Fenaroli dell'ordine dei Crociferi, che aveva accompagnato a Brescia la moglie dell'Assonica in fuga ed aveva appena fatto ritorno, riferisce di aver visto fuori Brescia, alla Mandolossa, fino a duemila fanti e cinquecento cavalli leggeri che stavano dirigendosi su Bergamo a presidio. Questa notizia rianima la fazione veneta ed induce alcuni ad entrare in clandestinità, in attesa dell'arrivo di questi rinforzi, occultandosi nei borghi. Sarebbe stato facilissimo ai magistrati veneti, se l'avessero voluto, implorare in quella circostanza la fedeltà del popolo che non li aveva disertati e, scacciato il presidio imposto a nome dei cittadini, riprendere la città e fare vendetta dei più faziosi [ASS]. Ma quando i partigiani veneti chiedono di entrare nella città alta per conferire con i rettori, l'accesso viene loro negato. E si giunse ad un tale scoraggiamento degli animi che si rifiutò perfino l'aiuto degli uomini di Valseriana che erano pronti ad entrare in città scegliendo di affidarsi alla misericordia dei barbari francesi piuttosto che a quella italica dei loro, annota tristemente l'Assonica, rieccheggiando un analogo commento del Beretta.

Il 21 maggio, e poi ancora due giorni dopo, si tiene una solenne processione dei religiosi bergamaschi per celebrare l'adesione della città ai francesi; si comanda il ritorno in patria dei bergamaschi che, come si è narrato, avevano abbandonato la città nei precedenti dieci giorni; e si prescrive le restituzione ai trevigliesi di quanto era loro stato trafugato in occasione del saccheggio. Il 22, il Pallavicini, luogotenente del re e governatore di Bergamo, assiste ad un'affollata cerimonia in santa Maria Maggiore, nel corso della quale il conte Trussardo Calepio consegna e raccomanda la città al re francese ed alla divina provvidenza. Tra allocuzioni, canti e vespri solenni, viene anche pubblicato in Bergamo il monitorio papale del 27 aprile precedente contro i Veneziani, con le motivazioni che sono già state riferite.

Continua intanto in città il saccheggio dei beni dei guelfi, che sono incapaci di reagire di fronte alla determinazione - anzi, dice l'Assonica [ASS] citando alcuni esempi, alla protervia - della fazione opposta, la quale si appoggia al governatore Pallavicino. Il governatore provvede il 24 maggio ad abolire i settanta anziani del consiglio della città ed a nominarne ventinove di sua personale scelta, di cui il Beretta fornisce i nomi. Poi il Pallavicino si allontana, lasciando a Bergamo un nobile milanese, Bernardino Fulgineo, come Podestà temporaneo. Egli prende i primi provvedimenti: la rimozione delle insegne di San Marco e della statua del doge Francesco Foscari dal palazzo; e l'obbligo di denuncia dei beni già di proprietà degli ufficiali veneti, che erano stati trafugati in città o nel territorio.

La cronaca dell'Assonica riferisce di una contesa sorta tra cittadini, che appare difficile datare, anche se essa è certamente posteriore all'approvazione del privilegio del 17 maggio. Narra costui che il re ordinò ai cittadini di eleggere dei legati che perorassero presso il governo francese quanto fosse di utilità per la città e che a ciò furono scelti Luca Brembati, Leonardo Comenduno, Gerardo della Sale, Ludovico e Giovan Francesco Suardi e Francesco Albani. Mentre costoro discutevano le richieste da sottoporre, si verificò una grave spaccatura in merito all'attribuzione dei beni dei ribelli che, secondo i patti stipulati a Caravaggio, dovevano essere lasciati a chi li possedeva (cfr. capitolo VI del privilegio sopra citato). I Suardi, ghibellini e partigiani del re, naturalmente si opponevano alla conferma di questo capitolo, anche se finì per prevalere l'opinione di coloro che tale conferma chiedevano. E questo fu causa del risorgere degli odi intestini tra la parte ghibellina, appoggiata dal governatore, e quella guelfa, che si appoggiava invece a Giovan Giacomo Triulzi. Alla fine, alcune delle concessioni fatte a Caravaggio passarono, altre furono invece ridotte con conseguente svantaggio per la città. Dice l'Assonica: nocque a tal punto la discordia dei cittadini che una città ricca, nobile, piena di molti uomini dotti e peraltro prudenti, che per prima era venuta in potestà del re ed aveva dato un esempio a tutte le altre per non aver ottenuto alcun vantaggio, non fu premiata con altro beneficio se non con la deduzione di quattromila scudi dai dazi imposti in città, da effettuarsi ad arbitrio della città stessa [ASS]. E' questa la somma di denari conosciuta come il "dono regio" della quale si discuterà a lungo in futuro.

Tra i primi provvedimenti presi dai francesi dopo l'acquisizione della città e la concessione di questo privilegio vi sono quelli riguardanti le materie daziarie. In ordine di tempo, si ricordano da prima un proclama pubblicato il 23 maggio 1509 dal governatore Pallavicino, secondo il quale i conduttori dei dazi debbono riscuotere ed esercitare dazi e gabelle in moneta longa milanese de imperiali. Segue, nei capitoli dei dazi, una disposizione secondo la quale si debbano seguire le consuetudini usate in città, nel territorio e nella Ghiara e, per quanto riguarda la valuta, siano obligati ricever lo oro et monete nel modo se fa per li datiari et ali datii de Milano, secondo il già citato proclama del 23 maggio. L'8 giugno 1509 il re, in una comunicazione ai suoi commissari delle entrate di Bergamo, asserisce di voler conservare alla città le concessioni già fatte e comanda che nulla si attenti contro i capitoli approvati. Tuttavia, la valuta con cui i dazi venivano riscossi creava evidentemente problemi ai bergamaschi, tanto che in una lettera indirizzata ai Presidenti della città il 21 giugno, il re concede che per l'anno in corso li datii si scodano ala moneta consueta li anni pasati, a patto che non si interpongano altre difficoltà ma si segua il volere del re, com'egli è sicuro che avverrà [R. 99. 23, 13v e 14r]. Sempre in materia di dazi, il 3 luglio, a richiesta di Francesco del fu Pantaleone Suardi, tesoriere reale a Bergamo, si proclama che i dazi della città e della Ghiara saranno posti all'incanto a Milano per i prossimi due anni.

Il Celestino e, con lui, il Calvi [II, 476] menzionano al 24 luglio 1509 un altro privilegio alla città da parte di re Luigi, nel quale si fa dono di 4000 ducati l'anno che volle si potessero estrahere da dacii et altre entrate, che sua Maestà cavava dalla città et territorio di Bergamo. Il che pare una forma di donazione abbastanza singolare, nella quale si restituiva con una mano il denaro che si era preso con l'altra. A proposito di questo già citato "dono regio" il Generale di Normandia menziona al tesoriere di Bergamo [4 novembre 1510; R. 99. 23, 41v] contrasti tra cittadini e territoriali ed ordina di pagare il dovuto alla comunità di Bergamo secondo il solito, fino a nuova decisione. La lettera si occupa anche di un giro di denari tratti da certi fitti di case di proprietà della Misericordia dove abitava il podestà, a compensazione del salario dello stesso, dando istruzioni in proposito.

Nei mesi di luglio ed agosto si succedono, secondo il Beretta, provvedimenti diversi di carattere amministrativo ed atti a garantire l'ordine pubblico. Innanzitutto, (7 luglio) un proclama per confermare il confino alle persone bandite sotto il precedente governo; poi la garanzia che le persone in attesa di giudizio siano processate dai nuovi giusdicenti; infine, l'ordine ai cittadini di consentire libero accesso al furiere di Giovan Giacomo Triulzi per ispezionare le case, al fine di dare ospitalità a militari francesi che potrebbero essere inviati a Bergamo. Al 24 luglio, si ricorda un proclama per richiamare tutti i bergamaschi dai territori veneti, insieme con il divieto di transito verso quei territori, dal momento che Padova era già ritornata alla Repubblica e si temeva che anche altre città stessero per cadere. Permanendo tuttavia Padova sotto il dominio dei veneti, uno scopo analogo hanno anche le disposizioni del 25 agosto, le quali fanno obbligo ai soldati che, pur detenendo armi, non militano nell'esercito francese, di consegnare armi e cavalli. La voce comune diceva che tali disposizioni erano dettate dalla preoccupazione che, nel caso di un paventato ritorno dei veneti, quelle armi avrebbero potuto essere usate contro i francesi [BER, 63r].

Tra la fine di settembre e l'inizio di ottobre vi è grande fermento a Bergamo per l'arrivo del Gran Maestro. La cronaca dell'Assonica si sofferma a lungo sulle trattative e sulle somme pagate. Il 28 settembre si sparge la voce che lo Chaumont sia in arrivo da Brescia. Subito si emanano ordini quod tota civitas et suburbia Bergomi et præcipue a burgo Pallatii usque in civitatulam emundentur et ornamenta ponantur cum tapezariis et arborum viridium plantis, et omnes bergomenses cuiuscumque conditionis, omni excusatione et respectu et conditione rejectis, faciant se radere ad ostendendam hilaritatem et gaudium [BER, 63v]. Ma l'ospite non arriva e di fatto entra soltanto il 2 ottobre. I nostri due diaristi si soffermano a lungo sui cortei, le cerimonie, i paramenti ed i festeggiamenti per la visita, che pare all'ospite magnifica e spontanea. Tuttavia, al di là delle pompe, la visita è molto interessata, poiché lo Chaumont viene per trattare il riscatto dei territori bergamaschi che il re gli aveva graziosamente donato e che egli vuole convertire in moneta sonante. La trattativa è lunga e durissima e alla fine il prezzo viene lasciato alla discrezione del Pallavicini (per i dettagli, cfr. la cronaca dell'ASSONICA). Poi, ricevuta in omaggio una tazza d'oro, il 4 ottobre, il Gran Maestro si allontana verso Lovere ed il lago Sebino, non senza aver concesso alcuni favori ai soliti postulanti: il dono del prato teutonico, di proprietà pubblica, a Matteo Albani, con grande scandalo della comunità cittadina; l'appalto della cancelleria comunale ad un maestro milanese, Giovanni Ronzoni da Sedrina, per il riscatto del quale ufficio Bergamo nominerà ambasciatori a Milano Francesco Albani, Paolo Zanchi e lo stesso diarista Marco Beretta, in qualità di sindaco (17 ottobre 1509).

Seguono il 27 ottobre 1509 un ordine per il censimento generale delle vettovaglie in città ed il divieto di esportarne; il 3 novembre un censimento dei benefici ecclesiastici con la confisca dei redditi di quelli appartenenti ai religiosi assenti, seguito il 22 gennaio dell'anno successivo, da un divieto al rogito di trasferimenti di tali benefici e delle loro rendite; ed infine, cosa a Bergamo mai osservata, l'ordine per la celebrazione solenne e con processione della festività di sant'Ambrogio (7 dicembre 1509) per marcare il fatto che il protettore di Milano, piuttosto che san Marco, era ora da considerarsi il santo di riferimento dei bergamaschi. Questi, insieme con altri minori in tema di diritti di caccia, i provvedimenti per il 1509, che non si possono certo interpretare nel complesso come favorevoli alla città ed ai suoi abitanti.

Un'altra lettera del Gran Maestro indirizzata al podestà ed agli anziani di Bergamo l'8 novembre 1509 [R. 99. 23, 41r] è di interesse per la definizione della giurisdizione della città. Infatti, lo scrivente - a richiesta di due oratori di Bergamo che gli avevano fatto istanza di sottoporre al podestà Pallavicino tutte le cause di contratti con i sudditi - precisa di non voler pregiudicare alle proprie prerogative e di contentarsi per gratificatione de ditta cità che li contratti passati inanzi fosseno nostri subditi di far una comissione nel signor Antonio Maria et in chi lui elligerà, che como delegato nostro li possa convenir.

Il 22 marzo 1510 il Beretta riporta la morte per febbre e passione d'urina del castellano della rocca di Bergamo Gastone da Valencia, spagnolo al servizio dei francesi, seguita dopo alcuni giorni da un solenne ufficio funebre [BER, 67v]. E intanto prosegue sistematicamente l'opera di cancellazione dei monumenti e delle memorie del regime veneto e l'esaltazione del nuovo ordine francese. Il 19 aprile si scalpellano dalla facciata del palazzo le insegne degli antichi rettori veneti e si pongono invece quelle del Podestà Pallavicino e di altri nobili francesi [BER, 68r]. Ed il 14 maggio, nel primo anniversario della disfatta di Agnadello, il Pallavicino comanda solenni processioni dei religiosi di Bergamo, con suono di campane e strepito di bombarde, chiusura delle botteghe e vacanza generale. Interessante il commento del Beretta alla celebrazione di quella strage: Sed hoc an gaudio an moerore anniversario celebrandum sit, relinquo sententiæ piorum hominum qui eodem baptismate regenerati sub eodem Domino Deo in caritate militant. Affliciantur alii super civili bello romanorum. Ego christianus doleo et misereor super fraterna strage christianorum, quibus Salvator pacem in terra dimisit et perpetuam felicitatem in coelo [BER, 68r]. Con la medesima solennità si festeggia anche l'anniversario dell'avvento del dominio francese a Bergamo il 18 maggio.

E mentre la chiesa romana chiama a giudizio alcuni religiosi che, in assenza del vescovo di Bergamo Lorenzo Gabrieli, si erano impadroniti degli affari e dei beni della curia bergamasca, il regime francese nomina al vescovado di Bergamo un figlio del capitano milanese Giovan Giacomo Triulzio (17 luglio) [BER, 69r].

Sono intanto iniziati gli sconfinamenti degli svizzeri al soldo del Papa. Ventimila di essi, venendo da Varese e Como con l'intenzione di andare a Bologna in aiuto di Giulio II, incontrano l'opposizione del re francese al loro passaggio. Nel tentativo di contrastarli, l'8 settembre il Triulzio passa l'Adda sul ponte di Trezzo e si posiziona con 200 cavalli e 400 fanti nell'Isola bergamasca. Bergamo li assiste con vettovaglie e, paventando l'arrivo di queste truppe, nomina dieci deputati alla guerra. Tuttavia, pochi giorni dopo gli svizzeri abbandonano il campo e ritornano verso i monti di Varese [BER, 70r].

Cominciano però a palesarsi manifestamente i primi segni di scontento nei confronti del regime francese. Il 30 settembre le insegne del Pallavicino che erano state appena installate sulla parete del palazzo vengono deturpate ed il consiglio della città è costretto a discolparsi e a promettere sconti di pena a chi collaborerà per la cattura dei responsabili. Dicevano tuttavia i maligni che quest'azione fosse stata sollecitata dallo stesso Pallavicini, il quale non avrebbe gradito che le sue armi fossero state messe troppo vicine a quelle del podestà Panigarola [BER, 70v].

Narra l'Assonica [ASS] che quando gli svizzeri si ritirano dopo la prima incursione su Varese e Como, prendendo occasione proprio dalla minaccia appena sventata, la fazione ghibellina di Bergamo chiede al governo milanese di prendere ostaggi una quarantina di cittadini di parte guelfa, fautori della causa veneta. Il numero viene successivamente ridotto a dodici, tra i quali lo stesso Assonica. Vi è qualche incertezza nell'esecuzione di questa risoluzione, comandata dal Gran Maestro in data 18 settembre, ma poi il 1° ottobre 1510 i dodici vengono catturati e viene loro comandato, in pena della confisca dei beni, di lasciare Bergamo per raggiungere vari luoghi del Delfinato entro quattro giorni. La cronaca si dilunga a descrivere le vicissitudini di questo gruppo di bergamaschi, molti dei quali non rientrarono in città se non intorno alla Pasqua del 1511. Molte informazioni analoghe, con maggior precisione delle date, riporta anche il Beretta.

E prosegue da parte francese l'azione contro la fazione papale, essendo ormai chiaro che la rottura tra il re ed il pontefice è consumata. Il 6 ottobre 1510 [BER, 71v] si legge a Bergamo un proclama reale secondo il quale tutti coloro che sono al servizio del pontefice e della sua curia e che sono dei luoghi in mano francese debbano rientare alle rispettive abitazioni; coloro che hanno benefici di qualsiasi genere nei domini regi rientrino a prenderne personalmente il possesso, sotto minaccia di confisca dei redditi e della loro distribuzione a discrezione del re. Probabilmente in relazione con queste disposizioni, il 12 ottobre si menzionano procedure per l'esproprio dei beni di tre nobili veneti, situati nell'agro bergamasco. Lo stesso accade nei confronti di altri beni di cittadini bergamaschi il 16 ottobre ed il 2 novembre. Ed il 18 ottobre, con riferimento al precedente proclama del 6, si chiede ai mezzadri ed affittuari dei benefici degli ecclesiastici assenti, che denuncino tali beni ai rappresentanti del re. Con un bando nei confronti di persone provenienti da Palazzolo, a causa di una pestilenza, si chiudono, essenzialmente, gli eventi di interesse per la città nell'anno 1510 [BER, 72r-73v].

Il 25 gennaio del 1511 [BER, 74r] si sparge a Bergamo la notizia che Mirandola, assediata da alcuni giorni da Giulio II, è stata espugnata a favore del conte Giovan Francesco, non avendo potuto l'esercito reale portare aiuto al Triulzio che vi stava assediato, a causa della grande quantità di neve caduta nelle campagne di Piacenza, Parma e Reggio. Il fatto viene interpretato a Bergamo come pregiudizievole per i francesi che stavano a Ferrara contro il Pontefice, indebolendo la loro posizione. I fratelli Galeazzo e Cristoforo Pallavicini lasciano Bergamo verso Milano. Il loro padre, intanto, pensa a nuove nozze ed il Consiglio di Bergamo decide a stretta maggioranza di fare un dono per cinquecento ducati alla sposa. Ma il Pallavicino lascia intendere che, piuttosto che gioielli alla moglie, preferirebbe avere i denari per sé: e il Consiglio lo esaudisce [BER, 74v].

Nel marzo 1511 vi sono nuovi editti contro il passaggio di beni mobili tra i confini dei territori regi e di altri dominii, in particolare quello di Venezia. Prosegue anche la distruzione degli stemmi veneti: sopra gli scudi del podestà Paolo Pisani e del capitano Antonio Bernardo (essi avevano servito, rispettivamente, dal 1498 e dal 1499) vi era la statua dorata di un'angelo con un'iscrizione "Dilexisti iustitiam et odisti iniquitatem", che fu scalpellata, insieme con tutte le altre. Al loro posto furono innalzate le insegne del Pallavicini e di Tommaso Torriani: Quid sit futurum - commenta preoccupato il Beretta [BER, 75r] - Deus scit.

Il 24 aprile, il podestà Panigarola, di ritorno da Milano, annuncia in Consiglio che si sta profilando una pace, chiedendo tuttavia uno sforzo della città in aiuto del Triulzio che stava al campo nel ferrarese contro il Papa. Si trattava di 32 carri con tre paia di buoi ciascuno, ridotti in seguito a 10. Ma la pace fatica a venire ed il 29 aprile il Triulzi riporta ai bargamaschi da Stellata che l'ambasciatore di Massimiliano aveva lasciato Bologna, senza aver concluso alcunché con il Papa [BER, 76r].

Un caso macroscopico di opportunismo riferito dal Beretta [BER, 76r] è quello di un tale Francesco Donadoni, bergamasco, che era stato preso prigioniero a Milano con l'accusa di tramare contro il re a favore dei veneziani. Dopo oltre un anno di detenzione, il Senato di Milano discute il suo caso il 12 aprile 1511. Tali e tante sono le attenuanti addotte in suo favore, che egli viene condannato solo ad una pena pecuniaria e subito liberato, pagando solo le spese della detenzione, che il padre raccoglie a Bergamo da vari donatori. Egli viene assunto poi come arciere dal capitano Teodoro Triulzi e combatte contro i veneti, guadagnandosi la nomea di fedele suddito milanese. Ritroveremo ancora il nome del Donadoni perché, quando successivamente i francesi lasceranno l'Italia sotto la pressione dell'esercito della Lega Santa, Francesco si presenterà al campo veneto, proclamando la sua fedeltà alla Repubblica e facendosi chiamare Fiamma Bergamasca. Con questo titolo otterrà dai provveditori generali il 27 agosto 1512 una casa nella cittadella di Bergamo ed il titolo del banco notarile dell'ufficio del Maleficio di Bergamo. Solo il successivo 6 settembre i Capi del Consiglio dei Dieci lo rimuoveranno da quei privilegi, con lettera al provveditore da Mosto.

Si rinnovano ancora a Bergamo il 14 maggio 1511 i festeggiamenti per commemorare la battaglia di Agnadello e per il grande scampanio si fessura la cosiddetta campana Pandolfa [BER, 78v]. Quando l'esercito del Triulzio torna vincitore da Bologna, si profila concretamente la possibilità che parte del suo esercito sia ospitata a Bergamo. Nel tentativo di evitare che un centinaio di questi militari sia mandato nelle case dei cittadini, il Concilio invia al Triulzio due oratori (13 giugno) [BER, 79r]. Anche il Generale di Normandia viene a Bergamo il 14 giugno per visitare le fortificazioni ed il Beretta nota [BER, 79v] che né lui né i suoi accompagnatori assistono alla messa, a causa dell'interdetto che Giulio II aveva pronunciato contro l'intervento francese a Bologna ed il ritorno dei Bentivogli. Bergamo fa dono all'ospite di formaggi, cera e carni, allo scopo di favorire la concessione dei benefici che egli promette. In questa occasione l'avversione dei francesi contro i veneti assume forme addirittura ridicole, con un proclama dello stesso Generale che vieta ai bergamaschi di portare barba, bande, cappucci e cappelli all'uso veneziano, nonché armi di proprietà di veneziani, quod sane multam admirationem fecit, fere omnibus seu maior pars bergomensium iuxta morem suum haberent berettas non gallicas, sed consuetas patriæ [BER, 79v].

Nonostante le suppliche per essere esonerata dalle gravezze militari più moleste, la città non riesce ad evitare che truppe di cavalleria del Triulzi vi siano inviate il 20 giugno e vengano alloggiate nelle case dei cittadini. Alcuni di questi cercano di evitare l'incomodo pagando gli sgraditi ospiti perché si rivolgano altrove; oppure gratificando il Parmigiano, furiere del Triulzi, per redimere tale obbligo. Lo stesso cronista Marco Beretta [BER, 81r] fu richiesto di ospitare uno di questi uomini d'arme e, conversando con lui, scoprì che sotto quest'obbligo si celava un realtà un gigantesco illecito. Infatti, l'ordine era che i militari fossero ospitati a spese dei paesi del territorio, oppure che ricevessero un compenso mensile in denaro pari a 40 soldi per cavallo, un tributo che era chiamato la tansa. Il Triulzio, tuttavia, riscuoteva una tansa per mille cavalli al mese, pari ad una somma annua di trentamila lire imperiali, e teneva il denaro per sé, invece di versarlo ai militari cui esso spettava quando gli uomini d'arme non erano in campo, oppure ai loro alloggiamenti. Con l'arrivo di questi militari il mercato dei generi di prima necessità risulta sconvolto, tanto che è necessario emanare ordini precisi circa le condizioni degli alloggiamenti ed il calmiere delle vettovaglie (23 giugno). Né queste erano le sole vessazioni cui i bergamaschi erano sottoposti dal duro regime francese. Il castellano di Bergamo voleva infatti accollare loro il rifacimento della rocca, che soltanto dopo una speciale supplica il Senato ordina di evitare (21 giugno) [BER, 81v].

Per rafforzare la custodia della città ed evitare possibili tradimenti, si provvede anche verso l'inizio di luglio - e l'ordine è di Gastone di Foix - a sostituire i guardiani italiani alle porte della città con personale francese. Alle porte della città stavano anche daziari e pizamantelli del conduttore dei dazi di Bergamo, il milanese Alvise Boltega, i quali commettevano infinite angherie e violenze nei confronti degli abitanti. Essendo le custodie state rafforzate per il pericolo di pestilenza, i daziari cacciarono le sentinelle a mano armata. Invano Francesco Trovamala, luogotenente del Podestà, ordinò al Boltega che queste violenze cessassero: questi sapeva bene di poter contare sulla connivenza delle autorità francesi e sulle esitazioni e le discordie dei bergamaschi e proseguiva impunemente. La città ricorse al Senato che inviò il senatore Leo Beloni, per istituire un processo contro l'appaltatore. Il processo non arrivò mai ad una conclusione, nonostante che due oratori, Oliviero Agosti ed il cancelliere della comunità Francesco Bellafino, fossero inviati a Milano per sollecitare la causa [BER, 84v].

La permanenza delle truppe del Triulzio si prolunga fino alla fine di agosto quando, dopo una rivista militare, si allontanano dalla città, senza aver pagato i loro debiti ai bergamaschi che li avevano ospitati. Le truppe si spargono per i paesi e le campagne del territorio cum maxima turbatione et pullorum occisione [BER, 84r].

Il regime francese aveva anche imposto pagamenti pesanti sopra i diritti di caccia e pesca nel territorio, a favore della fazione ghibellina di Soccino Secco, che furono levati soltanto nel luglio 1511, imponendo il ritorno al tradizionale uso libero di caccia e pesca, come era praticato sotto il regime veneto [BER, 82v]. Segni di una certa resistenza al regime francese si notano anche nelle istituzioni. Il 2 agosto 1511 si discute tra gli anziani della città circa la conferma del Podestà Panigarola, nonostante i componenti del suo ufficio avessero male operato. Sed quia non erat in Senatu libertas loquendi, et pravi erant et numero et potentia superiores, et magis hominibus quam Deo et beneficio publico incumbebant; tandem scriptæ sunt litteræ quod confirmaretur, cum conditione quod Augustinus Panigarola Potestas personaliter præturam exerceret, quia pro maiori parte temporis steterat absens [BER, 83v]. Dal che si deduce che, nonostante le pesanti restrizioni alle libertà civiche, qualche debole tentativo di condizionamento nei confronti del francesi si andava manifestando nel Consiglio.

Forse anche a causa di questi segni, i francesi emanano il 18 agosto ordini severissimi contro coloro che portano armi e con obbligo di denuncia dei trasgressori, eccettuando soltanto i viaggiatori, cui si consente di portare una spada o un pugnale per loro protezione personale [BER, 84r].
Toptop



Il territorio di Bergamo sotto il dominio francese

Nonostante le buone parole e le favorevoli dichiarazioni di Luigi XII nel momento di assumere il dominio di Bergamo, con il passaggio al regime francese i rapporti tra città e territorio si vanno radicalmente modificando. Nell'immediatezza dell'arrivo del nuovo dominio, molti di coloro che ambivano acquisire privilegi si fanno avanti e pongono le loro candidature per gli uffici di fuori del territorio. Ma, trascurando queste richieste, il re, che aveva promesso quattromila ducati d'oro all'Amboise sulle terre conquistate in riconoscimento delle sue benemerenze, gli assegna tali introiti sul territorio bergamasco. Questa concessione si materializza in un'importante concessione, cioè nell'atto di donazione che il re fa al suo Gran Maestro e Luogotenente Generale. Il documento, dato da Peschiera il 10 giugno 1509, è di grande interesse per comprendere lo stato giuridico della città e del territorio di Bergamo dopo l'avvento del dominio francese, e gli avvenimenti conseguenti. Esso è conservato a Bergamo nella sua interezza [Reg. Duc. A, 157v] e se ne dà qui un brevissimo regesto.

Innanzitutto, la donazione - giustificata dalla gratitudine del sovrano per i grandi meriti acquisiti dal Gran Maestro nella guerra passata - riguarda i seguenti luoghi: Romano, Cologno, Urgnano, Ghisalba, Mornico, Calcinate, Martinengo, terre già appartenute a Bartolomeo Colleoni; le valli Seriana superiore, Gandino e Seriana inferiore, la valle Imagna, Lovere, Vailate, Trezzo e Villa di Serio, tutte terre del bergamasco; Fontanella nel cremonese; Ghedi, Leno e Malpaga, già appartenute al conte di Pitiliano che aveva comandato l'esercito veneto.

Al di là delle forme auliche, la donazione ha per oggetto: la giurisdizione di tutti i luoghi enumerati; i dazi (pane, vino, mercanzie, gratarola, imbottature, traverso); le convenzioni, diritti, regimi, regalie, diritti di caccia e pesca, preminenze, libertà, onoranze, esenzioni, privilegi, grazie, terre, confini, taglie, pertinenze, possedimenti, pascoli, diritti d'acqua nonché acquedotti e rogge, fondi e qualsiasi altro bene presente e passato connesso con i detti luoghi. A tutto questo viene assegnato un reddito nominale annuo netto di 4000 ducati d'oro.

Specificamente a riguardo dei rapporti con i capoluoghi, tutte le località nominate vengono liberate dalle rispettive giurisdizioni di Brescia, Crema e Bergamo, nonché dalla tutela dei rappresentanti cittadini. Esse vengono esentate ed in tutto separate dalle città stesse. La donazione viene fatta pleno iure in feudo all'Amboise ed ai suoi eredi in perpetuo, con l'eccezione dei diritti sul sale e delle tasse dei cavalli, che il sovrano si riserva.

L'atto principale è accompagnato da alcuni documenti dipendenti [Reg. Duc. A, 159r-161r]. Essi sono, nell'ordine: a. un proclama (17 luglio 1509) con il quale il re notifica a tutti l'avvenuta donazione; b. una relazione (24 luglio 1509) della regia camera fiscale (cui l'atto principale è stato demandato per le osservazioni del caso) al Senato milanese, nella quale si stima il reddito netto dei beni infeudati a 4003 ducati, e si elenca partitamente l'ammontare del reddito per ogni singolo luogo donato; e, infine, c. l'approvazione dell'atto di donazione da parte del Senato, sempre del 24 luglio 1509. Al 17 luglio menzionano il Celestino ed il Calvi [II, 446] che il re concede all'Amboise di poter alienare la metà dei beni donati.

Come risultato di questa donazione ed infeudazione, il territorio bergamasco si trova ad essere diviso in due zone: quella non ceduta all'Amboise, che rimane sotto la giurisdizione del capoluogo; e quella infeudata, dalla cui amministrazione Bergamo viene del tutto esclusa. Fanno parte della prima i territori elencati sopra; appartengono alla seconda le valli Brembana inferiore, superiore, ed Oltre la Gocchia, le valli di san Martino, Calepio, Cavallina, Taleggio, Almenno, ed alcune quadre della pianura.

Naturalmente, Bergamo non poteva assistere senza reagire ad un tale smembramento delle sue prerogative e del suo territorio, E infatti, all'inizio di agosto 1509 - cioè dopo che larga parte del territorio era stata donata al Gran Maestro - la città sottopone al re una nuova supplica [Reg. Duc. A, 163v, anche altrove] in cui dichiara di aver sempre avuto a sua disposizione gli uffici della città e dell'agro, tranne quelli di Martinengo, Romano e val Seriana superiore, che Venezia le aveva - a suo dire - indebitamente usurpato. Ora, per non rimanere mostruosamente sfigurata nel corpo, Bergamo supplica che le siano confermate tali giurisdizioni, come vogliono giustizia, equità e le stesse promesse del re. Da Milano, il 3 agosto, la supplica viene inviata al podestà di Bergamo, con una dichiarazione che il re non intende ridurre (ma se mai accrescere) le prerogative di cui i cittadini (ma non già la città) godevano in passato e che nel conferimento degli uffici si osservi quanto era d'uso sotto Venezia. Purtroppo i dati esistenti non consentono di ricostruire accuratamente le vicende della varie giurisdizioni. Si pensi, per esempio, che per gli anni 1509 e 1510 non esistono quasi informazioni nel Libro delle Azioni. La carenza di documenti è tale da far pensare ad una sistematica distruzione intervenuta dopo il ritorno di Venezia. Soltanto a partire dal 1511 le registrazioni utili nel Libro delle Azioni riprendono con una certa regolarità. Spesso quindi la ricostruzione degli avvenimenti di questo periodo deve procedere a ritroso, cercando di dedurre da informazioni successive lo stato delle cose nel periodo precedente.

La situazione di Lovere è stata discussa da Silini [1992] sulla base di molti documenti ritrovati. Va solo aggiunta un'informazione recente [pergamena già presso la Biblioteca Marinoni di Lovere ed attualmente conservata presso quel Comune]. Si tratta di un privilegio del 1509 (ma la data precisa non è nota) concesso da Luigi XII ai loveresi dopo l'infeudazione all'Amboise. Oltre a benefici daziari per i manufatti diretti ai mercati del Tirolo, il testo contiene un capitolo di natura giurisdizionale, nel quale si concede ai loveresi di essere separati da Bergamo e di rivolgersi invece a Brescia per i giudizi d'appello del podestà locale e per il cosiddetto "consilium sapientis", un parere giuridico cui si ricorreva nei casi dubbi. Questo capitolo testimonia che i tentativi di distacco da Bergamo da parte del comune del Sebino proseguivano: essi si svilupperanno poi a partire dal 1512, come si vedrà, in forma organizzata. Se poi il privilegio in parola sia stato di fatto accordato, non è stato possibile provare.

Le vicende di Martinengo in questo periodo sono state trattate dal Pinetti [1916] e più di recente da Caproni [CAPRONI et al., 1992]. Nel complesso, esse non si discostano molto da quelle note per il resto del territorio. Martinengo ha dapprima un podestà di designazione francese, Gian Pietro Orabono, e cerca invano di ottenere concreti benefici. Per quanto riguarda Romano, Cassinelli et al. [1978] menzionano un privilegio del 20 febbraio 1510 ad opera di Carlo d'Amboise.

I dati noti per la val Seriana superiore (invero più abbondanti) sono forniti soprattutto dal Baldi. Il notaio clusonese narra che la valle fu concessa in dono a Carlo d'Amboise il 10 giugno 1509 [BALDI, Somm. Gr., 299]. Ma già dal 19 maggio Pietro Pallavicino era stato deputato da Antonio Maria Pallavicino rettore della valle [BALDI, MMB 150, 139 e Reg. A, 38v], ed il 25 maggio il Vicario di Bergamo imponeva a Clusone di mandare le denunce dei casi criminali all'ufficio dei Malefizi di Bergamo in termine di tre giorni [BALDI, Reg. A, 40r]. Dal campo presso Peschiera Antonio Maria Pallavicino, presso il quale la valle si era lamentata per l'infrazione ai suoi privilegi, annulla quest'ordine, non intendendo il re francese di peggiorare il trattamento del territorio acquisito, rispetto al passato [BALDI, Reg. A, 40r]. Con lettere dell'Amboise, l'intera val Seriana viene anche esentata dal contribuire alle spese di cavalli [30 luglio 1509; BALDI, Reg. A, 40v].

Il giuramento di fedeltà della valle al nuovo dominio avviene verso l'8 agosto 1509 [BALDI, MMB 150, 180 e Reg. A, 40v]. A questa data due emissari francesi sono a Nembro per ricevere il giuramento della valle Seriana inferiore. Essi intendono recarsi a Gandino e poi a Clusone per la medesima ragione. Con lettere urgenti pregano quindi di approntare entro due giorni gli opportuni alloggiamenti per un breve soggiorno, e di convocare i sindaci della valle superiore, debitamente autorizzati, per giurare a loro volta.

Rapidamente, anche in questa valle, un regime che si era preannunciato come abbastanza liberale comincia ad assumere caratteristiche repressive. Un proclama di Francesco da Laveno, segretario e commissario del Gran Maestro ed insediato podestà a Lovere [12 settembre 1509; BALDI, Reg. A, 50v] fa obbligo a tutti di dichiarare con scrittura giurata i membri maschi della famiglia dai 10 anni in su, e se sono assenti, e per quanto; si vuole anche conoscere quali siano nella valle i beni di Veneziani o di persone abitanti a Venezia; e si esige una lista di tutti i delitti passati e recenti commessi in quelle terre, con i nomi dei rei e dei complici. Il 22 novembre, a nome del Gran Maestro, Francesco da Laveno comanda da Lovere a tutti coloro che continuano ad abitare a Venezia e favoriscono la causa della Repubblica di presentarsi a lui per difendersi e scusarsi, sotto pena di essere dichiarati ribelli e di vedere i loro beni confiscati [BALDI, Reg. A, 59r]. Altri ordini dai toni analoghi seguono il 19 dicembre [BALDI, Reg. A, 59v], con minacce di pene gravissime, quali la confisca o la forca a chi, arrivato dai territori veneti, non si consegnerà immediatamente ad ufficiali francesi ed anche a chi, informato di queste trasgressioni, non le denuncerà.

Il 4 gennaio 1510 la valle supplica il Gran Maestro che sia sospeso il proclama contro i valleriani assenti, specialmente a Venezia, ed incarica il governatore e l'uditore regio di Bergamo di trovare una composizione [BALDI, MMB 150, 181 e Reg. A, 54v]. La quale non viene tuttavia raggiunta, perché il 10 febbraio 1510 il proclama contro gli assenti viene replicato per la quarta volta [BALDI, Reg. A, 57r] con l'ordine di far pubblicare come ribelli coloro che non sono ritornati dalle terre in mano veneta, e di confiscare i loro beni. Finalmente, il 22 aprile si arriva ad un compromesso e gli assenti vengono "liberati" [BALDI, Reg. A, 57r ed altrove]. Ma la valle deve versare 650 scudi d'oro per riparazione di coloro che sono assenti. L'atto di quietanza è del 18 settembre 1510 [BALDI, Reg. A, 61r] ed una dichiarazione del Panigarola sull'avvenuta soddisfazione dei debiti viene firmata il 12 dicembre 1510 [BALDI, Reg. A, 61r]. Questa intera vicenda riguardante i valligiani assenti e le taglie pagate dalla valle per la composizione della vertenza è documentata negli ordini 450-457 del comune di Clusone [SILINI e PREVITALI, 1997].

Intanto, il 24 settembre 1509 Carlo d'Amboise aveva fatto dono a Bernardo di Recauvile della podestaria di Clusone, con tutti i diritti ad essa pertinenti, e con facoltà di deputarvi altre persone di due in due anni ad esercitare il mandato [BALDI, Reg. A, 49r] e pochi mesi più tardi, in virtù di questa donazione, il re allontana dalla podestaria chiunque vi si sia insediato e, con molte parole di lode, vi deputa Pietro Antonio da Casate, cittadino milanese [14 dicembre 1509; BALDI, Reg. A, 49v]. Al nuovo podestà viene conferita la giurisdizione con mero e misto imperio, potestà del coltello e tutti i diritti annessi alla carica, per due anni dall'insediamento o più, a beneplacito. Il documento di nomina è vistato dall'Amboise. A dire del Baldi, il Casati non fu in tutto retto, liberando l'incantatore della taverna del comune ingiustamente [BALDI, Somm. Gr., 302]. Il 30 luglio 1511 il Pallavicino scrive al tesoriere di valle perché lasci governare il banco giuridico allo stesso Casati [BALDI, MMB 150, 182 e Reg. A, 62v].

L'insistenza del dominio francese a perseguire quei cittadini di val Seriana superiore che se ne stavano a Venezia, forse collaborando con il nemico, pare un poco sproporzionata rispetto alla minaccia che costoro avrebbero potuto rappresentare. Forse i francesi volevano soltanto precostituirsi delle giustificazioni per comprare i loro beni e per esercitare sulla valle una forte pressione psicologica, o magari un ricatto per estorcere danaro. Un tale sospetto è avvalorato da alcuni fatti che si svolgono tra il dominio francese e la valle, immediatamente prima degli episodi narrati per la podestaria. Infatti, l'11 ottobre 1509 alcune persone di Clusone, anche a nome dell'intera valle Seriana di sopra - avuta procura di concordare con il segretario del Gran Maestro Francesco da Laveno ogni possibile accordo per evitare che gli abitanti fossero venduti, ma restassero invece nella grazia del dominio francese - arrivano ad un accordo preliminare: offrono al Laveno 800 ducati d'oro, elevabili a 1000 se l'Amboise lo imponesse. La somma verrà pagata alle condizioni imposte dai francesi, i quali confermeranno i capitoli e privilegi della valle e si impegneranno a trattare i valligiani in materia di alloggiamento di cavalli alle medesime condizioni degli altri sudditi meglio trattati [BALDI, Reg. A, 41r].

Ed il 16 novembre a Brescia rappresentanti di molti comuni della valle ottengono dall'Amboise di essere accettati nella sua buona grazia e di non essere venduti ad altri. A tal fine, si offrono di pagare 1000 ducati d'oro, con le condizioni seguenti: a. che l'Amboise non venda la valle e la sua giurisdizione e, qualora la vendesse, gli abitanti possano riscattarla per 800 ducati, restando gli altri 200 in dono al Gran Maestro; qualora la valle non volesse riscattarsi, gli 800 ducati le saranno restituiti; b. che l'Amboise approvi i privilegi della valle, dalla quale nessuna terra potrà essere separata, in particolare Sovere con le sue pertinenze; c. che l'Amboise preservi e difenda i comuni da spese straordinarie ed alloggiamenti di cavalli, trattandoli come tratterà gli altri suoi sudditi al meglio [BALDI, Reg. A, 41v e BALDI, MMB 150, 180]. I 1000 ducati vengono immediatamente versati ad un segretario del Gran Maestro, e le condizioni accettate [BALDI, Reg. A, 42r].

Pare possibile - ma non è noto se e quando - che un accordo analogo sia stato firmato anche per val Gandino, perché il Gran Maestro fa ritirare da questa valle 100 cavalli che vi dimoravano, offrendosi Gandino di contribuire secondo il solito. Analoga disposizione vale anche in le altre terre nostre ... perché habiamo ordinato che tuti contribuiscano secondo lo consueto. La lettera, del 30 dicembre 1509, è indirizzata ad un certo Parmasano [BALDI, Reg. A, 51r]. Un'altra missiva al medesimo personaggio e non datata (ma sicuramente posteriore al 16 novembre 1509) lo informa dell'accordo intervenuto con val Seriana superiore, i cui abitanti da quel momento in poi devono essere trattati come amici, qualsiasi cosa essi abbiano commesso in passato.

In assenza di informazioni utili nel Libro delle Azioni del Consiglio, alcuni documenti nel Registro della Ducali A sono di grande interesse per ricostruire gli avvenimenti nel periodo iniziale della dominazione francese. Così, il 28 settembre 1509 [Reg. Duc. A, 163v] il Consiglio prende atto di una lettera del governatore Antonio Maria Pallavicino al podestà di Bergamo, nella quale informa che alcuni privati hanno chiesto al Gran Maestro di acquistare le giurisdizioni di Martinengo, Romano, Cologno ed Urgnano, Calcinate, Ghisalba e Mornico. La città decide allora di inviare all'Amboise oratori per richiedere che questi uffici siano ceduti a Bergamo, piuttosto che ad altri. Si nominano Leonardo Comenduno, Ludovico Suardi e Francesco Albano, conferendo loro ogni libertà di trovare un accordo. Gli ambasciatori partono il giorno seguente e tornano il 2 ottobre insieme con lo stesso Gran Maestro, il quale dimora a Bergamo per qualche giorno e poi prosegue per Sarnico e Lovere il 5 ottobre.

Ma l'accordo richiede denaro e già il 3 ottobre [Reg. Duc. A, 104r] il Consiglio elegge sei deputati per trovarlo. Il giorno seguente si discute ancora in Consiglio e si pone parte che i già ricordati 4000 ducati condonati dal re a Bergamo siano dati ad interesse al fine di recuperare il denaro per la transazione e che le terre che saranno comprate ed i beni stessi del comune si possano ipotecare nei confronti di coloro che presteranno denaro a tal fine. Si incarica di tutto ciò il tesoriere bergamasco Francesco Suardi [ibidem].

Il 5 ottobre [Reg. Duc. A, 164v] si decide di acquisire le giurisdizioni, dazi ed introiti spettanti all'Amboise per i luoghi sopra nominati (eccetto Martinengo e Romano) e si incarica il governatore di Bergamo Pallavicino di contrattare il prezzo ed i tempi dell'accordo, a nome della città. L'atto di cessione da parte di rappresentanti del Gran Maestro è del 6 ottobre 1509 [ibidem,164v].

Vi potrebbe essere qui una qualche discrepanza nelle date, perché due atti del 10 ottobre 1509 [R. 99. 23, 20v] danno indicazioni diverse. A questa data, infatti, rappresentanti della città sottopongono una supplica al re nella quale spiegano dapprima che talune terre (tra cui Cologno, Urgnano, Calcinate, Mornico, Ghisalba) erano state infeudate al Gran Maestro con tutte le loro giurisdizioni, dazi e diritti; che esse erano poi state vendute a certe persone per conto della comunità di Bergamo; e che i compratori si vedevano ora costretti a vendere, al fine di pagare il Gran Maestro, ma soltanto dopo aver ottenuto il consenso del re. Tutto ciò premesso, i supplicanti chiedono di poter alienare questi luoghi, o alcuni di essi, insieme con i dazi e le entrate, oppure le sole entrate ma conservando le giurisdizioni, come meglio parrà alla comunità di Bergamo. La risposta del re è che gli agenti della comunità possano procedere all'alienazione dei luoghi e dei beni acquisiti dal Gran Maestro alle condizioni che saranno concordate tra le parti - purché i compratori siano sudditi - e conferisce validità all'atto che sarà stipulato. Quindi, nell'ipotesi che le date siano corrette, bisogna pensare ad un rapido duplice passaggio di queste terre, o parte di esse, dall'Amboise a certi intermediari e poi da questi alla città, presumibilmente con qualche vantaggio degli intermediari.

Fin qui i documenti. L'Assonica dà invece di tutta questa vicenda una diversa interpretazione. Egli riferisce che l'Amboise stesso impose sotto minaccia alla città di riscattare gli introiti che gli erano stati donati, insieme con ogni giurisdizione e che su questo argomento si ingaggiò una dura trattativa. Vale la pena riferire il testo, che dice: Si propose di scegliere quale parte [del territorio] avrebbero preferito comprare; fu proposto anche un prezzo, cioè cento soldi per ogni dieci di reddito. E quando la città, allettata dalla speranza di un guadagno ma atterrita dalle minacce, si offrì di riscattare qualcuna delle valli, ma ad un prezzo più onesto, allora dichiarò che non avrebbe restituito alla città le valli che sapeva esserle più ostili, se non avessero meritato tale restituzione per il prezzo proposto. Venne offerta una gran somma di denaro ed allora egli, come se venisse in visita alla città, vi arrivò spontaneamente. Poiché egli ignorava ciò che fino ad allora era stato fatto, ricominciò a trattare di nuovo. Convocati alla sua presenza coloro che erano stai eletti a questa faccenda, si comportò con loro come se non volesse vendere ogni cosa, ma volesse trattare soltanto per Cologno, Urgnano, Ghisalba, Calcinate e Mornico, paesi della pianura, in ragione di cento soldi per ogni otto. E siccome prevedeva che sarebbe stato contraddetto, impedì loro di rispondere alcunché prima che la questione fosse stata portata in Senato. Quando i senatori furono radunati, il governatore che era presente annunziò con una lungo discorso che se i luoghi offerti non fossero stati comprati, la città sarebbe incorsa nell'indignazione del luogotenente regio e poi punita per crimine inconsulto.
A quel punto, non osando gli onesti resistere ai faziosi che proponevano di accettare, Paolo Zanchi li convinse a comprare quei luoghi al prezzo che fosse piaciuto al luogotenente regio di fissare, nella convinzione di poter almeno conseguire il vantaggio di stipulare al prezzo originariamente offerto. Ed affermò che se il senato avesse approvato, nessun uomo degno di tal nome poteva acontentarsi solo di un sei per cento. A richiesta della città, si fece un prezzo in ragione dell'otto per cento, aggiungendo che si sarebbe accettata tutta la somma che il governatore avesse deciso, purché non superasse i mille scudi d'oro. Subito dopo egli decise che si versassero i mille scudi promessi, anche se si credette che questi non uscirono dalle mani del governatore. Essi furono sborsati dalla città stessa per ricevere con maggior pompa Carlo quando vi entrò. Per quel che riguarda l'eccezionalità dei festeggiamenti, delle manifestazioni e delle esternazioni, basti dire che per sua stessa testimonianza fu provato che non si vide altrove tanta allegria per la sua venuta. Ma, quanto ai denari, il guadagno fu proprio poco
[ASS]. Come si vede, non appare facile riconciliare le fonti documentarie con le notizie dell'Assonica.

In epoca posteriore, dopo la pace di Noyon, si parlerà del riscatto della podestaria di Urgnano e Cologno, che sotto i francesi era stata davvero data a privati [Az 14, 163r]. Lo stesso accadde per altri uffici che non facevano parte delle terre donate all'Amboise, come Scalve, che fu data in convenzione per 150 ducati l'anno di prestito; e per Oltre la Gocchia e val Brembana superiore, che furono affidate per denaro ad alcuni cittadini che ne manterranno il possesso per diversi anni.
Toptop



Rapporti tra Bergamo ed il territorio

Come si è narrato sopra, i rapporti tra Bergamo ed il territorio, da una parte, ed il regime francese, dall'altra, sono complicati da questioni monetarie e di dazi. Tali questioni continuano quando (9 gennaio 1510) il Senato di Milano decide che i dazi non possano essere riscossi se non in moneta ed oro correnti a Milano, secondo i capitoli concessi ai bergamaschi [BALDI, Reg. A, 55r]. E in un successivo accordo tra rappresentanti delle valli Seriane e Gandino e rappresentanti di Bergamo, si stabilisce che le valli pagheranno i dazi secondo le rispettive quote fino alla somma di 1000 ducati, sui 50 carati che spettano a ciascuna valle (questo passo è oscuro), oppure fino a 200 ducati, promettendo di rifondere la città nella garanzia che sarà fatta ai daziari, secondo le terminazioni del Senato, e obbligando invece i beni delle valli [26 gennaio 1510; BALDI, Reg. A, 55v].

I tentativi di riscatto delle giurisdizioni attribuite all'Amboise occupano gran parte di questo periodo e Bergamo ricorre ad ogni mezzo, più o meno lecito, per rientrare in possesso del suo territorio, sul governo del quale le forze francesi occupanti pesantemente cercano di interferire. Per citare un esempio, il 29 gennaio 1511 [Az 11, 41v] il governatore francese di Bergamo chiede che Ludovico Suardi, commissario a Caprino, in ricompensa di danni ivi subiti, possa ottenere la podestaria di Urgnano e Cologno, oppure il vicariato di Zogno. Il Consiglio si oppone, e rifiuta anche al Suardi un rimborso di 40 ducati. Alla fine però [30 gennaio 1511; Az 11, 42r], per compiacere al governo francese, nomina il Suardi esecutore della comunità.

Uno dei mezzi utilizzati per riacquistare le giurisdizioni consiste nell'ingraziarsi gli occupanti francesi, mediante doni e regalie. Il 25 marzo 1511 [Az 11, 64r] nelle commissioni date a due oratori che si recano presso il governatore a portargli un dono in occasione delle sue nozze, si dà mandato di informarsi sul modo come la città possa ottenere le giurisdizioni dell'agro. Il 28 marzo 1511 [Az 11, 69r] la comunità di Bergamo fa dono all'Amboise di 50 ducati pro contractu terrarum Urgnani, Colonii, Mornici, Gisalbe et Calcinati. Infine, si invita a Bergamo il Generale di Normandia per chiedere il suo aiuto nella difesa dei privilegi della città, dandogli anche un cospicuo dono [Az 11, 111v].

Un altro mezzo consiste nel difendere i privilegi in sede legale. Dodici incaricati vengono eletti il 14 marzo 1511 [Az 11, 63r] per curare i privilegi concessi dal re alla città e per seguire ogni materia che possa tornare ad utile e comodo della stessa. Riferisce il Beretta che il 21 marzo 1511 il Consiglio della città nomina ambasciatori al re Luigi XII in Francia il vescovo Bartolomeo Assonica e Ludovico Suardo. Lo Chaumont era appena morto e la comunità di Bergamo desidera avanzare reclami perché il Gran Maestro aveva conculcato i diritti della città, nominando suoi ufficiali alle cariche di fuori e in materia del pagamento dei dazi. Il vescovo tuttavia declina l'incarico ed al suo posto viene nominato Francesco Albani. Nemo tamen ivit ad Regem, osserva il Beretta e, molto più modestamente, il 25 marzo [Az 11, 67r] ad un rappresentante che si reca a Milano per porgere le condoglianze della città per la scomparsa del Gran Maestro, si chiede di avvicinare chiunque necessario per vedere quid agendum et attemptandum sit pro habenda via et modo ut iurisdictiones totius agri bergomensis uniantur et reintegrentur cum civitate, iuxta formam privilegiorum civitatis. Poi il 23 aprile [Az 11, 79v], al fine di rendere più efficace l'azione di recupero del distretto, il Consiglio decide di delegare questa materia ad una commissione di 12 eletti alla difesa dei privilegi cittadini. Si discute a lungo nel Consiglio se gli eletti debbano recarsi in Francia ad intercedere per la città presso il re, oppure a Milano. Si decide alla fine per un approccio graduale: due designati, Pietro Assonica e Paolo Zanchi, saranno mandati in avanscoperta a Milano con il compito di conferire con il Presidente del Senato, il podestà ed altri personaggi protettori della città per chiedere il loro parere sulla loro idoneità ad essere giudici sulle materie dei privilegi bergamaschi. E ciò per evitare le spese del viaggio in Francia. Sempre in quel giorno [Az 11, 80v] si eleggono altri due cittadini a difendere i diritti della podestaria di Urgnano e Cologno contro gli abitanti di quei comuni, allo scopo di addivenire ad un accordo.

Infine, un terzo modo è quello di recuperare denari per riscattare gli uffici. Il 21 febbraio 1511 [Az 11, 51v] per la prima volta si apprende che l'ufficio di Oltre la Gocchia era stato aggiudicato a Tommaso Tasca, che aveva prestato alla città 300 ducati per ottenere quel vicariato. Il 1 giugno seguente si cercano denari per ripagare il Tasca e si dà mandato agli Anziani di aggiudicare quel vicariato per un solo anno [Az 11, 104r]. Si tratta di una pratica che sarà poi largamente applicata: quella di aggiudicare gli uffici di fuori a persone disposte a prestare o regalare denaro alla città per far fronte alle spese correnti. E si tratta anche, come è ovvio, di un comportamento criticabile, che non solo prescindeva da ogni considerazione del valore dei giusdicenti, ma consentiva alla città di controllare il territorio utilizzando le sue prerogative per trarne immediati benefici finanziari.

Il 26 aprile 1511 [Az 11, 82r] ritorna in Consiglio il problema della possibile ambasceria a Milano in una riunione ristretta dei 12 delegati. Essi decidono che i due oratori designati debbano prima di tutto conferire con il Governatore, se questi è a Milano. Si designano allo scopo Paolo Zanchi e Pietro Assonica [28 aprile 1511; Az 11, 86r]. Il 1 giugno si danno le commissioni ad altri due oratori (Ludovico Suardi e Francesco Albano) che si recano presso il Senato a difendere i diritti e l'onore del Collegio dei giudici di Bergamo, laddove si tratta dei privilegi cittadini. Il 17 giugno essi giurano che durante la legazione non contravverranno a questi privilegi e si asterranno dal difendere altre cause [Az 11, 113r].

Prosegue intanto l'opera di recupero delle giurisdizioni e si chiede al tesoriere Gerolamo Agosti di anticipare 400 ducati da spendere a questo scopo, e non per altro; in cambio, si conferisce al di lui figlio Ludovico, al tempo vicario a Zogno, di continuare in quell'ufficio per un secondo anno [5 giugno 1511; Az 11, 105v]. E poco dopo si conferisce per un anno l'ufficio di Oltre la Gocchia a Martino de Bolis, a patto che costui restituisca a Tomaso Tasca il denaro che quest'ultimo aveva prestato a Bergamo l'anno precedente per ottenere quel vicariato [13 giugno 1511; Az 11, 110r]. Forse a seguito di questa azioni, il 18 luglio 1511 [Az 11, 124v] vengono restituiti a Bergamo i diritti antichi di caccia, pesca ed uccellagione, con grande soddisfazione della città che mai in passato era stata usa a tal genere di servitù.

Nell'agosto del 1511 si conferiscono alcuni vicariati: quello di Serina a Giovan Maria Mozzo, a patto che costui presti alla città 100 ducati in più dei 175 che il suo predecessore ed attuale vicario di quel luogo, Alessandro Carrara, aveva prestato a suo tempo, e con l'intesa che il nuovo eletto possa restare in carica fino a quando i denari non gli saranno interamente restituiti [1 agosto; Az 11, 129v]; quello di Caprino a Ciprio Suardi, per i meriti del di lui fratello Francesco nei confronti della città, che già l'anno precedente aveva eletto in commissario di quel luogo Alvise Bagnati [14 agosto; Az 11, 132v]; ed infine quello di Vilminore ad Alessandro Balanza, che presta 200 ducati alla città, 125 dei quali egli dovrà restituire a Iacopo Mozzi, attualmente alla carica, che costui aveva a suo tempo prestato alla città.

Da tutto questo si deve concludere che Bergamo già nel 1510 aveva inaugurato la pratica di chiedere denari in prestito o in pagamento ai giusdicenti eletti ai diversi uffici; che questa pratica si era andata affermando nel 1511 e le somme prese a prestito erano andate aumentando; e che i giusdicenti che Bergamo nominava erano quelli dei luoghi non infeudati al Gran Maestro, rimasti a disposizione della città. Vi è da presumere che negli altri il governo francese avesse mandato (come, per esempio a Clusone ed a Lovere) persone di sua fiducia e non cittadini bergamaschi. Ma questa affermazione dovrebbe essere controllata luogo per luogo.

Va notato che anche il dominio francese, nonostante le precedenti promesse, chiede sussidi al territorio in occasione della guerra. In particolare, Giovan Giacomo Triulzi domanda urgentemente carri per l'esercito regio, stanti le "occorrenti necessità". Le valli supplicano il re di risparmiarle, ciò che il re concede, ordinando al podestà di Bergamo di non molestarle su tali questioni [22 maggio 1511; BALDI, Reg. A, 61v]. E' poi dell'8 luglio una richiesta di contribuzione per spese di cavalli sull'intero territorio di Bergamo, con una assegnazione specifica a varie zone del territorio [BALDI, Reg. A, 63r]. Infine, Gastone di Foix il 17 novembre 1511 impone l'invio di carri e buoi per trasporti, da impiegare a Milano ed il decreto [BALDI, Somm. Gr., 300v] ne riporta la precisa ripartizione sul territorio.
Toptop