ASSONICA PIETRO
Fragmentum chronicæ ab anno circiter 1509 usque ad 1512
pubblicato da G. Finazzi in "Miscellanea di Storia italiana", Tomo V, p. 279-355. Torino, 1868.

...D'ordine dell'ill.mo Dominio, fu fatta anche la descrizione di tutti coloro che fossero idonei a portare armi, nonchè di ogni e qualsiasi tipo di arma che si potesse trovare presso chiunque; e così anche dei grani o vettovaglie. E siccome di giorno in giorno secordi per la negligenza dei governanti il timore andava crescendo nei cuori delle persone, Lattanzio Bongi, bergamasco, figlio del giureconsulto Antonio, con cinquecento fanti venne dall'Emilia e si mandarono altresì molti altri alla custodia dei luoghi fortificati della Ghiara d'Adda. Così, Raniero Sassetta con cento balestrieri fu messo alla custodia di Ripalta Secca e Vitellozzo della famiglia Vitelli venne a Treviglio con altri settanta. Ma poichè la paura non era eccessiva, ma anzi i cittadini praeseferentibus illum publice et turmatim illum, parve opportuno ai governanti rafforzare il dominium di questo timore, espresso a nome di molti cittadini che parevano temere più fortemente. Avvenne quindi che per lettere pubblicamente lette fu dimostrata la nostra infedeltà ed il timore nei nostri confronti e ci fu ancora una volta promessa una riparazione, a patto che non demeritassimo degli avi nostri.

Intorno a quel tempo Nicolò Orsini, conte di Pitiliano e signore di Nola, comandante generale dell'esercito veneto, che circondava tutte le città e luoghi fortificati della Lombardia nel tentativo che ciascuno spendesse per renderne più facile la difesa e Bartolomeo Orsini, signore di Alviano ed egli stesso condottiero dei Veneti, procurabat i castelli ed i luoghi della Marca Trevigiana con Caravaggio, dove visitava il castello più munito e forte di tutti in Ghiara d'Adda lasciasse Bergamo verso Treviglio incidentalmente volendo entrare e si accorgessero i comandanti di Trezzo e Cassano e degli altri paesi lungo il corso dell'Adda che egli vagava inerme e senza scorta militare entro i loro confini, raccolti in fretta trecento soldati con armatura leggera, ciascuno dei quali aveva un fante a cavallo, con l'aiuto dei luoghi attraversarono a nuoto l'Adda. E quando giunsero al paese nostro di Arcene, interrogati alcuni contadini nel mercato delle biade che si tiene nella nostra città a giorni alterni, se ritornando avessero visto il comandante, ed avendo essi risposto che egli era verosimilmente già arrivato alle mura della città, desistettero dall'inseguire la preda, la quale distava a malapena duemila passi; se l'avessero inseguita, indubbiamente l'avrebbero presa senza pericolo alcuno.

E quando egli, ignaro di tanto pericolo, arrivò da noi ed apprese del rischio che aveva corso, ma tuttavia fingendo e andava dicendo in pubblico pressum tamen alto corde dolorem non poteva perdere la faccia confessandolo, si costruirono a tutela della città nostra due incastellature di legname e di terreno rinforzato che in lingua moderna si chiamano bastioni. Il primo fu sopra la chiesa di san Michele al pozzo bianco, dove era un tempo il castello Belfanti; l'altro lungo le mura della cittadella, dalla parte che guarda la pianura, nel luogo cui in antico fu imposto il nome di Paradiso. E poichè le voci cui ho accennato non si attenuavano, cioè che molti francesi serravano Lodi Pompeianam e di continuo minacciavano gli abitanti del monte di Brianza che sovrasta l'Adda, saccheggiando l'intero agro nostro dopo aver attraversato l'Adda, il dominio nostro mandò duecento stradiotti a difendere i confini bergamaschi. Costoro summo comitatem sine plauso posero il campo a Verdello ed Osio inferiore e lungo i confini dell'Adda; Giacomo Secco a Caravaggio, donde era originario, con cento soldati comandati da Taddeo Martinengo Motella, signore di Martinengo, e con altri ottanta comandati da Carlo Secco romano. Questi si posero a tutela del territorio.

Cresceva intanto una diceria che il Sommo Pontefice si stava accordando con Venezia e con Francesco Gonzaga, signore di Mantova. Ma la voce non durò a lungo e fu di scarso fondamento. I Veneti, invece, che attendevano l'esito della volontà di Massimiliano da cui ognuno pensava dipendesse la fine di tutta la guerra, presero a seguire le cose pigramente; al contrario, i Francesi spaventavano i loro vicini con sempre nuove astuzie e, passato l'Adda, iniziarono a frequentare il guado e a procurare qualche danno. Allora a Venezia furono nominati i provveditori generali dell'esercito Giorgio Corner ed Andrea Gritti, con Giustiniano Mauroceno provveditore della cavalleria leggera e Vincenzo Valier provveditore alle macchine belliche ed agli armamenti. Costoro, allontanatisi rapidamente dalla città, cominciarono a spingere l'esercito verso Verona, ma lasciando intanto intendere che andavano all'assedio di Mantova. Il grosso dell'esercito francese, che avrebbe dovuto presidiare questa provincia, si accampò invece nella pianura di Parma e Mantova. Lattanzio Bonghi, che era venuto a Pinzon con cinquecento fanti, fu destinato dapprima a Treviglio e poi, intorno a Pasqua, a Cremona.

Già la città nostra cominciava a rallegrarsi un poco perché una tale diversione ci prometteva qualche sollievo; ma, ahimè, quanto diversi sono i giudizi umani e vane le speranze! Ecco infatti che il 15 aprile [1509] nell'ottava di Pasqua, radunato tutto il popolo, i militari ed i nobili, di nascosto raccolto un ingente esercito contro di noi, dati i segnali e allertati i luoghi, alla prima ora del giorno passarono l'Adda. I Veneti, che non avevano disposte le guardie, non avevano mandato esploratori, non avevano custodie armate e nulla temevano e vivevano una vita oziosa ed al sicuro, vengono assaliti da tre parti.

Nella parte superiore, quella rivolta a settentrione, giovani arruolati dai luoghi che i monti della Brianza hanno numerosi e popolati, portati in numero di tremila presso Brivio contro i francesi che occupavano Lecco, Olginate e Brivio, luoghi munitissimi passando lungo l'Adda, assalgono e devastano al primo assalto il luogo di Ripa d'Adda, paese opulento, come molti riferiscono. E siccome il luogo è separato in molte frazioni dalla pianura ed ascende verso il monte, una certa parte arrampicata sopra un'altura più eminente fu conservata, mentre tutto quanto il resto fu occupato. Muovendo da qui e piegando lungo il fiume verso meridione, essi pongono a ferro e fuoco alcuni altri luoghi di minore importanza e poi ritornando ripiegano verso Caprino. Questo era il luogo più munito della valle di san Martino, dove stanno anche la residenza dei commissari ed il presidio dell'intera valle e dove confluiscono le altre comunità. Cancellati al primo arrivo alcuni casali si accende la battaglia. Quivi lo spirito dei valligiani si solleva ed essi, sebbene non aiutati dalla città cui subito erano stati mandati messi per chiedere insistentemente sollievo ed aiuto, e neppure dalle valli vicine, e senza neppur essere sufficientemente protetti da presidii per l'avarizia dei nostri magistrati, tuttavia compatterono con tanto valore e resistenza alle fatiche e sprezzo della morte ed ostinata fede, che, pur essendo per tre volte aggrediti da nemici audacissimi, numerosissimi ed armatissimi, tuttavia li respinsero, non senza uccisioni e sangue.

Più in basso, verso il fortissimo castello di Trezzo, un'altra schiera degli stessi abitanti della Brianza passò a nuoto, in rovina e danno di tutta l'Isola bergamasca (da noi si chiama Isola il territorio posto tra il Brembo, l'Adda, la valle di san Martino e la Brianza). Costoro incendiarono Suisio e Plazamenta, assalendo Castelletto ... Bonate inferiore, li oltrepassarono e distrussero alcuni altri villaggi.

Nella parte ancora più meridionale presso Cassano, calò la parte più valida dei soldati e della gioventù milanese tutta, in numero di ventimila, i quali a viva forza, presa prima dalle mani di cinque miseri una certa torre posta sulle rive dell'Adda presso Canonica, abbastanza alta da segnalare chi attraversava il fiume, andarono poi verso Treviglio. Ivi stavano anche Giustiniano Mauroceno, comandante della cavalleria leggera, Vitellozzo; Vincenzo (Naldo?) da Brisighella vi si stava avviando, trovandovisi per caso con novecento stradiotti. Dapprima mandarono avanti alcuni fanti, che simulavano di essere lì giunti con l'intento di predare; poi condussero in lungo gli stradiotti fino ad un luogo nel quale avevano disposto tranelli. Sbucando dai quali, fecero a pezzi gli incauti con grande loro strage, nonché trecento dei fanti che Vincenzo comandava. Costoro stavano portando aiuto ai caprinesi, procedendo lungo il fiume per un percorso più breve. Assaliti, virilmente si difesero e li misero in fuga per diverse strade. I quali, insieme con gli stradiotti, anche se per vie diverse, arrivarono tuttavia alle porte di Treviglio allo steso tempo, inseguiti dai Francesi. Poveretti, perché potendo, se volevano, fuggire e salvarsi la vita, riportarono invece la morte proprio dalla parte da cui speravano un aiuto.

Quegli scellerati infatti, chiuse le porte consentirono che i miseri fossero uccisi davanti ad esse. Subito ogni trevigliese si dichiarò a favore dei Francesi, cosicché fu necessario a chi era rinchiuso tra le mura post aliqualem perpessam dedere e si arresero, a condizione che fossero lasciati liberi con i cavalli, abbandonando tutti i loro beni all'arbitrio del vincitore. Accettati i quali, quegli uomini di nessuna fede imprigionarono tutti in catene nella chiesa di santa Maria. Tra essi vi era Bernardo Vito cittadino nostro, che guidando la fanteria di Vincenzo Naldo nel nostro territorio, ivi si era trasferito. Il coraggio dei trevigliesi era fino ad allora mancato, come anche l'illustrissimo dominio con un tal pessimo accadimento conobbe, perché fino dall'inizio si erano raccolti nelle proprie case e non davano alcuna speranza di difendersi. Quando il nemico giunse alle mura, manifestarono ad alta voce la loro defezione ai Francesi che la chiedevano. Si scoprì in tal modo che mediante ambasciatori essi avevano chiamato a ciò tutte le forze dei Francesi e per un testimonio certo si conobbe che Vitello, all'udire che l'esercito si avvicinava, aveva consigliato la fuga al comandante Giustiniano e gli aveva promesso un'uscita sicura prima dell'arrivo delle fanterie. Egli tuttavia, fedele alle leggi della patria e ritenendo che si sarebbero rivolte contro di lui se fosse fuggito, non accettò. Con la stessa determinazione e la stessa resa di persone i castelli e borghi di tutta la ghiara d'Adda, eccetto il solo Caravaggio, passarono ai francesi, e tra essi Brignano. Tutti i Francesi in città, balestrieri che vi erano accampati per custodirla, furono presi e spogliati, prendendo il loro capo francese nella ribellione di Treviglio (?). Tuttavia Raniero Sassetta e tutti gli altri capitani e centurioni di cavalleria o fanteria, prevedendo il pericolo imminente, si allontanarono cedendo Crema. Giacomo Secco e Taddeo Motella, che avvisati dell'inatteso evento erano colà accorsi in fretta, si rifugiarono tra le mura di Caravaggio, vi sostarono per la notte e alle prime luci dell'alba passarono l'Oglio e posero il campo presso Calcio.

Quando si conobbe a Bergamo la strage della valle di san Martino e dell'Isola, la città fu presa da grande paura, dal momento che nessun soldato mercenario era alla sua custodia e dal momento che i dieci deputati alla guerra, come morti per l'apatia, nulla avevano provveduto nè avevano approntato alcun presidio e, cosa ancor peggiore, sembravano incapaci di prepararne, di porre guardie alle porte, di prendere le armi, di assumere una decisione e, com'è la condizione dei sudditi, di agire in mancanza di ordini.

In tali condizioni, arriva un nunzio con la notizia della rovina di Treviglio , della cattura del podestà e dei capitani, dei soldati fatti a pezzi e distrutti. Egli annuncia la ribellione di tutta la Ghiara d'Adda. A quel punto, l'orrore si aggiunge alla paura e già dappertutto non i timorosi, ma il timore stesso, percorreva le piazze ed i fori, ed il più grande fomento di questo timore erano gli odi intestini, che regnavano soprattutto in città. Si cominciò a chiedere di prendere ostaggi di parte ghibellina. Ma i reggitori nostri mai vi acconsentirono per non eccitare a maggior sedizione una città che era in armi e perché i ghibellini, presagendo quanto sarebbe accaduto, trassero a sé alcuni con le preghiere ed altri con il denaro.

Il giorno seguente, cioè il 16 aprile [1509], quando già ciascuno aveva raggiunto casa per il pranzo, si diffuse, non si sa da dove, la voce che i nemici si avvicinavano e già erano alle mura ed entravano per la porta di borgo san Leonardo e che la guarnigione della piazza era fuggita. Dalla piazza stessa ciò si annuncia con la campana a martello. Me misero, quale spettacolo! A quel punto si apprese che non l'esercito francese, ma le donne di Treviglio stavano per assaltare la città atterrita; allora con grande clamore e strepito tutte le taverne furono chiuse: e tutti gli abitanti dei borghi, senza difendere le mura ma dandosi alla fuga, si dirigono alle case della città alta con incredibile corsa; e le matrone, per non parlare delle donne di grado inferiore, con i capelli sciolti ed a seno scoperto, urlanti, alcune portando i figli ancora attaccati al seno oppure traendoli per mano dietro a sé con impari passo, altre salvando ciò che di più prezioso il caso repentino offriva, senza badare alle difficoltà della ripida ascesa, si salvano fuggendo entro il breve spazio della città. Allora le porte chiuse della città esclusero le misere ed i ponti furono levati contro quella disperazione turbando quasi tutta la città. Di certo in quel giorno i bergamaschi si comportarono come se l'accampamento nemico si avvicinasse alle mura.

Molti di coloro che si erano rifugiati nelle loro case guardavano dalle finestre ciò che (essendo la città sul monte) si intuiva attraverso le porte spalancate dei sobborghi volte a meridione. E lì non si vedeva alcun esercito vicino alla città o alcun nemico che entrava per procurare la rovina nostra. Coloro che irrompono dicono con quanta voce possono di nulla tremere e vagano per i fori e le piazze quasi deserte. Quando trovano qualcuno che si aggira, inerme o armato, lo confortano a stare di buon animo. Molti si ritrovano intorno al podestà sulla piazza senza saper che fare e cosa pensare.

A quel punto gli artigiani e tutto il resto degli abitanti della città confuiscono a torme nel luogo dove si custodiscono tutte le armi per armare il popolo. Ciascuno sollecita corazze, galee, scudi ed ogni altro genere d'arma, tanta era l'avara negligenza del podestà che senza motivo la città venisse depredata; e si chiedeva e si impetrava che fino a quando fosse giunto il nucleo di cittadini armati, si dessero a ciascuno armi, come capitava. A quel punto si comandò di portare e disporre, dopo averle tratte dai luoghi dove venivano custodite e fino a quel giorno nascoste, le bombarde ed ogni altro genere di attrezzature e macchine da guerra; allora per la prima volta si fecero alcuni pochi preparativi per la difesa. Ma tanto era il timore che assediava gli animi, che a malapena chi ragionava credeva che i nemici non fossero vicini. A quel punto furono perfino portate in città le suppellettili tutte che i cittadini stessi e gli abitanti dei sobborghi avevano nei sobborghi. E lo stesso borgo di san Leonardo, che a quel tempo bastava appena a conservare ciò che gli abitanti dell'intero agro bergamasco vi facevano affluire come ad un porto, ora abbandonato dagli abitanti, prometteva ai nemici la speranza della massima spoliazione.

I Francesi invece, che tutto questo avevano conseguito non con il numero di soldati o con un esercito preparato, ma mediante la dedizione del popolo di Treviglio e della restante Ghiara d'Adda e con l'arruolamento di quasi tutta la gioventù di Milano e della Brianza, senza colpo ferire acquisirono anche qualche altro luogo meno forte dell'agro nostro; di nuovo, ma invano, tentarono di prendere Caravaggio, non senza alcuni loro rovesci; in valle di san Martino depredarono Calolzio, dopo averla presa per forza; presero la rocca di Vercurago, che era in loro favore, dopo aver stipulato un patto per il prezzo di sessanta ducati d'oro; ed infine aggredirono con ogni sforzo Caprino, capoluogo della medesima valle e presidio di tutte le valli e monti nostri. Ma il paese si oppose loro con tanto valore da vanificare i loro sforzi.

I Francesi allora, deviando da lì verso la val Sassina, vi entrarono, ed aggredirono Taleggio con tanto impeto che gli abitanti terrorizzati si diedero spontaneamente. Fu loro consegnato il castello di Pizzino, che fino ad allora era ritenuto inespugnabile e, conseguita questa insperata vittoria, già pensavano alla rovina dell'intero agro nostro.

A tale devastazione, tuttavia, si rincuorarono i bergamaschi intorpiditi: radunati tutti coloro che erano stati reclutati nella fanteria agli ordini di Lattanzio Bongi e chiamate a raccolta tutte le valli, gli animi si rivolsero all'intento di recuperare Taleggio. Quel medesimo giorno, persone arrivate per vie diverse, quando i brianzoli, informati di questa vittoria ritornavano indietro e non potevano, come speravano, vendicare gli inclusi, recuperarono il castello di Pizzino e tutta Taleggio dalle mani degli avversari, riportando una consistente preda. E ciò accadde il giorno stesso in cui fu fatta la strage a Treviglio [15 aprile 1509].

Francesco Gonzaga, marchese di Mantova, che scorreva l'agro cremonese, dopo aver saccheggiato alcuni paesi, occupò con la forza Casal Buttano, riportando a Mantova la maggior parte del bottino e dei prigionieri. I provveditori generali, colpiti dall'inattesa notizia della rovina, stavano al campo con il capitano Bartolomeo Alviano nelle campagne veronesi presso Isola della Scala. Decisero che uno di loro, Andrea Gritti, passase in Lombardia dove presso Goito il capitano generale Nicolò Orsini e gli altri capi militari erano al presidio. Egli andò a Brescia e comandò che fosse portata da noi una parte non trascurabile delle sue fanterie ed una gran quantità di armi e di polvere da cannone. Da lì, chiamato Dionisio Naldi, originario del paese di Brisighella nella valle dell'Aimone, con duemila fanti si diresse verso Goito. Ma, avendo appreso che era scoppiata una rivolta a Cremona, ed avendo udito che Giovan Giacomo Triulzio, capitano dell'esercito francese, stava con alcuni armati a Cava nelle campagne di Lodi, per evitare un tale pericolo si portò a Manerbio, poi a Pontevico ed infine, lasciato l'esercito, a Cremona. Ivi si era calmata la situazione; lasciatovi per il momento Dionisio Naldi con i suoi fanti, ritornò all'esercito, portando con sé Bernardino Montone e Alvise Avogadri con trecento militari armati.

Intanto la città nostra, che di giorno in giorno soffriva diversi danni ed altri ancora maggiori ne vedeva arrivare, mandò Paolo Zanchi, Pietro Assonica ed Antonio Balbo ad Andrea Gritti per chiedere un soccorso di fanti. Lo raggiunsero presso Manerbio e gli raccontarono lo stato della città e l'infingarda ignoranza dei rettori e le discordie civili; gli chiesero anche presidi militari a custodia del loro territorio e qualcuno che governasse la città, saggio ed illustre per la fama di precedenti azioni, così da calmare gli animi eccitati dall'odio e da predisporre quanto si rendesse necessario alla difesa e salvezza della città. Pressato dall'imminente pericolo di Cremona, egli rimproverò la nostra paura e promise che avrebbe al tutto e presto soddisfatto le richieste con trecento fanti da inviare al più presto, alcuni a presidio dei castelli, altri delle porte (si erano infatti lamentati che queste fossero incustodite), altri ancora dell'intera città. Ma i mille cinquecento fanti che erano stati reclutati all'ordine militare sotto Lattanzio Bongi egli comandò di inviare a Cremona, sotto il loro comandante che colà operava. E quando gli fu risposto che ciò risultava di fatto difficilissimo e pericolosissimo per il nostro territorio, egli tuttavia persistette nella sua volontà. Quando però arrivò a Cremona cambiò opinione e ci mandò Lattanzio con i cinquecento che egli comandava, trecento dei quali rimasero alla custodia di Pizzighettone.

L'altro provveditore veneto, Giorgio Corner, al fine di salvare l'esercito veneto, pose presidi a Ponte Molino, un paese dell'agro mantovano. Poi impaludò la restante regione meridionale del veronese, da Valeggio a Lignago, sbarrando le acque del Mincio e rendendola così non praticabile da uomini armati. Fatto questo, in breve tempo, si avvicinò ad Andrea Gritti presso Soncino nella campagna cremonese, alla guida di un grosso e munitissimo esercito. Si trattava infatti di un'armata numerosissima, che ammontava ad oltre quarantacinque mila uomini armati ed andava aumentando di ora in ora, dal momento che tutti i presidi posti alle città, accampamenti e castelli di ogni genere erano stati tutti richiamati al campo.

Non per questo i Francesi si erano spaventati, anzi battevano incessantemente l'Isola bergamasca, soprattutto alcuni piccoli villaggi Iniurii, perché molti si erano più ostinatamente rifiutati di obbedir loro; infatti, per non essere spogliati, quei luoghi, alla conclusione dell'alleanza, avevano loro promesso donazioni (?). Pertanto, congiunto l'Adda con un ponte presso il castello milanese di Trezzo, che avevano già con grande loro iattura per ben quattro volte tentato con ogni forza di invadere, vi posero a guardia diecimila armati. A custodia del luogo vi erano un poco più di abitanti del paese che, essendo rivieraschi, erano del tutto invisi a quelli che stavano di là dell'Adda.. Essi avevano difeso molto strenuamente tutti i loro averi e proteggevano la loro vita e le loro case, sfidati di continuo alla lotta, e si comportavano con grande coraggio.

Quando tuttavia le mura scalzate dagli ordigni bellici diedero adito a molti nemici, si verificò una grandissima strage. Fu pubblicamente annunciato dai banditori che non si sarebbero ascoltate le suppliche, né si sarebbero fatti prigionieri e, orrendo a dirsi, si sarebbe infierito su donne e bambini e, ciò che forse altrove non accadde, a tal punto si infiammò la rabbia di alcuni trevigliesi, che essi presero e smembrarono alcuni bambini che si erano nascosti in una vecchia cisterna, senza badare al sesso o all'età. Nè si astennero dal violare i patti sottoscritti: infatti, gli abitanti di Calusco, temendo di essere sterminati come gli altri, si comprerono la salvezza con cento monete d'oro. Avendo poi inteso che nel castello del paese erano nascoste molte some di frumento e carri di vino, presero a distruggere ogni cosa ed a trasferirla di là dall'Adda; e ciò che non fu portato per difetto di chi la trasportava o per la nausea dell'eccessiva abbondanza, tutto questo, aperte le botti fu buttato o incendiato, dopo averne dato una parte ai più poveri.

Provata da tutte queste vicissitudini, la cittadinanza [di Bergamo] fu costretta a chiedere ascolto al dominio con lettere private, impetrando aiuto contro il torpore letargico dei nostri governanti. Ciò non fu sufficiente a fornire un quadro adeguato della nostra evidente paura, ma spinse tuttavia il provveditore eletto Marino Zorzi, che intendeva rinunciare alla carica che il Consiglio dei Pregadi gli aveva demandato, ad accettarla. Venendo da noi a tappe forzate, egli fu accolto dai bergamaschi con tanta alacrità di spirito e tali domostrazioni di entusiasmo, che non si ricordano a memoria d'uomo fino ad allora tali segni di letizia per l'arrivo di alcuno.

Nell'Emilia intanto, Giulio II, al fine di scuotere da ogni parte il dominio veneto, aveva mosso l'armi il detto giorno 15 aprile [1509] e posto il campo presso Solarolo. Lì si consumò manifestamente il massimo tradimento con l'aiuto di un suo complice. Infatti Costantino Epirota che presso Forlì stava a capo delle milizie del Pontefice, convinse molti epiroti e metumnesi (che l'illustrissimo dominio in premio della fedeltà sia della città che delle cose perdute a Romandola (?), Ravenna, Rimini, Faenza e Cervia o per difesa dei porti o dei castelli aveva reclutato) in quel giorno ad abbandonare il Senato veneto ed a consegnare nella potestà del romano Pontefice sé stessi e le suddette città. E, al fine di facilitare la cosa, si era convenuto che quando l'esercito pontificio fosse giunto a Rimini il guardiano avrebbe messo a fuoco la porta che conduceva alle stalle del presidio, cosicché il popolo che sarebbe accorso per spegnere l'incendio non fosse di impedimento alcuno all'esercito che entrava. Furono presi tutti i complici della congiura e furono inflitte loro le pene che meritavano. Tra di essi era Francesco Luna, che con cento balestrieri era stato posto alla custodia di Faenza.

Alfonso d'Este, marchese di Ferrara, era stato proclamato capitano delle truppe pontificie e Francesco, marchese di Mantova, aveva fatto in passato alcune incursioni nell'agro bresciano presso Asola e Gambara. Al fine che le loro truppe unite con quelle dei Francesi non servissero a rafforzare l'esercito, i Bentivoglio, che l'anno prima erano stati espulsi da Bologna dallo stesso Pontefice, furono mandati dai Veneti a sollevare una sedizione in quella città. Ed alcuni nobili delle famiglie Orsini e Colonna, con le loro truppe, furono destinati a ciò per denaro (?), portando aiuto a Giovan Paolo Manfrone che, per incarico del Senato veneto difendeva tutte le città della Romagna ad esso suddite.

Angelo Trevisan fu eletto capitano generale dell'armata navale affinché, navigando lungo tutte le sponde del mare di Romagna e del Piceno, potesse conservare i castelli adiacenti già acquisiti ed impadronirsi di quelli in mano nemica. Costui fu favorito alla sorte: quando navigava davanti a Fano, fu accolto con un cattivo saluto da alcune bombarde e prese la città in potere dei Veneti. Giovan Paolo Manfrone ebbe invece una sorte un poco diversa. Egli udì infatti che a Brisighella, capoluogo della valle dell'Aimone, era scoppiata una sedizione tra cittadini di fazioni diverse che si opponevano gli uni agli altri. Accorse quindi, come era uso fare per porre pace con la sua autorità e potenza in quel luogo (egli aveva infatto gran fama in Romagna). Ma quando arrivò, accompagnato da alcuni pochi, furono levati i ponti e la fazione che aveva prevalso chiamò le truppe pontificie e consegnò loro la città e, quel che più importa, lo stesso Giovan Paolo.

In Lombardia intanto si era molto accresciuto l'esercito, che eccedeva ormai il numero di sessanta mila uomini. I comandanti veneti solventes si radunarono dapprima a Mozzanica e poi a Ripalta Secca. Quasi tutti i luoghi della Ghiara d'Adda che recentemente si erano ribellati furono ricondotti all'ubbidienza dei provveditori generali [6 maggio 1509]. Tuttavia a Ripalta, che aveva riconosciuto il suo errore più tardi di quanto sarebbe stato opportuno, ed anzi si era separata dopo oltre ottantacinque anni dalla sua prima acquisizione; ed a Brignano, che era stata riservata in antico feudo ai figli di Francesco Bernardino Visconti; le case viscontee furono lasciate in preda ai soldati, dal momento che i brignanesi, su ordine dei loro signori, erano stati la causa della passata defezione.

Il giorno seguente [7 maggio 1509] Bartolomeo signore di Alviano e Dionisio Naldi posero l'assedio a Treviglio, che era stato demandato alle loro speciali attenzioni. Infatti, Bartolomeo, per una sua certa connaturata impazienza, prediligeva sempre le prime incursioni perché era governatore dell'esercito; inoltre, per una miglior causa, aveva proposto uno speciale compito a Dionisio, perché il di lui cugino Vincenzo nella recente ribellione di Treviglio era stato preso prigioniero ed aveva perduto una numerosa ed eletta schiera di fanti. Costoro adunque, assalita Treviglio con le macchine belliche, la circondano da ogni parte e ne squassano le mura. Ma i Francesi, pensando ad un futuro assedio, avevano posto al presidio mille e cinquecento guasconi sceltissimi, sessanta uomini d'arme e con essi ottanta soldati di cavalleria leggera. Costoro confidavano di difendere le mura e di resistere ai nemici, mentre i trevigliesi di animo costante, più per disperazione che per fede (sapevano infatti, conoscendo il loro crimine, di essere indegni del perdono) non allontanandosi promettevano di sopportare coraggiosamente ogni evento. Per non essere traditi dalla insufficienza delle mura, che erano di fatto deboli, si erano rafforzati tutto intorno con incredibile celerità mediante un fossato interno. Quando alle prime luci del giorno [8 maggio 1509] le mura erano state già in parte abbattute, sessanta fanti che erano entrati sperando di ottenere il premio del primo ingresso furono trucidati al margine interno di questo fossato e tennero a bada gli inseguitori ignari del presidio (?).

L'esercito francese stava all'armi presso Cassano al di là dell'Adda. I trevigliesi continuavano ad implorare aiuto per gli incendi che, come succede, si levavano da ogni parte. Ma, pur fingendo di portare ad essi aiuto, tuttavia l'esercito non si mosse, sapendo di essere impari rispetto all'esercito veneto, e non osò mai attraversare l'Adda, pur facendo piccole incursioni con soldati di cavalleria leggera che erano stati mandati, incursioni che erano state respinte da militari della medesima specialità. L'aiuto promesso si poteva dare solo ad incendi spenti, ma giunse la notte ad interrompere la battaglia. La quale ricominciò più forte al sorgere del sole, per la grande vergogna che provava l'esercito di non aver conquistato Treviglio al primo assalto.

Quando la battaglia si riaccese ed i nemici cominciarono a premere più forte ci si accorse che i rinforzi erano lontani. Allora gli animi più coraggiosi cominciarono a tremare e quelli che appena prima combattevano per la vittoria cominciarono ora a pensare alla salvezza ed erano timorosi e solleciti per la loro vita. Fino al punto che gli assedianti e gli assediati cominciarono a colloquiare e si trovarono d'accordo per risparmiare le vite dei soldati e la libertà dei comandanti, in cambio di coloro che erano stati presi prigionieri nella ribellione precedente. Furono prese prigioniere le persone dei trevigliesi e lasciate le loro cose al libero arbitrio dei provveditori. Per ordine dei quali, pubblicamente mediante un banditore, fu abbandonato al saccheggio da parte di Bartolomeo Alviano e Dionisio Naldi il paese più ricco e probabilmente il primo di Lombardia per numero di persone e di industrie, dopo aver emanato un editto che ogni ingiuria alle donne sarebbe stata considerata delitto capitale.

Essi, rinchiusi nelle chiese tutti gli uomini e le donne, ogni cosa saccheggiarono qua e là e se trovarono qualcun altro, soldato o donna forestiera, che si ingrassava (?) con loro, non contro di lui, ma piuttosto contro il nemico infierirono. Ne seguì l'uccisione di molti, poiché alcuni offendevano, altri si difendevano; tutto quanto era di qualche valore fu rapinato, gli uomini, quant'essi erano, furono dati prigionieri ai soldati; alla fine le vergini consacrate e quasi tutte le donne (tranne alcune poche che furono prese prigioniere in luogo dei mariti fuggiti) furono portate a Caravaggio; si appiccò il fuoco e tutto quanto rimase fu distrutto dall'incendio. Tale fu la specie della miseranda pena che destò pietà a coloro stessi che la ordinarono. Ma la strage si ritorse in grandissimo svantaggio per l'esercito, perché ogni soldato che si dava al saccheggio abbandonò i suoi ranghi, rapinando o vendendo quanto aveva rubato nei villaggi, paesi e città adiacenti. E i beni presi furono tali e tanti che sarebbero bastati ad una città ricchissima.

Tutto questo offrì l'occasione ai Francesi di passare l'Adda [9 maggio 1509] e di fortificare un presidio sulla riva opposta, dove riparare al sicuro. E questo non soltanto perché quelli che avevano predato di più ed avevano accumulato un non mediocre bottino si erano allontanati come transfughi non verso i loro comandanti ma verso i loro luoghi d'origine, ma soprattutto perché scoppiò una grave rivolta tra gli stessi militari. Infatti, due stranieri, abbandonati gli altri, ed alcuni nuovi militari si posero a capo delle proprie truppe e dei più esperti ed il giorno stesso in cui i Francesi passarono l'Adda per rafforzare il loro presidio, al banditore che ordinava ai ranghi militari di opporsi al nemico fu risposto che ciò della provincia si doveva dare a coloro cui si concedevano anche i premi (?).

Alcuni dissero che Bartolomeo Alviano, quando il capitano dell'esercito Nicolò Orsini consigliava di marciare contro il nemico ed assalirlo mentre era diviso - e ciò si poteva fare più facilmente dal momento che li separava il fiume - rispondesse che era meglio concedere il libero transito a tutto l'esercito, che egli era certo di vincere, affinché quella parte dell'esercito che tuttora stava sulla riva del fiume dove retrocedendo confici videret coloro che erano passati, avrebbe conservato il possesso di Milano e delle altre città del ducato. Altri invece sostengono che questa opinione di Bartolomeo fosse motivata dal timore che la vittoria, che era quasi certa se quanto l'Orsini consigliava fosse stato eseguito, sarebbe stata attribuita agli uomini del Pitiliano che stavano allora all'avanguardia dell'esercito. Si seppe poi che quando nell'esercito francese i capitani si consultarono se si dovesse attraversare il fiume risposero che non bisognava affatto farlo. Il re, che era arrivato in quel giorno al campo, sdegnato che Treviglio fosse stato distrutta sotto gli occhi del suo esercito, comandò che, scordandosi di qualsiasi pericolo, si accingessero ad attraversare. Egli stesso e Giovan Giacomo Triulzioo passarono tra i primi per rincuorare i più pavidi e per meglio opporsi al nemico che avesse fatto resistenza. Quando videro che sull'altra riva del fiume nulla accadeva, già ripromettendosi una vittoria sicura, vollero che i soldati stessero di miglior animo e rimproverarono l'ignavia dei nemici che avevano trascurato l'occasione di impegnarsi come se non la conoscessero e che spogliando Treviglio avevano perduto tre giorni, durante i quali essi stessi avevano passato l'Adda. In tal modo avevano reso estremamente facile costringere all'obbedienza tutto l'agro milanese e porre la stessa Milano a rischio della sua salvezza.

In realtà, non erano ancora giunte truppe che fossero pari alle loro forze e grandissima era la penuria di vettovaglie. Tanto che, il giorno stesso in cui il re, lasciata Cassano, si portò a Milano, fu necessario portare al campo cibarie raccolte a Milano come offerte e dispiacque al re di non aver fatto un transito più audace, perché era in difficoltà per la fame. Egli infatti, proprio per questa ragione, aveva portato ogni attrezzatura bellica nell'agro piacentino e parmense, perché, varcato il Po su un ponte, potesse poi irrompere sul cremonese; anche se poi, consigliato dalla cattura di Treviglio, aveva cambiato parere. Ma gli odi dei capitani veneti accelerarono quella vittoria che sarebbe certo stata più difficile se avessero condotto le operazioni con un atteggiamento più pacato. A tutto questo aggiunse l'incredibile avarizia dei Veneti perché vi furono al campo molti soldati che, nell'attesa di paghe loro dovute da molti mesi, avevano intanto a malapena di che sfamarsi.

Raggiante per il felice presagio, la notte seguente il re pose il campo lungo il fiume e, senza dare alcun segnale, comandò di muovere e di attaccare e saccheggiare Rivolta. Ciò accadde prima che i capitani nemici sapessero dove aveva ripiegato l'esercito regio. E tanta era la discordia che regnava tra i capitani e l'evarizia dei provveditori, che, dissentendo i primi per l'odio ed incapaci di decidere alcunché e pur di non sborsare denaro gli altri, non predisposero scolte, esploratori ed altri simili preparativi, per cui restò facilissimo al re, che era molto abile nelle cose militari e circondato da molti espertissimi capitani, intraprendere ogni cosa, per quanto ardua e difficile, e porre a fuoco Rivolta.

Poiché sembrava che l'esercito regio piegasse sul cremonese verso il luogo di Pandino da dove poteva aprirsi un varco sia verso il cremonese che verso il cremasco, i Veneti mossero il campo avanzando di pari passo. Essi procedevano su un'altura (infatti il luogo in cui i Veneti si erano accampati, chiamato volgarmente Bianca Nuda, era più elevato e offriva ai nemici che salivano l'aspetto di un modesto colle) in modo che questo vallo naturale impedisse ai nemici che avessero appena passato l'Adda di aggredirli al medesimo assalto. Alcuni credono che i capitani francesi avessero diretto l'esercito altrove per poter disturbare le truppe venete da un luogo molto munito, se non con la forza, almeno con lo stratagemma. Il re aveva anche comandato ad una squadra di milizie leggere di fungere da retroguardia all'esercito e seguirlo un poco distaccati, sia per impedire che i suoi fossero assaliti da dietro, sia per intercettare quei nemici che vedessero procedere fuori dai ranghi e per esplorare in quale direzione il nemico procedesse.

Ignaro di questa strategia, Nicolò Orsini lasciando Bianca Nuda temeva di cedere ai nemici un luogo molto sicuro. Ogni volta che vedeva retrocedere quella squadra ordinava di fermare le bandiere. In tal modo, ripetendosi spesso quest'ordine ed obbedendo i soldati sempre più lentamente quanto più essi erano distanti, l'allineamento si ruppe. Infatti, quelli che erano sul fronte dello schieramento avanzavano tanto che non solo gli ultimi, ma quelli stessi che stavano al centro fuggirono per mettersi al sicuro. E quando alcuni dell'esercito veneto si sviarono, sia per accorciare la strada, come alcuni ritennero, sia, come parse ai più, per saccheggiare - vi era infatti un edificio rustico là dove erano discesi - ecco che alcuni fanti francesi, allettati dalla cupidigia della medesima preda, abbandonati i ranghi, vi si diressero. E combattendo colà gli uni contro gli altri, successe un parapiglia da ambedue le parti ed ai capitani dei due eserciti parve che si fosse ingaggiata la battaglia senza alcun ordine da parte loro aliquid ominantibus.

Dapprima cominciarono ad irrompere i Francesi, ai quali toccò la parte più difficile. La rissa si era infatti accesa nei campi e nelle vigne ed essi dovevano guadare un canale che scorreva dall'Adda verso il cremonese. La prima schiera (i Francesi marciano sempre con l'esercito diviso in tre parti, l'avanguardia, la battaglia e la retroguardia) era comandata da Carlo d'Amboise, regio luogotenente di là dai monti, e da Giovan Giacomo Triulzio, ambedue regi marescialli, e da Giacomo de Cabannes, signore de la Palisse, nonché da altri molti capitani francesi che erano, com'è nella loro natura, impazienti dell'attesa. Costoro, senza attendere alcun altro segnale, assalirono gli avversari, dopo aver informato il re mediante un araldo.

Avvenne che sulla fronte dell'esercito veneto stava Bartolomeo signore di Alviano che, altrettanto desideroso di venire alle mani per una certa sua sicumera, non si sottrasse alla pugna. Ed essendo di animo generoso, al primo assalto pose le migliori fondamenta per la vittoria perché la prima schiera dell'esercito francese fu costretta a ritirarsi, come il re aveva temuto. Ma poi, sia che pesasse sui Veneti il giudizio divino, come alla fine avrebbero conosciuto, sia perché è scritto che tutti i regni si alternino tra loro; mentre quel che accadeva veniva di momento in momento riferito al re che soffriva delle avversità che si succedevano; presso i Veneti, al contrario, tutto rimaneva nell'incertezza. E questo sia perché la prima schiera procedeva molto più avanti delle altre, sia perché Bartolomeo quando aveva dato inizio all'inconsulta battaglia non aveva informato il generale ed i provveditori di aver attaccato. Costoro avevano appreso da notizie incerte che la battaglia era iniziata e oscillavano tra paura e speranza senza riuscire a scorgere alcunché. In tal modo, mentre i Veneti non erano aiutati, il re era presente a tutto ciò che accadeva e animava i suoi inviando loro altri soldati. Accadde così che le milizie dell'Alviano furono sbaragliate e lo stesso Bartolomeo fu fatto prigioniero mentre combatteva [Battaglia di Vailate o Agnadello, 14 maggio 1509 ]. I Veneti furono posti in ignomignosa fuga e quando tutti furono vinti e fugati si apprese che molti non avevano neppure cominciato a combattere, anzi erano così lontani da non aver udito neppure il fragore delle armi.

Solo gli Alvianesi combatterono, e Mariano Orsini, nipote del conte di Pitiliano per parte del fratello, che morì per un colpo del nemico, ed altri che non ammontarono alla quarta parte dell'esercito veneto. Tra essi furono esemplari i fanti umbri, piceni e tusci che avevano servito sotto Pietro signore di Monte Saccoccio spoletano e Citolo perugino, e molti altri. Tra essi i primi due perirono, mentre Citolo, dopo essere stato più volte ferito, riuscì a salvarsi semivivo soltanto per caso. Morì anche Pietro de Boni da Brescia con una non trascurabile squadra di bresciani e molta scelta gioventù bergamasca che militava sotto Lattanzio Bongi, mentre difendeva invano le artiglierie e altre cinquanta macchine da guerra di grandi dimensioni che egli comandava, e che andarono perdute insieme con le macchine. In quello scontro il valore dei fanti veneti fu lodato. Essi, o perché dotati di coraggio tanto da scegliere di morire combattendo piuttosto che salvarsi fuggendo, oppure anche perché non poterono evitare oltre l'assalto della cavalleria che li attaccava, piuttosto che la morte che dovevano per necessità accettare, con sprezzo della paura virum fortem et intrepidum egit diutius. E, ciò che raramente altrove si udì, quando per la terza volta furono dispersi da uomini armati che facevano impeto contro di loro con i cavalli, sempre tuttavia ricostituirono i ranghi. Fino a quando contro di loro, spinti tra le macchine da guerra ed i proiettili si rinnovò l'assalto, infierendo i vincitori e votati alla vittoria con l'innata insolenza dei Francesi, e resistendo i vinti con una certa qual disperazione della vita e segnalandosi per non cadere invendicati, si produsse una grandissima strage.

Tutti caddero come un sol uomo e, così come fu riconosciuto il valore della fanteria, altrettanto fu biasimata l'ignavia degli uomini d'arme. Costoro, mentre ancora si combatteva ad armi pari ed ancora non era perduta la speranza di una probabile vittoria, fuggendo un nemico non ancora in vista, si allontanarono quanto più poterono veloci, gettando le lance, gli scudi, gli elmi e tutte le altre armature da uomo e da cavallo e si diedero alla fuga così precipitosamente che, essendo la battaglia cominciata prima dell'ora diciannovesima, alcuni arrivarono prima del tramonto a Brescia, distante più di trenta miglia. Tanta era la paura che aveva invaso alcuni, che io udii Calone, che era fuggito, giurare ed attestare di non aver attraversato il fiume Oglio, posto tra il luogo della battaglia e Brescia, per il terrore che lo aveva fatto uscire di mente.

Si persero in quella battaglia più o meno quindicimila uomini; tra i Veneti ne caddero al massimo quaranta; pochi i Francesi fatti prigionieri e morti, si crede fino a cento soldati. Nessuno dei fuggitivi si fermò fino a quando giunse a Crema, Cremona o Brescia. Per quanto sia strano, dal momento che Bergamo è meno lontana delle altre città, nessuno andò verso Bergamo e questo si deve o alla fortuna di quella città oppure al fatto che i militari veneti che avevano già superato Bergamo si disfecero alle spalle; perché se vi si fossero recati la via dei Francesi sarebbe stata loro più vicina.

Alcuni dissero che l'avarizia dei comandanti offrì il pretesto ai soldati veneti per darsi alla fuga: costoro infatti, defraudati degli stipendi loro dovuti, erano stati condotti ad un tale stato di indigenza e povertà da dover mendicare il cibo nei paesi. E' inutile disputare se un esercito potentissimo ed in ottime condizioni fosse stato vinto, posto in fuga ed annientato per la discordia dei capitani, la temerità dell'Alviano o l'ignavia della cavalleria, tanto da ritenere che sarebbe stato inutile porvi riparo, ciò che sarebbe stato molto facile da conseguire se la cavalleria si fosse conservata.

Casualmente, in quel giorno [14 maggio 1509] io mi stavo recando a Brescia perché avevo intenzione di andare a Venezia. Sospettando tuttavia che, sconfitto l'esercito, la mia patria avrebbe potuto risolvesi a qualcosa di peggio di quano avveniva, poiché sapevo che gli animi erano scoraggiati ed i capi indicibilmente ignavi e che la speranza rinata con l'arrivo di Marin Zorzi si era affievolita, ritenni più opportuno cercare di capire da lontano quanto era accaduto, piuttosto che essere presente e condividere ciò da cui sarebbe stato poco sicuro dissentire. Avendo ciò deciso, continuai il viaggio intrapreso.

Dopo l'alba del mattino seguente [15 maggio 1509] si potevano scorgere sparsi intorno a Brescia ingenti resti dell'esercito, talché, se non avessero avuto scritto in volto l'orrore, si sarebbe potuto credere che il campo avesse cambiato collocazione, e non che l'esercito fosse stato vinto e posto in fuga; si agginga anche che tutte le salmerie che procedevano per strade diverse si erano portate a salvamento. Si radunò un consiglio dei capi e si decise di ritenere chiunque fosse stato reclutato perché non si allontanasse; si posero guardie per intercettare i fuggitivi. Quando questo si seppe, molti fuggirono travestendosi, abbandonando le armi e lasciando i cavalli, per ingannare le custodie. Non vi era alcuno che non fosse terrorizzato al solo nominare i Francesi. Poiché si sapeva che la città nostra non era custodita, vi fu inviato un capitano bresciano con cento fanti. Si decise anche di far entrare l'esercito a Brescia, cosa che poi non avvenne per le resistenze dei cittadini oppure per il veto dei comandanti.

Fu divulgato anche che molti tra i maggiorenti di Brescia avevano in precedenza cospirato con i Francesi, il che talvolta i Gambara pubblicamente dichiararono. Tra essi vi era Giovan Francesco, che comandava una centuria di soldati veneti, con il quale si credette che anche altri capi militari fossero d'accordo. E mentre in quel giorno i Francesi lavoravano a spogliare e seppellire i cadaveri, tutti i paesi della Ghiara d'Adda, eccetto soltanto Caravaggio, si consegnarono ai Francesi. Ivi, dopo due giorni di assedio per i continui colpi di artiglierie chiamate cannoni una torre rimase squarciata e si rese necessaria la resa.

Quando tutto questo fu annunciato a Bergamo, una parte degli abitanti non tardò ad esultare ed a mostrare quel coraggio che fino ad allora era mancato, con la petulanza di un incesso più sicuro e di un più lieto volto; tutti gli altri invece, mesti, dolenti e con animo dimesso testimoniavano il loro sentimento e paventavano un'imminente rovina. E siccome sapevano di essere incapaci di sottrarsi al barbarico furore, molti si allontanarono, pensando alla loro salvezza ed alla loro fede; tra essi Davide Brembati, Giorgio Benaglio, Antonio Lulmo I.D., Marco Antonio Grumelli e Galeaz de Vertua con le loro mogli andarono a Lodrone; Marco Antonio figlio di Andrea del Passo, Giacomo Filippo Mozzi, Pietro Benaglio e Leonardo Vertova andarono a Verona; Pietro Andrea Tasso e Aurelio detto Carlino con una numerosissimo gruppo di donne e bambini, tra le quali anche mia moglie con cinque figlioletti che seguì il marito, andarono a Venezia; altri andarono altrove, come la sorte di ciascuno li guidava.

Essendo la città nostra in tumulto, Marin Zorzi e gli altri negligenti magistrati, sapendo che i cittadini della fazione guelfa e ghibellina erano in armi perché per odio reciproco non esitavano a dividersi tra loro, al fine di dare una volta tanto un qualche aiuto alla pubblica utilità, si adoperarono a che Soccino Secco, il quale aveva gravissime inimicizie con Francesco Albani - erano infatti di fazioni opposte - si riconciliassero; e Ludovico Suardo, genero del medesimo Soccino, con Leonardo Comenduno. Ciò fu fatto, per cattiva sorte della nostra città, mediante i buoni uffici di Aurelio Solcia, come si credette, il quale, pur essendo guelfo ed affine di Francesco Albani, seguiva tuttavia la parte ghibellina. Lo stesso Soccino però, che ardeva di un odio detestabile contro i Veneti fomentato soprattutto dai Suardi, e che era nato Visconti per parte di madre, mediante messaggeri segreti riferiva a Milano tutto quanto accadeva nella città nostra. Egli era capo e guida della fazione ghibellina e tutto si faceva secondo il suo volere. Quando Soccino e Francesco, che era tra i guelfi, si accordarono a non sprezzare l'autorità, rimase facilissimo tirare quest'ultimo dalla sua parte: egli aveva infatti una moglie milanese afflitta dalla natura da un nome veneto la quale, prigioniera con il marito a Venezia, difendeva la causa del capo (?); egli era anche in odio ai Veneti per la sua grande ricchezza (?). Il discorso di Soccino era che non si dovesse opporre resistenza ad un nemico potentissimo ed invittissimo che stava arrivando, ma, consegnandosi, conservare ed i raccolti che ormai già maturavano nei campi ed i beni e le mogli e sé stessi con i pegni amati (?). Giravano intanto voci che il re francese muoveva il campo e stava andando a Brescia, quand'ecco che Antonio Maria marchese di Pallavicino, il quale garantiva la certissima resa di Bergamo su informazioni di Soccino, chiede ai cittadini mediante un nunzio (che essi chiamano araldo) che Bergamo gli si consegni, facendo molte promesse qualora ubbidisca, ma minacciando, in caso contrario, devastazioni, uccisioni, incendi ed ancor peggio.

Ahimè, quale era il volto della città atterrita, senza alcuna risoluzione, priva di ogni aiuto, che aveva mutato in disperazione ogni speranza! Ecco che, per ordine dei magistrati, gli anziani vengono costretti nel luogo dei senatori, ammettendo nel consiglio tutti coloro che volevano partecipare. Ivi il detto Marin Zorzi ricorda le fatiche e le calamità sopportate dai nostri avi contro Filippo duca di Milano quando avevano difeso ai Veneti la città e conservato la fede promessa, nonché i benefici che ad essi aveva apportato il dominio veneto, biasimando la superbissima dominazione dei Francesi, la libidine, la lussuria ed infine l'odio barbarico contro gli italiani; poi li esorta a non degenerare, a ricordare di aver fino ad allora onorato molto lodevolmente il nome di fedelissimi e che tutte le altre città e castelli certamente ne avrebbero seguito l'esempio; non era importante se la città era custodita da un presidio debole rispetto ad altre, perché il Senato veneto intendeva in ogni modo mantenere ed accrescere i presidi e tra essi vi era certamente quello di Bergamo. Invece, dovevano avere davanti agli occhi i loro padri i quali, dopo un assedio di due anni, dopo la confisca dei beni, dopo una sentenza di ribellione pronunciata in res, dopo una fame a malapena tollerabile e dopo tante e tanto grandi fatiche sofferte, avevano ricusato la pace e la libertà loro offerte dal nemico, sebbene fossero in minor numero e più deboli; si ricordassero i bergamaschi di essere stati generati da loro e, qualora decidessero di non resistere, si vergognassero almeno di darsi spontaneamente; attendessero invece di conoscere dove l'esercito del re si dirigeva e, anche se non volevano mantenersi fedeli, prendessero almeno l'occasione di non apparire infedeli. Infatti, nell'attendere qualche tempo non vi era alcun pericolo che non si potesse affrontare per un regime benemerito; intanto, sarebbero arrivati aiuti sufficienti a difendere la città ed a respingere il nemico nel modo che i bergamaschi avrebbero voluto; ciò si doveva soprattutto fare perché non sembrasse che i rinforzi richiesti per mezzo di Galeazzo Colombi I.D., inviato a Brescia il giorno prima per invocare aiuto presso i provveditori, fossero stati richiesti per gioco.

Alle parole aggiunse lacrime vere e molti che furono testimoni del suo dolore lo seguirono. Egli aveva appena terminato che Lavazolo Colombi, che sotto Giovan Giacomo Triulzio a lungo era stato al soldo del re francese, salì alla tribuna e rese pubblicamente noto alla città che se voleva veramente fare il suo interesse doveva necessariamente arrendersi subito; egli, che conosceva i modi dei francesi, sapeva per informazione certa che se il campo si fosse mosso contro Bergamo, essi avrebbero poi rifiutato la dedizione ai vinti, secondo le cindizioni che il vincitore avrebbe voluto dare.

Al suo discorso aggiungevano gli accenti viperini, gli atteggiamenti del corpo ed alcuni incisi di tanto in tanto che spingevano con certi taciti accenni gli animi vacillanti ora dell'uno, ora dell'altro. Lo aiutò anche Aurelio Solcia che alla fine consigliò di scuotere il giogo di comandanti superbi e di lanciarsi verso la libertà, con alcune parole asciutte che gli si confacevano. Gerolamo Borella I.D., uomo rude e scomposto, ma peraltro buono e presso i nostri di grande autorità che savium e la scienza legale e l'esperienza di diverse cose aveva acquisito, circonfuso dal timore e chiamando a testimonio la fede pubblica, consigliò di resistere se vi erano le forze; egli tuttavia preferiva passare ai francesi con i suoi beni intatti e meritarsi la grazia di un re potentissimo e vincitore, piuttosto che resistere temerariamente e, dopo saccheggi e stragi, patire un giogo iniquo che si sarebbe potuto facilmente evitare.

Quasi tutte le voci degli altri lo seguirono ed egli fu lodato in primo luogo dai sediziosi e congiurati come ottimo cittadino e padre della patria. Siccome vedevano che l'assemblea inclinava verso il loro partito, si alzarono e si allontanarono, per evitare che fosse dato luogo a chi era di opinione opposta. Ma tanto fu il timore che invase i buoni che in gran numero erano presenti, che nessuno ardì pronunciare parole adatte, né tanto meno contraddire.

Radunatisi poi nella chiesa di santa Maria, [Soccino] comandò di far venire gli altri i quali, o allettati dalla speranza o costretti dalla paura, si adunarono in gran numero, cosicché sarebbe stato difficile contare i loro voti. In piedi davanti all'altare maggiore, Soccino chiese al popolo se intendessero eleggere tra tutti alcuni presso i quali fosse il potere; e, consentendo il popolo, cominciò a voce alta a chiamare ora l'uno ora l'altro, chiedendo se lo reputassero idoneo. Creati quindi in tal modo gli anziani, per farli partecipi delle cose più segrete entrarono nella sagrestia. Ivi Paolo Zanchi, dottore in legge, ricordando quali e quanti danni avevano portato alla città nostra gli odi intestini degli abitanti, li esortò uno per uno a dimenticarsi del passato e a costituire un solo corpo sotto un solo re. Quando il discorso, come sempre facondo, fu finito, egli aprì il messale in quella parte che porta scolpita l'immagine del Cristo crocifisso. E affinché fossero di un solo animo e confermassero nei secoli una pace duratura avendo abolito le fazioni, invitò tutti a condividere la decisione vitale che per consenso comune si realizzava. E perché essa risultasse più santa e tutti giurassero toccando con le mani il crocefisso, egli per primo in lacrime giurando condusse tutti gli altri. Fu quasi infinito il numero di coloro che giurarono e, quando tutto fu terminato, muovendo da lì si trasferirono nella chiesa di santo Stefano, dopo aver posto un presidio a nome dei cittadini presso la porta di san Giacomo. Di esso fecero parte Giovan Antonio Borella, dottore in legge e figlio di Gerolamo, nonché Francesco Balsamo con i fratelli.

Qualcuno dei cittadini era del parere che bisognase mandare ambasciatori al re per consegnargli la città alle condizioni che già avevano approvato; altri ritenevano invece che bisognasse attendere l'esercito e conservarsi fedeli in quanto possibile. Si alzò Soccino e disse che il dado era tratto perché Lavazolo e Iacopo Redrizati erano già stati inviati per annunciare l'arrivo degli ambasciatori. Qualora ciò non fosse avvenuto, il re, ritenendosi deluso, avrebbe abbattuto la città e noi stessi. Quasi tutti i cittadini erano però ignari che i due erano stati destinati a quella funzione. Il pericolo imminente muoveva tuttavia l'animo di tutti.

Francesco Albani, vedendo che gli animi erano indecisi verso altre opinioni disse: "Chi vuole sottomettersi al cristianissimo re mi segua, perché io, anche da solo, andrò da lui"; ed allontanandosi montò a cavallo. Distinguendosi da tutti gli altri, lo seguirono Soccino, Trussardo conte di Calepio, Leonardo Comenduno, Luca Brembati, Fermo della Valle, Paolo Zanchi, Giovan Francesco Suardi, Pietro Rivola, Pietro Suardi, Aurelio Solcia, Gerolamo Agosti, Salvo Lupi, Battistino Rota, Domenico Tasso ed alcuni altri. Costoro fecero omaggio al re presso Caravaggio [17 maggio 1509] e consegnarono la città alla sua giurisdizione, dopo aver firmato alcuni capitoli. Per la cui esecuzione, mentre i restanti accompagnarono Antonio Maria Pallavicini designato dal re quale governatore della città, Leonardo e Paolo rimasero al campo.

Consegnatasi la città senza colpo ferire, il castello dove un certo Sebastiano Bono comandava si diede al re, il podestà fu preso ed i beni saccheggiati, contro la formula dei patti che, insieme con Soccino e Francesco Albani, il podestà aveva stabilito. Il comandante della Cappella Giovanni Venier, invano persuaso dagli stessi a riprendere la città presidiata dal centurione bresciano ivi inviato con le macchine belliche, fu preso e consegnato con il castello ai rappresentanti del re. Mentre i cittadini nostri che dovevano consegnare la città andavano verso il campo; mentre Malatesta Suardi ed Antonio della Sale comandavano a malapena nel borgo di san Leonardo; ecco che arriva Donato Fenaroli, priore di san Leonardo dell'ordine dei Crociferi, il quale aveva accompagnato fino a Brescia mia moglie in fuga. Egli comandò ai nostri cittadini di stare di buon animo, promettendo la grande speranza dell'arrivo di un presidio. Diceva infatti di aver visto con i suoi occhi fino a duemila fanti e cinquecento cavalli leggeri che portavano rinforzi e che egli aveva lasciato presso Mandolossa, piccolo villaggio dell'agro bresciano.

Mossi da tale notizia, gli animi dei migliori si rincuorarono: Ludovico subito si nascose; Malatesta ed Antonio si occultarono nel monastero di santa Maria delle Grazie dove si travestirono da frati, fino a quando avrebbero potuto seguire con il loro proprio abito il pronto arrivo del governatore che sarebbe entrato in città. Sarebbe stato facilissimo ai magistrati veneti, se l'avessero voluto, fare appello in quella circostanza alla fedeltà del popolo che non li aveva disertati e, scacciato il presidio imposto a nome dei cittadini, riprendere la città e fare vendetta dei più faziosi e dei peggiori. Ma, spinti dal loro destino, quando Andrea Passo (il quale stava sempre insieme con Lazzaro Coltrezo, mastro Giovanni Lulmo, il medico Pezolo Simone Zanchi ed alcuni altri, che si erano loro aggiunti) chiese alle sentinelle del borgo di san Giacomo di poter accedere ai magistrati, ciò fu loro negato.

E si giunse così ad un tale scoraggiamento degli animi, che abbandonarono la piazza e si portarono miseramente in processione verso l'episcopio, ricusando il presidio offerto e già pronto degli uomini di Valseriana. Come persone portate al massacro, potendo fuggire sicuri o almeno rinchiudersi nelle fortezze e trovare qualche soluzione per la loro salvezza, preferirono invece attendere il nemico che già sapevano essere presente alla cinta dei borghi e lasciarsi imprigionare dallo stesso. Non so in omaggio a quali loro sciocche idee, secondo cui era preferibile abbandonare la città ed i luoghi affidati alla loro cura, scegliendo di sperimentare la misericordia dei barbari francesi piuttosto che quella italica dei loro.

Il primo che si dice sia caduto nelle loro mani fu Ludocivo Suardi e tra coloro che assalirono le piazze fu Alvise Baniato; e sebbene nei capitoli stipulati con la città si fosse semplicemente concesso che i magistrati potessero liberamente lasciare con i loro beni, tuttavia né il re osservò questo fondamentale diritto della fede data, né fece in modo che esso fosse osservato da altri. Infatti, i magistrati furono presi prigionieri, le loro donne portate nei chiostri del monastero di Rosate con alcuni beni, dove furono spogliate e quelle nobili matrone furono rivestite con indumenti raccogliticci. Malatesta Suardi saccheggiò la casa di Antonio Balbi suo suocero, con il quale era in lite e divise la preda con un certo Francesco Negro, famiglio del governatore.

La città nostra subì un tale enorme danno che coloro che erano ritenuti di parte guelfa, spaventati, confidando anche nel sacro giuramento che avevano appena pronunciato, stavano inerti; mentre i ghibellini, stringendosi al governatore che era il capo della loro fazione, si impadronivano intanto del governo della cosa pubblica. Perché ciò si conseguisse più facilmente, in spregio delle leggi, l'ordine senatoriale fu cancellato ed in luogo di quei settanta furono messe solo ventinove persone, ed anche quelle ad arbitrio del governatore [24 maggio 1509]. Mentre tutti coloro che erano stati eletti agli uffici cittadini all'inizio del gennaio passato continuavano nel loro incarico, al solo Bartolomeo Calepio giureconsulto e difensore della città, si sostituì Alessandro Terzi. Tanta era in quel momento l'autorità della fazione ghibellina, che costui fu anche aggregato al Collegio dei Dottori con il quale per anni era stato in causa con litigi ed ingiurie, per non parlare delle maldicenze giudiziarie. Anche Ludovico Suardo occupò il luogo denominato Casazza, con il pretesto che era stato dei suoi antenati. E si arrivò al punto che uno dei Suardi attendeva in casa al mattino il saluto e le clientele dei togati. Gli avversari ritenevano che non fosse abbastanza prudente mettersi contro di loro, anzi che ciò fosse un'offesa capitale.

Intanto, essendosi l'esercito veneto rivolto verso Verona dopo aver lasciato Brescia senza essere accolto nelle mura, si sistemò negli accampamenti del campo marzio. L'esercito pontificio aveva intercettato Giovanni Greco, prefetto dei balestrieri, che stava al presidio di Ravenna, aveva preso a forza Solarolo e sembrava in breve voler catturare Faenza. Lo stesso Pontefice aveva pubblicato una sentenza di scomunica contro i Veneti, terribile solo a leggerla, nel cui testi si compiacque inserire: essi, pentendosi troppo tardi dei loro errori, mediante ambasciatori vorrebbero che il Pontefice riprendesse tutti i luoghi della chiesa già occupati; e mentre restituendo la sola Faenza avrebbero potuto schivare tale rovina, avendo dato le città di Faenza, Rimini, Ravenna, Sesma (?) e Cervia e gli altri luoghi, chiedono ora di essere assolti dalla scomunica. Con altrettanta risoluzione e facilità lasciarono al re spagnolo per spontanea necessità tutti i luoghi che avevano assoggettato in Clabria, Puglia ed altre province del regno di Napoli.

Intanto Brescia, quando l'esercito si allontanò, si recò in processione incontro al re che arrivava; il medesimo esempio fu seguito dal munitissimo castello, o per ignavia dei difensori oppure, come volle qualcuno, per la perfidia del conte Alvise Avogadri che si era intromesso. Seguendo tale fortunato corso, cadde anche Crema, un castello ritenuto inespugnabile, nella costruzione delle cui mura i Veneti avevano profuso tutta l'opera ed un'indicibile spesa; essa fu presa per il tradimento dei cittadini, sotto la pressione soprattutto di Soccino Benzoni. Cadde anche Cremona, anzi, più propriamente, fu consegnata dai cittadini; il suo castello per le munizioni, le macchine belliche, i difensori ed i comandanti veneti era munitissimo e fortissimo, primo tra tutti in Italia, nel quale il Senato veneto aveva riposto ogni speranza. Il re lo ottenne pochi giorni più tardi senza alcuno sforzo dei soldati. Tutto ottenne il re francese quanto gli era stato assegnato nei patti tra il Pontefice, il re di Spagna ed il re dei Romani.

Ma Peschiera, che sta sull'emissario del lago Benaco là dove inizia il Mincio, e che spettava al marchese di Mantova, dovette essere espugnata. Infatti coloro che la presidiavano, pur potendo per un prezzo non vile ripararsi al sicuro, scelsero di resistere. Quando le mura furono abbattute con le bombarde, atterriti ed imbelli fuggirono nei luoghi consacrati e lasciarono entrare i guasconi che avevano attraversato il Mincio, offrendo loro libero ingresso. Trapassati ad uno ad uno, miseramente persero la vita che combattendo con onore avrebbero potuto conservare; oppure almeno non sarebbero periti in tal numero. Il re infierì contro di loro al punto che costrinse il nobile veneto che comandava il castello a suicidarsi impiccato. Poi si installò a Peschiera per molti e molti giorni; gli riuscì facilissimo, di vittoria in vittoria, sottrarre ai veneti ogni possedimento di terra senza alcuno sforzo e senza spargimento di sangue. Dopo aver distrutto il loro esercito li scacciò fino nella stessa città di Venezia, come essi temevano e come di fatto avvenne.

Verona ed i rimanenti luoghi della Gallia Transpadana spettavano all'Imperatore designato Massimiliano. Mentre si attendeva il suo arrivo a Peschiera, l'esercito veneto fuggendo attraverso il padovano ed il trevigiano si attestò presso Mestre sopra le stesse paludi marittime. I veronesi, che molto paventavano la vicinanza dell'esercito regio e pensavano che si sarebbero trovati meglio sotto l'Imperatore, invitarono l'ambasciatore di Massimiliano presso il re e gli si consegnarono con i loro beni. I magistrati veneti che ivi erano al comando, fatti più cauti per l'esempio altrui (infatti, tutti gli altri, tranne Sebastiano Giustinian che era podestà a Brescia, erano stati presi prigionieri), avevano deciso di abbandonare la città che non intendevano custodire e partirono, accompagnati da quasi tutti i nobili in lacrime. Costoro, avendo lasciato i magistrati, tornarono per la medesima strada e si fecero incontro all'ambasciatore del re dei Romani che entrava in città, salutandolo come loro signore in rappresentanza del suo re.

Accettando da lui l'autorità di reggere la città, ottennero che fosse loro tolta la sentenza di interdetto che il Sommo Pontefice aveva emanato contro tutti i luoghi soggetti al dominio veneto, qualora non lo avessero disertato entro un certo tempo, che era ormai trascorso. Come conseguenza, il re francese continuò la serie delle sue vittorie ed attese l'arrivo dell'Imperatore che era annunciato entro alcuni giorni ed al quale aveva inviato il cardinale rothomagense. Ma aspettò invano e alla fine i patti furono stipulati attraverso dei legati. Lo stesso re ritornò dai suoi, ottenne Peschiera per concessione del marchese di Mantova, anche se essa, quando obbediva a Venezia, era considerata parte del territorio veronese. Fu così che il re, che aveva da prima preso a forza Caravaggio, vinse da ultimo ancora con la forza Peschiera, perché in tale rovesciamento della situazione non trovò altro luogo che osasse resistergli.

Frattanto un certo nobile vicentino, Leonardo da Dressano, che era stato bandito dai Veneti, si era riparato nelle montagne poste a settentrione. Egli raccolse un manipolo di alcuni disperati e si avvicinò a Seledo (?) nell'agro vicentino. Sobillati alcuni nobili desiderosi di novità, i quali l'anno precedente quando Massimiliano era calato a Petra erano stati notati per qualche infedeltà, si avviò verso Vicenza e la prese in qualità di vicario dell'Imperatore, lasciando che i magistrati si allontanassero. Quando ciò fu riferito a Padova, tutti cominciarono ad agitarsi: i padovani erano infatti molto ostili ai Veneti, essendo oppressi per diverse ragioni, ma soprattutto per le ingenti tasse, nonché per la grande avarizia dei Veneti, i quali da pochi anni avevano preso a comprare le proprietà, cosicché in poco tempo tra i padovani nulla era più padovano. Si aggiunga che con minacce, frodi, persuasioni e finte liti costringevano chi non lo desiderava a vendere i beni paterni, nonché a molte altre cose che un vicino potente ed un signore di solito fa ad un altro vicino più debole ed indifeso.

I Veneti erano consapevoli dell'odio della città nei loro confronti ma, ancora atterriti dalle sconfitte dei Francesi, non si svegliavano. Essi avevano sostituito il capitano Gerolamo Donati a Giovanni Mocenigo ed avevano mandato anche Giorgio Emo, uomo coraggiosissimo, con alcuni fanti. Quando giunse un araldo a nome di Leonardo Dressani in qualità di vicario imperiale, che chiedeva la consegna della città, tutti fuggirono ed, essendosi i Veneti allontanati, si mandarono alcuni ad incontrare lo stesso Leonardo. Si elessero anche oratori all'Imperatore e sedici nobili, ai quali fu demandata la cura del regime e la custodia della città, in una con lo stesso Leonardo.

A Venezia intanto si stava con grandissima trepidazione, al punto che furono consegnate spontaneamente a Massimiliano Trieste, Gorizia e gli altri luoghi che erano stati occupati l'anno precedente, quasi per addolcire in tal modo l'animo suo. Gli inviarono anche un ambasciatore illustre, il dottore Antonio Giustinian, il quale non fu mai ammesso al suo cospetto, lasciò la cosa in sospeso e, frustrato in ogni speranza, ritornò in patria. Per evitare che potessero insorgere subbugli in città, si disposero guardie di quartiere in quartiere, dando ad esse capi di grande fede et autorità. Ed avvicinandosi la festa del sacro corpo di nostro signore Gesù Cristo, che essi solevano tradizionalmente osservare con grande solennità, si esitò a lungo se fosse il caso di non celebrarla. Prevalse l'opinione di chi riteneva che si dovesse continuare nell'antico rito, ma si pubblicò un editto secondo cui il portare armi era considerato delitto capitale. A tutti gli incroci delle strade (di solito la festa si celebra intorno alla piazza di san Marco) furono disposte squadre armate che circondassero quel luogo e fossero a presidio della somma magistratura veneta. Fu un triste spettacolo vedere il loro doge che in passato, rifulgente d'oro, era circondato da tutti gli ambasciatori dei più potenti principi di fede cristiana, seguire ora la processione tra due consiglieri sui cui volti si leggeva la paura ed il terrore. E, tra tutti i togati che secondo la tradizione procedevano in processione appaiati, nessuno vi fu che indossasse la veste di seta di colore purpureo, tranne il solo doge.

In tali circostanze, nulla riuscì più gradito ai Veneti della notizia che il re francese, lasciata Peschiera, aveva attraversato l'Adda con l'esercito. Allora, un poco ristorati e rinfrancati negli animi, premettero sui trevisani che si preparavano a consegnarsi, mandando nella città un presidio ed inviando molti al bando, mentre molti altri, pensando a sé stessi, scelsero di andare volontariamente in esilio. Si consegnarono tuttavia all'Imperatore quasi tutti i luoghi che sono posti nelle Alpi a nord di Cividale nel Friuli, nei quali, essendosi successivamente Feltre staccata, dopo il saccheggio, si passò alla distruzione a ferro e fuoco.

Intanto io stavo a Venezia, ma ero costretto a pensare al ritorno in patria con la mia famiglia, perché per un editto affisso in pubblico si richiamavano gli assenti, sotto pena della perdita dei beni. Fui a lungo incerto su quale decisione prendere, ma alla fine mi risolsi a passare attraverso il padovano, il vicentino ed il veronese, che si erano un poco acquietati. Quando però arrivammo a Padova, quello scelleratissimo Leonardo aveva posto alla custodia della porta certi ladroni e malvagissimi uomini che spogliavano chiunque uscisse da Venezia, ricattandoli con pretesti fantasiosi. Appena posi il piede fuori dalla barca, costoro mi assalirono, e con me tutti gli altri (eravamo quattordici, senza contare mogli e bambini); e quando appresero che eravamo bergamaschi, affermarono che i nostri beni erano perduti e che noi eravamo prigionieri. Al che avendo risposto con maggior coraggio di quanto si aspettassero, un certo loro capo, fattosi più vicino, ci mormorò all'orecchio che egli ed i suoi compagni stavano a capo di quel luogo senza alcuna paga: anche in omaggio alla nostra nobiltà, si sarebbe contentato, prima di denunciare a Leonardo i nostri averi, di fare una qualche onesta composizione, non superiore alle cento monete d'oro.

Ed avendogli io risposto, sorridendo indignato, che non intendevo fare una tale composizione, ci comandò di presentarci davanti a Leonardo, ordinando prima al marinaio che non consentisse che i beni fossero scaricati dalla barca. Ed ivi, dopo che ci furono minacciate diverse frodi e difficoltà, fummo alla presenza di Leonardo, che portava in capo una corona di pampini, il quale era complice di tutte le rapine che costoro facevano. Egli ostinatamente asseriva che noi eravamo ribelli del cristianissimo re e sosteneva quindi di potere a buon diritto impadronirsi dei nostri beni. Gli risposi se fosse autorizzato a dichiarare chi era ribelle del cristianissimo re e se il fisco reale fosse demandato alla sua custodia. Quando intese da Achille Borromeo che io avevo una moglie padovana, temendo per quanto era successo e che i sedici nominati sopra fossero informati delle rapine che venivano fatte, mi permise di partire con i miei compagni. Ordinò di attendere alla nave, fino a quando, abboccandosi con i sedici in consiglio, non si fosse deciso il da fare, Intanto mia moglie era entrata in città ed aveva avvicinato i sedici lamentandosi. Quando Leonardo li raggiunse, conscio del suo crimine, mentì affermando di aver ordinato a tutti noi che potevamo lasciare liberamente con i nostri beni. Mandò di gran carriera un messo per ordinare che noi ed i nostri averi dovessimo essere liberati, senza consentirmi di accedere alla presenza dei sedici stessi. Anzi, per diluire la sua colpa con qualche beneficio, ordinò di fare un pubblico editto che non fosse fatta ingiuria ad alcun bergamasco che passasse da lì, il che anche mi concesse con lettere patenti.

Lasciando Padova, sia perché le vie di terra non erano del tutto sicure dai Ferraresi, ai quali, per qualche diritto di successione, erano pervenute Montagnana, Adcustum (?) e Monselice, e che infestavano ogni luogo; sia perché le donne ei i bambini troppo deboli ed i beni in gran quantità si potevano meglio trasportare per via d'acqua; decisi di andare a Vicenza per la via del Bacchiglione. Oh!, come piace raccontare la sorte mutevole degli uomini, che gli agnati e gli affini miei di Padova dissero quando partivo, quando videro che essi mi consigliavano invano che dovessi restare presso di loro con tutta la famiglia, oppure di lasciarne con loro una parte, insieme con mia moglie! Alla partenza mi augurarono buona fortuna e mi dissero di stare di buon animo, che avrei scrollato il giogo dei Veneti, ma avrei tuttavia mancato di soggiacere all'Imperatore, sotto il quale essi non dubitavano di essere felici e liberi da ogni problema. Però, entro pochi giorni essi sarebbero stati esempio di calamità e sofferenza per tutta l'Italia.

Arrivando salvo a Verona, vi lasciai la moglie ed i bagagli perché fino a quel momento l'esercito regio aveva il campo a Peschiera. Ritornai in patria, contro il parere di alcuni maldicenti che pensavano a tutto quel che di nocivo poteva accadere a chi se ne andava. Il re si era avvicinato a Milano, dopo aver premiato Brescia con molti privilegi e dopo aver portato a compimento molte cose. Aveva creato senatori tre bresciani, Pietro Porcellaga e Battista Aplano, giureconsulti, e Giulio Martinengo; aveva deputato Ludovico Nassino, giureconsulto, tra i Maestri Straordinari di Milano; aveva dato cinquanta lance a Giovan Francesco Gambara; aveva costituito per molti cittadini stipendi annuali (detti pensioni).

Alla città nostra ordinò di eleggere dei legati che presso la sua Maestà realizzassero ciò che potesse essere a vantaggio della città. Essi furono Luca Brembati, Leonardo Comenduno, Gerardo della Sale, Ludovico Suardi, Giovan Francesco Suardi e Francesco Albani. E mentre si consultavano su ciò che si doveva chiedere, con grande svantaggio della città nostra ci si cominciò a dividere. I Suardi, infatti, si scordarono dei giuramenti fatti prima del giorno in cui si tenne il consiglio sulla consegna della città; si scordarono anche dei patti stipulati, il più importante tra i quali era di non fare menzione dei beni dei ribelli fatti dai Veneti, ma di lasciare liberamente questi beni a chi li possedeva, come si era anche convenuto nei capitoli stipulati con il re presso Caravaggio. Essi si opposero quindi strenuamente alla richiesta che questo capitolo fosse confermato. A loro si unirono alcuni complici, ma tuttavia prevalse l'opinione di chiedere la conferma del capitolo, non senza scandalo da parte degli altri.

Fu quindi facilissimo per gli animi pieni di un odio che non si era estinto ma solo nascosto, tornare a vomitarlo; soprattutto perché la fazione ghibellina, che era di per sé minoritaria, era fomentata dal governatore il quale, insieme con il luogotenente regio, godeva di tale autorità che tutto senza eccezione essi potevano osare e fare. Accadde così che mentre gli oratori guelfi ricorrevano all'ill.mo Giovan Giacomo Triulzio, persona di grandissima autorità presso il re, i ghibellini al contrario si rivolgevano al governatore. E i dissidenti rovesciarono ogni decisione.

Molti di coloro che erano alla caccia di stipendi annui o uffici tramavano con la val Gandino, altri con Lovere, altri ancora con i paesi dell'agro bergamasco che erano di pertinenza della città e ad essa concessi in feudo; essi chiedevano, al contrario, che fossero concessi a loro. Tuttavia, non soltanto non ottennero quanto volevano, ma diedero anche occasione a Carlo d'Amboise luogotenente regio (cui il re aveva concesso per le sue preziose benemerenze introiti per quattromila monete d'oro sulle terre riconquistate) di chiedere che questi introiti gli fossero assegnati sopra l'agro bergamasco. Egli pensava che avrebbe molto facilmente avuto ragione delle discordie con le proprie forze, come di fatto avvenne. Egli aveva dapprima rivolto la sua attenzione verso il territorio bresciano fertile e ricchissimo; poi, cambiato parere, impetrò che gli fossero donate le valli Seriana, Gandino, Imagna, Lovere ed alcuni altri luoghi del bergamasco e spogliò, come di fatto era autorizzato a fare, la città di ogni giurisdizione che tradizionalmente aveva.

Quando fu richiesta la conferma del capitolo concernente i beni dei ribelli, Giovan Francesco apertamente si oppose a Ludovico. Lo rimproverava infatti perché avendo avuto un mandato dalla città non poteva agire scorrettamente, ma agiva invece contravvenendo al mandato. Giovan Francesco, che era incauto e sconsiderato, quasicché dovesse conseguire la gloria, resisteva con viso ostinato. Vennero così in luce le discordie dei bergamaschi, passarono alcune delle concessioni che erano state fatte a Caravaggio in occasione della dedizione della città, altre concessioni furono invece diminuite. Seguì la conferma dei privilegi, con l'aggiunta di altre clausole minori la cui approvazione riuscì nociva. Nocque a tal punto la discordia dei cittadini che una città ricca, nobile, piena di molti uomini dotti e peraltro prudenti, che per prima era venuta in potestà del re ed aveva dato un esempio a tutte le altre per non aver avuto alcun vantaggio, non fu premiata con alcun altro beneficio se non con la deduzione di quattromila scudi dai dazi imposti in città, da farsi ad arbitrio della città stessa.

E sebbene avesse pagato ed inoltre Carlo d'Amboise avesse indebitamente spogliato la città, tuttavia - dietro suggerimento dei ghibellini che tramavano per guadagnarsi la sua grazia contro i guelfi - egli chiese che la città riscattasse gli introiti che gli erano stati donati, insieme con ogni giurisdizione, aggiungendo minacce qualora ciò non fosse stato fatto. Fu proposto di scegliere quale parte avrebbero preferito comprare; fu proposto anche un prezzo, cioè cento soldi per ogni dieci di reddito. E quando la città, allettata dalla speranza di un guadagno ma atterrita dalle minacce, si offrì di riscattare qualcuna delle valli, ma ad un prezzo più onesto, allora dichiarò che non avrebbe restituito alla città le valli che sapeva esserle più ostili, se non avessero meritato tale restituzione per il prezzo proposto. Venne offerta una gran somma di denaro ed allora egli, come se venisse in visita alla città, vi arrivò spontaneamente. Egli ignorava ciò che fino ad allora era stato fatto e cominciò a trattare di nuovo. Convocati alla sua presenza coloro che erano stai eletti a tale faccenda, si comportò con loro come se non volesse vendere ogni cosa, ma volesse trattare soltanto per Cologno, Urgnano, Ghisalba, Calcinate e Mornico, paesi della pianura, in ragione di cento soldi per ogni otto. E siccome sapeva che sarebbe stato contraddetto, impedì loro di rispondere alcunché se non dopo che la cosa fosse stata portata in Senato. Quando i senatori furono radunati, il governatore, che era presente, annunciò in un lungo discorso che se i luoghi offerti non fossero stati comprati, la città sarebbe incorsa nell'indignazione del regio luogotenente e poi punita per crimine inconsulto.

A quel punto, non osando gli onesti resistere ai faziosi che proponevano di accettare, Paolo Zanchi li convinse a comprare gli stessi luoghi al prezzo che fosse piaciuto al luogotenente regio di fissare, nella convinzione di poter almeno conseguire il vantaggio di stipulare al prezzo originariamente offerto. Disse infatti che dopo l'approvazione del senato nessun uomo degno di tal nome avrebbe approvato un sei per cento. A richiesta della città si fece un prezzo in ragione dell'otto per cento, aggiungendo che si sarebbe accettata tutta la somma che il governatore avesse deciso, purché non superasse i mille scudi d'oro.

Subito dopo egli decise che si versassero i mille scudi promessi, anche se si credette che essi non uscirono dalle mani del governatore. Essi furono sborsati dalla città stessa per ricevere con maggior pompa Carlo quandi vi entrò. Per quel che riguarda l'eccezionalità dei festeggiamenti, delle manifestazioni e delle esternazioni, basti dire che per sua stessa testimonianza fu provato che non si vide altrove tanta allegria per la sua venuta. Ma, quanto ai denari, il guadagno fu proprio poco.

A titolo di dono, a nome della città gli fu offerto un calice d'oro del valore di trecento ducati ed alcune altre cose per accompagnare, o meglio, per accrescere il valore del dono. Si rimproverò a Paolo Zanchi, cui era stato affidato un non piccolo incarico nei preparativi, di aver inserito molte scritte nell'ornato delle porte (chi entra per la porta di sant'Antonio ne incontra parecchie), mentre altre erano più brevi in sua lode (?). Alcuni pensarono che esse fossero state poste in spregio ai Veneti.

Intanto, mentre il re si trova a Milano e Massimiliano latita e governa Verona per mezzo del vescovo di Trento, Carlo d'Amboise fa entrare a Padova alcuni fanti comandati dal conte di Naldo. Egli, che godeva di grande autorità presso i tedeschi, invia, anche come comandante del suo esercito Costantino Epirota, che era stato a lungo presso il duca di Sabaudia, legato a lui da qualche affinità. Quei barbari privi di ogni buon costume molto fanno. Erroneamente i Veneti, recuperato il coraggio, mossero dalle paludi e, occupati diversi villaggi del territorio trevisano e padovano, compirono diverse incursioni contro chi resisteva. Ma i Padovani, che si erano impadroniti delle ingenti prede, delle ricche case e degli altri beni dei Veneti e ne usavano a loro arbitrio, reclutarono una valida schiera di armati e posero al suo comando il padovano Francesco Boraldo, che aveva servito sotto i Veneti, ed il veronese Brunoro Serego, ed alcuni altri, e li mandarono alla difesa della cittadella, dove si si diceva che i soldati veneti erano diretti, mandando Brunorio in città.

Presso la cittadella vi furono parecchi brevi scontri nei quali Beraldo fu fatto prigioniero insieme con molti altri, talché fu necessario trattenere a Padova ogni forza, soprattutto perché si fidavano pochissimo della città (?). Gli animi dei contadini erano molto favorevoli ai Veneti, e quando si accorsero di tale mancanza di soldati, Lattanzio Bongo, Citolo [si tratta di Giorgio di Paolo Zaccagnini detto Citolo da Perugia, secondo C Pasero, Vol. II, Parte I, Cap. IV in Storia di Brescia. Treccani degli Lafieri, Roma, 1963] ed alcuni altri comandanti di fanteria, entrati in trattativa con alcuni cittadini (erano pochi, tra i quali i Soncini) l'assalirono, il che fu una grande scelleratezza. Cominciò Lattanzio, che mentre l'esercito sedeva presso Verona aveva lasciato il servizio, lamentandosi che i Veneti gli avevano fatto ingiuria, per aver dichiarato Dionisio da Brisighella comandante della fanteria, e poi si era arruolato con la clausola di non sottostare a Dionisio ed era stato messo a capo di tutte le macchine belliche.

Costoro, nel cuor della notte, nascosti presso le mura di Padova, raccolsero all'alba una discreta schiera di contadini che, portando armi nascoste, seguivano diversi carri carichi di fieno nel quali erano occultate armi offensive. Essi si avvicinarono alla porta di Santa Croce e, appena il ponte fu abbassato, diedero un segnale a quelli nascosti e cominciarono ad entrare. E quando già Lattanzio e gli altri rustici erano entrati, sciolti i buoi, lasciarono un carro appena entrato perché il ponte non potesse esssere improvvisamente alzato di forza. Prese le armi, assalirono i custodi e li uccisero. Poi, a voce bassa chiamando Marco, prorompono verso le porte interne della città. Da parte dei congiurati che stavano a ciò pronti si produsse in città una sedizione e subito cadde una piccola schiera di Tedeschi. Leonardo Dressano e Brunorio fuggirono e ripararono nel castello. Poi si cominciò ad infierire contro molti, a dilapidare i beni, a violare le donne e ad infuriare contro molti, che, ancora semi addormentati nel sonno mattutino ed incerti su che fare, svegliati dal suono delle trombe, dalle urla dei feriti e dal clangore dissonante degli armati, fuggirono ciascuno come capitava; qualcuno cadde in mano dei nemici, mentre altri, passando per vie meno esposte, sfuggirono alle mani dei violenti, abbandonando tutti i beni.

Le case di molti, o perché erano stati più coraggiosi contro i Veneti, o perché per la loro ricchezza promettevano ai soldati la speranza di un gran guadagno, furono spogliate. Dove ci si moderò nei saccheggi, il gran numero dei prigionieri fu relegato a Venezia, e furono più di trecento. Alcuni furono inviati al carcere duro ed alla fine persero la vita; tra essi fu Pier Francesco Dottori, che aveva retto per lunghi anni la cattedra ordinaria di diritto canonico. Costui tuttavia, dopo quattro anni, fu restituito alla libertà ed infine alla patria, al tempo in cui fu reintegrato lo studio di Padova. Vi fu anche il conte Alverati che aveva insegnato per lunghi anni ed infine, assistendo i podestà veneti, si era guadagnato una grande fortuna ed autorità. Agli altri fu imposto l'onere di presentarsi quotidianamente ed ebbero come carcere la città. Si infierì contro Bertuccio Bagarato, che aveva anch'egli per molti anni insegnato, Iacobo Leono dottore, Ludovico Conte e Roberto Trapolino, che furono tutti impiccati ed i loro beni confiscati. Giovan Francesco Mussato dottore ed altri furono esiliati a Creta, ma è difficile dire il numero degli esiliati. Siccome la città era grande e molti erano i nobili, solo pochi rimasero a Padova, e gli altri andarono esuli, o perché relegati a Venezia, o perché peregrinarono, errando e vagando per tutta l'Italia. Alla fine, nulla avendo fatto per il castello di Padova catturato, Leonardo Dressano e Brunorio Serego furono presi prigionieri e carcerati a Venezia; Leonardo miseramente morì in carcere, Serego fu restituito alla patria dopo parecchi mesi.

Udita la notizia della presa di Padova, il re francese, che aveva già lasciato Milano, si fermò sulla via presso Biagrasso e, tenuto un consiglio, continuò la sua strada, promettendo di dare cinquanta cavalli pesanti all'arbitrio di Massimiliano per riprendere Padova; destinò Iacobo de Cabanes signore de la Palisse a capo di quei militari, ai quali si aggiunsero ottomila fanti.

Intorno a quel tempo, Giulio dei conti di San Bonifacio da Verona concesse ai Veneti Lignago, città fortificata molto importante nel veronese posta sull'Adige attraversato da un ponte; i Veneti la utilizzarono per massimo incomodo degli avversari. Mosso da questo spiacevole fatto, Massimiliano richiamò le milizie del re francese e, raccolto un gran numero dei suoi nonché convocati gli aiuti del Pontefice e dei Ferraresi, pose l'assedio a Padova, dove i Veneti avevano concentrato tutto il presidio. Il numero degli assedianti era di oltre centoquarantamila, gli assediati ventimila. Tra essi stavano Nicolò Orsini conte di Pitiliano, come capitano dell'esercito, Andrea Gritti provveditore generale, Bernardino da Montone, e tutti gli altri che nell'esercito veneto comandavano milizie a piedi ed a cavallo.

Costoro avevano previsto l'assedio ed avevano scavato una fossa interna alle mura ed innalzato un terrapieno di tale larghezza da poter tenere a distanza chi avesse passato il fossato e tale da incontrare alla fine un'altra fosse più profonda tutto intorno ed un terrapieno più alto dell'altro. Avevano quindi reso la città sicurissima ai margini della fossa e sulla sommità del terrapieno, predisponendo alcune postazioni con ferri acutissimi per offendere il nemico che saliva o si fermava. Avevano anche nascosto sotto terra certe polveri di bitume e zolfo, o fatte di altre materie combustibili, che si potevano incendiare a loro discrezione qualora i nemici occupassero quei luoghi: il fuoco, erompemdo per la forza delle polveri, avrebbe travolto le persone armate uccidendole. Anche tutto il borgo detto Coda Lunga fu distrutto per ordine dei comandanti e così tutti gli edifici che stavano fuori ed intorno alle mura e che, messi insieme, avrebbero indubbiamente eguagliato gli edifici di una grande e nobile città. Avevano ancora eretto incastellature a ciascuna porta della città, con terra e rami ed altri materiali, detti bastioni, ponendo a loro presidio alcuni dei migliori comandanti. Tale fu la previdenza dei capitani che di giorno in giorno mettevano di guardia militari diversi, per evitare che, qualora essi si accordassero con il nemico, potessero promettergli un luogo certo.

Per caso, Citolo perugino fu posto al bastione rivolto verso l'accampamento, situato verso la chiesa di sant'Elena. Quel bastione aveva nome Cata perché i militari perugini animati da più ardenti spiriti, vi avevano dipinto un gatto, con sotto certe strofe militaresche che invitavano a prendere i nemici come una gatta. Nel campo vi erano fanti spagnoli che, o per troppa confidenza nel loro coraggio o per troppo disprezzo dei militari veneti, si prefissero di prendere la gatta, né pare che il loro coraggio venisse meno prima di andare all'assalto. Con quel coraggio essi combatterono per alquanto tempo, mentre molti cadevano da ambedue le parti; poi Citolo comandò ai suoi di ritirarsi a poco a poco. Si fecero allora più audaci gli spagnoli e, incoraggiandosi a vicenda ad inseguire i fuggitivi, salirono il bastione dove i perugini, per coprire l'inganno, davano l'impressione di ritirarsi di malavoglia. Quando quasi tutta la falange spagnola fu penetrata all'interno del bastione e si accingeva ad assaltare la porta interna, allora scoppiò il primo incendio nascosto. Nei sotterranei del castello erano stati occultati materiali solforosi, polveri e sostanze infiammabili ai quali di nascosto fu dato fuoco. Irrompemdo esso con subita esplosione, vomitò fuori il castello e tutto quanto lo occupava. I Perugini vincitori che, conoscendo la frode, si erano riparati al sicuro, trucidarono tutti quelli che il fuoco e lo scoppio non avevano ucciso. Nei due mesi d'assedio nessun'altra scelleratezza da ricordare fu posta in opera, anche se di tanto in tanto vi furono alcune scaramucce, tra le quali si ricorda quella che fu portata presso il portello, ed anche se qua e là le mura cedettero sotto i cannoni di Massimiliano, che erano enormi. Mai tentarono, tuttavia, di premere la città con tutte le forze. Al contrario, sedendo ed attendendo, o per colpa di Costantino Epirota, come alcuni vollero, oppure per i dissendi tra i capitani, si passò il tempo invano e per l'arrivo dell'inverno furono costretti a sciogliere l'assedio.

Frattanto gli ambasciatori veneti che erano stati destinati al Sommo Pontefice dal Senato, sei uomini di somma autorità - tra essi vi erano Gerolamo Donato, letteratissimo, e Paolo Pisani - dopo le sconfitte dell'esercito ferivano gli orecchi del Pontefice con lamentazioni continue, umili preghiere e saggi ammonimenti ed impetravano ardentemente alla fine di assolverli. L'assoluzione fu loro concessa pubblicamente, contro il volere dell'ambasciatore del re francese, dal quale allora per la prima volta il Pontefice parve dissentire. Ciò divenne più manifesto dopo pochi giorni, tanto che egli comandò all'ambasciatore francese di allontanarsi e revocò il suo legato che agiva presso il re. Suscitando il suo odio impotente, prese la scusa dello scioglimento della Lega perché il Francese aveva occupato Peschiera, in spregio ai patti.

Francesco Gonzaga, marchese di Mantova militava con il re e mentre si muoveva incautamente entro i confini presso Isola della Scala, nel profondo della notte fu catturato dal perugino Citolo e dal bolognese Lucio Malvezzi, che erano lì arrivati, o meglio accorsi, con una scelta schiera di soldati marciando incessantemente, giorno e notte. Con lui furono presi anche alcuni nobili veronesi e tutte le salmerie, ivi inclusi un buon numero di cavalli di razza. Sulla via del ritorno Francesco fu portato a Venezia. I Veneti, liberati da questo timore, piuttosto rincuorati che scoraggiati, decisero di muovere contro Ferrara.

Così, armate delle barche triremi dette grosse, ed altrettante otto piccole ed un incredibile numero di naviglio minore sul quale stavano circa dodicimila soldati, risalendo il Po si avviarono verso Ferrara. Angelo Trevisan era comandante generale dell'armata di mare. Alfonso, marchese d'Este, sfidando apertamente il pericolo, aveva eretto sulle rive del Po a Pelusella un bastione munitissimo da cui aveva tirato delle catene di ferro verso la sponda opposta, bloccando il Po. Inoltre, con varie macchine belliche impediva il transito, avendolo rafforzato con grossi presidii; i veneti, assetati di preda, scorrevano il Polesine adiacente al Po. Fu in quell'occasione che Ludovico Pico, signore della Mirandola, che portava rinforzi ai Ferraresi passando lungo il Po fu colpito da un improvviso colpo di bombarda e decapitato.

Venivano i Veneti con tale foga, sia attirati dalla preda che spinti dall'odio per i Ferraresi, che ritenevano di poter superare tutti gli sforzi del comandante ferrarese. Ansiosi e spinti dalla medesima speranza che avevano concepito, senza mandare innanzi esploratori e senza ordine alcuno, si precipitavano; per contro il comandante ferrarese, confidando su un presidio francese che aveva fatto entrare in città, fece uscire quanti più Ferraresi potè nel silenzio della notte, ai quali aveva anche aggregato ogni altro uomo di supporto esterno di cui disponeva. Tutti costoro aveva affidato al fratello cardinale. Essi si avvicinarono senza rumore al bastione. Aveva anche disposto sul Po tutti i pontoni, rifugi, mulini gallegianti ed ogni altro natante della stessa natura nella parte a monte, cosicché ad un suo cenno, con il favore della corrente scendessero con maggior velocità. Quelli che si erano avvicinati al bastione avevano scavato le rive del Po che erano a quel tempo in secca e in queste trincee scavate avevano installato bombarde ed altri strumenti bellici con cui potevano battere i navigli veneti, ciò che dal sommo della riva per la depressione del fiume non si sarebbe potuto fare reiectis aggeris obice.

Quando l'armata navale si avvicinò al bastione, quelli che erano andati a presidiarlo si accinsero a difenderlo. Era il giorno in cui si celebra la festa del beato protomartire Stefano [26 dicembre 1509]. Si adirarono i Veneti perché avevano osato di resistere e con tutte le intenzioni e le forze si sforzarono di annientare quel presidio; ma lo faceva senza alcun ordine E poiché nessuno dell'altra parte con questi soli poteva vincere, ecco che improvvisamente irruppero gli aiuti comandati dal cardinale. Il naviglio che navigava caricato da in ingente peso ed era legato e le altre attrezzature del Po, spinte dal loro stesso peso e dalla forza del fiume, spinsero le navi venete. Tutte le più piccole affondarono, le maggiori furono danneggiate. E mentre i Veneti erano intenti a respingerle o a evitarle, ecco che improvvisamente la forza dell'artiglieria rompendo dalle trincee scavate sbaraglia ogni ordine.

I Veneti non potevano retrocedere per le dimensioni ed il numero delle navi, né potevano invertire le prore e superare gli impedimenti mandati attraverso il fiume e le catene che lo sbarravano; stavano quindi incerti su che fare. Allora improvvisamente irruppero i Ferraresi e li volsero in vergognosa fuga. Quelli rimasti furono portati verso le rive opposte e discesero a mare. Spinti verso il mediterraneo non permisero in alcun modo al nemico vincitore di impadronirsi delle navi. E se i Ferraresi fossero stati più prudenti ed avessero mandato nel Polesine detto di san Giorgio una parte dei soldati, avrebbero sterminato l'intero esercito veneto.

Molti caddero nelle mani dei contadini e furono spogliati o uccisi. Non avrebbe potuto sperare Alfonso, cui sarebbe stato più che sufficiente allontanare il nemico, di conseguire una tale vittoria sui Veneti, tanto più potenti e superbi. Il comandante navale Angelo Trevisan, in accordo e con l'aiuto di una scialuppa della sua trireme, sfuggì con pochi dalle mani dei nemici. Il capitano estense si impadronì di quasi tutto il naviglio veneto, eccetto la trireme ammiraglia che, essendo stata forata da diversi colpi di artiglieria, fu sommersa ad opera di alcuni che vi erano entrati.

Era tanta la speranza che i Veneti avevano di condurre bene l'azione, che allorquando ebbero bisogno di avere soldati nella patria del Friuli per rintuzzare le incursioni del tedeschi che si susseguivano di giorno in giorno - e che tuttavia facilmente repressero mentre era podestà di quella patria Antonio Giustinian, dottore e uomo molto illustre - fecero uscire il campo, occuparono Vicenza e si fermarono sui confini del veronese, scavarono un fossato che dal luogo di Soave, posto in collina, arrivava fino al fiume Adige e attraverso punti di forza si passava con un ponte, e rafforzarono gli accampamenti. Da lì, con incursioni frequenti infestavano tutto l'agro veronese con i cavalli leggeri, della cui opera moltissimo si giovarono, devastando ogni cosa.

Di tanto in tanto uscivano dal campo anche dei reparti di cavalleria pesante che avevano brevi scaramucce con i tedeschi ed altri che proteggevano Verona a nome di Massimiliano. In questi scontri, sempre i Veneti uscirono vincitori e giunsero a volte fino alle mura di Verona e congiunsero l'Adige con un buon ponte sopra Lignago. Intanto a Verona si soffriva per la mancanza di vettovaglie, quando ormai la primavera cominciava e Massimiliano sembreva incapace di difendere la città, o perché procedeva con molta lentezza per una qualche negligenza riguardo al territorio italiano, oppure, come è più probabile, perché soffriva per la carenza di denaro.

Il re francese stabilì a quel punto di rafforzare quanto aveva appena acquisito e di mandare rinforzi al re dei Romani, prendendo sopra di sé tutta la responsabilità della guerra. Radunate così tutte le forze regie, cui fu posto a capo Carlo d'Amboise luogotenente generale di qua dai monti, anche a titolo di generale di Massimiliano, decise di marciare su Lignago e di impegnarsi a proseguire al più presto l'occupazione di quel luogo. I Veneti lo avevano indovinato e si mantenevano all'interno della fossa scavata presso Soave, per essere preparati a resistere all'esercito che arrivava. Tuttavia, quando seppero che le forze francesi arrivavano attraverso il mantovano ed il ferrarese, temendo che attraversato l'Adige li circondassero, si portarono a Montagnana e, distrutto il ponte che attraversava l'Adige presso la città di Abbazia, rafforzarono con presidii la torre che era stata eretta a custodia del ponte e munirono l'altra torre detta Marchesana sita nell'alveo del medesimo fiume, così da impedire del tutto l'attraversamento del fiume. Posero anche reparti non piccoli di militari e fanti alla custodia del fiume, mentre venivano nominati come provveditori alle truppe Pietro Marcello e Giovan Paolo Gradenigo, uomini espertissimi di materie militari tra i Veneti. Citolo perugino era invece stato posto alla testa dei fanti.

I Francesi, che sono impetuosissimi ed impazientissimi di qualunque indugio, accorrevano senza alcuna legge ed ordine; i Veneti intendevano opporsi e resistere ad ogni sforzo dei Francesi e difendersi entro i loro confini, non senza arrecare danno ai nemici. Atterriti tuttavia dall'improvviso arrivo, fuggirono senza far nulla e prepararono così la vittoria ai Francesi. I quali, appena seppero che i Veneti retrocedendo avevano attraversato l'Adige, felici di questo primo segno, mentre erano prima indecisi dove dirigersi, decisero ora di inseguire tutti il nemico.

Citolo aveva protestato e reclamato quando i provveditori avevano mosso il campo, nel timore di poter essere intercettato prima di mettersi in salvo. Egli attese nei pressi della torre posta a custodia del fiume sull'altra riva opposta al castello di Abbazia. E sostenne il primo assalto di coloro che arrivavano, ne abbattè molti, avendo trovato pezzi di artiglieria leggera poste sulla torre che poi, lasciando la notte successiva, affondò nel fiume perché non cadessero in mano dei nemici, quando ormai tutti i presidi intorno all'Adige erano occupati.

I Francesi si posero all'assedio di Lignago, alla cui difesa i veneti posero ogni cura. Nella regione di Lignago, le cui mura sono bagnate dall'Adige, al di là del fiume vi è Porto, paese non ignobile che veniva considerato come un borgo di Lignago perché, essendo il fiume congiunto con un bellissimo ponte, forma un medesimo aggregato. Molti stranieri arrivarono alla difesa di quel castello insieme con molti di Lignago, che i Veneti vi avevano spinto perché potessero resistere ai soldati armati ed anche per evitare di essere presi per fame. Essi cinsero lo stesso Porto con una fossa larghissima ed in essa deviarono una parte del fiume la quale poi, circondato il perimetro, ritornava nel fiume stesso. Eressero anche un castello sul fronte della medesima fossa, che cominciava sotto le stesse mura del castello, il quale fu poi rafforzato con presidi validissimi. Il fiume fu chiuso con certe porte che potevano essere aperte e chiuse a volontà, in modo che quelli che stavano nel castello potevano, secondo il loro volere, o immettere tutto il fiume nella fossa scavata intorno al Porto, oppure, chiudendola, restituirla all'alveo originario.

Si pensava che con questo stesso accorgimento si potessero facilmente difendere con un presidio tutti gli abitanti ed il Porto così rafforzato. A Lignago erano stati immessi mille fanti, e trecento nel castello, alla cui testa si erano posti molti nobili veneti. Le mura erano state munite con un bastione esterno di grande spessore, mentre all'interno vi era un bastione minore di terra e rami verdi. Appena l'esercito francese si avvicinò al Porto, i Guasconi, che formavano quasi l'intera forza della fanteria, spinti dall'avidità della preda che senza dubbio avrebbero conseguito in grande quantità, cominciarono a guadare la fossa, il che riuscì loro facilissimo essendo abilissimi e l'acqua non superando l'ombelico.

In quell'occasione fu manifesto quanto la fortuna possa nelle battaglie. Infatti, se i Veneti avessero sbarrato il fiume con la porta e lo avessero immesso nel fossato, senza dubbio sarebbe stata la fine dei fanti francesi perché la gran forza della corrente che entrava li avrebbe travolti, oppure i pochi che già avevano attraversato sarebbero caduti per mano dei difensori. Tuttavia, o per la lentezza e l'ignavia di coloro che stavano nel castello oppure, come si credette, per l'impedimento di qualche ostacolo, cominciarono a bloccare il fiume quando tutti i fanti già si erano trasferiti sulla riva opposta. Tutti quelli del Porto, privati di ogni speranza e scoraggiati, fuggirono e furono uccisi o in parte fatti prigionieri; il castello cadde in mano dei nemici.

La sconfitta di Porto offrì un grande vantaggio ai Francesi, perché ivi fu rinvenuta una ingente riserva di vino e di altre vettovaglie. I Veneti tuttavia non si scoraggiarono, ma restarono chiusi nelle mura e sfidavano alla battaglia i nemici dell'altra parte, fiduciosi di potersi difendere. Ma quando le mura, battute dalle macchine belliche, cominciarono ad essere scosse, la gioventù veneta, che non era abituata a tali pericoli e cresceva tra giochi e danze e si intendeva soltanto di commerci, non appena il sangue giovanile si raffreddò un poco per la paura, mostrò scarso coraggio. Alcuni che erano stati posti alla custodia delle fortificazioni si rinchiusero atterriti nel più breve spazio dell'arce; altri, inesperti ed ignari della milizia e non abbastanza fiduciosi nei soldati che non avevano mai prima conosciuto, agirono senza energia e pensarono soltanto alla loro salvezza. I soldati che combattevano dalle mura, sospettando il peggio per la fuga dei capi ed essi stessi pensando a sé, abbandonarono le loro postazioni. In questo modo consegnarono al nemico un castello fortissimo, munitissimo e creduto invincibile. Poche le persone uccise, gli altri furono mandati spogliati, i nobili imprigionati.

La sconfitta di Lignago apportò ai Veneti un grandissimo dolore ed un danno maggiore di quanto si possa credere. Reputavano essi infatti che quel luogo fosse inespugnabile, o almeno che avrebbe sopportato un lungo assedio. Quando però cadde in tre giorni, essi lasciarono Montagnana, dove si erano attestati, e si avviarono verso Padova, ponendo lungo la strada presidi a Monselice. Intanto il capitano di Naldo, che a nome di Massimiliano reggeva Verona, aveva preso a contratto certi soldati e li aveva condotti nel vicentino. Congiuntisi con le truppe di Carlo d'Amboise, raggiunsero Vicenza, che non era protetta da presidio alcuno, cittadino o forestiero. Entrarono facilmente attraverso le porte aperte e lasciarono credere che la città doveva essere rasa al suolo per ordine dell'Imperatore: tutta la nobiltà e la parte più ricca degli abitanti fuggì, con i beni e le famiglie, rifugiandosi a Venezia.

Sulle alture di Vicenza, vicino a Scledo, vi erano due cavità sotterranee che attraverso un breve passaggio d'accesso offrivano a chi vi entrava un rifugio assolutamente sicuro. Ivi una gran numero di contadini della cui opera i Veneti omnia fere sunt moliti e che comprendeva un gran numero di donne e bambini, sbarrato l'accesso con barriere, bastioni e talune macchine di minori dimensioni dette spingardoni. Ivi, dopo aver incendiato Lonigo, si portò la rabbia tedesca e, avendone espugnato una ed ucciso uno ad uni tutti, invano assalì la seconda. Con gandissima crudeltà, stiparono nel passaggio una gran massa di legna verde e di paglia bagnata e vi diedero fuoco. Tutti morirono per il fumo, non essendovi alcun'altra uscita. Da lì, appena catturate malamente Montagnana ed Adeusto (?), posero l'assedio a Monselice. Al primo assalto si impadronirono della parte bassa, poi tentarono di prendere il castello posto sulla cima e presidiato da fanti. Lo assaltarono invano alcune volte, ma furono respinti e molti rimasero uccisi. Alla fine, quando tentavano di espugnarlo con un ulteriore sforzo ed erano penetrati oltre la prima cerchia delle mura, gli Spagnoli - che occupavano per conto dei veneti il castello e che potevano facilmente ripararsi tra le zone meglio fortificate del castello e da lì, combattendo dall'alto, respingere i Francesi - impauriti abbandonarono le armi implorando misericordia. I Guasconi tuttavia, preso di forza il castello, tutti trucidarono tranne i capi e da lì si diressero verso Padova.

Mentre Monselice stava sotto assedio, gli stradiotti, confidando nella cavalleria e nella rapidità d'azione dei Veneti, scorrevano tutto il territorio euganeo ed intercettavano il cremasco Soccino Benzoni, che per merito dei suoi avi era stato in passato molto gradito ai Veneti. Poi, per alcuni suoi enormi crimini era stato relegato a tempo a Padova, ma, per l'imminente guerra dei Veneti, era stato restituito in patria e posto a capo di una centuria di uomini d'arme. Sconfitto successivamente l'esercito veneto presso Pandino, il fedifrago era fuggito a Crema ed esercitava pressioni sulla sua patria perché si desse al re. Né era bastato che mancasse di fede: con sfoggio di superbe parole sparlava dei Veneti liberamente e pubblicamente ed attestava così la perfidia sua. Appena presentato ad Andrea Gritti, fu immediatamente condannato alla forca.

L'esercito veneto si era fermato per alcuni giorni in vicinanza di Padova e non osava aggredire la città, dopo avere perduto ai Francesi Lignago ed ai Tedeschi Verona. I Francesi si avviarono per vie diverse verso Milano. Massimiliano aveva anche consegnato al re francese Valeggio, luogo munitissimo sul veronese in prossimità del Mincio, ed una parte della città di Verona chiamata Cittadella, che era separata dalla restante parte della città da un muro e da un fossato, ricevendone in cambio alcune migliaia di monete d'oro: avrebbe potuto tenerla fino a quando il denaro non gli fosse stato restituito.

Mentre tutto questo accadeva, il Pontefice Giulio - del quale si dice che quando era asceso al sommo pontificato sapesse tre cose: che avrebbe abbassato la superbia dei Veneti, che avrebbe restituito la patria sua Genova alla pristina libertà, e che avrebbe scacciato i barbari da tutta l'Italia - aveva scordato i Veneti e si dedicava al resto. Aveva infatti intrapreso questa grande scelleratezza: se avesse al più presto dichiarato gonfaloniere della Chiesa Alfonso d'Este, marchese di Ferrara, che era di idee francesi, avrebbe potuto proibire che egli producesse sale venale a Comacchio, città a lui soggetta. Per questo il fisco della Chiesa riceveva un danno dal momento che, con il recente recupero di Cervia vi era una grande quantità di sale da vendere. E poiché negli anni precedenti Alfonso aveva condotta in moglie Lucrezia Borgia (che si diceva figlia del Pontefice Alessandro VI) aveva ottenuto dallo stesso Alessandro di essere sollevato da un censo annuo di sessantamila ducati percepito dalla Chiesa romana, oppure che lo stesso sale fosse ridotto ad una certa minima quantità. Aveva accettato inoltre a titolo di dote duecentomila ducati, di cui veniva ora richiesta la restituzione, insieme con il pagamento del censo passato che non era stato mai pagato. Diceva infatti che la liberazione o deduzione, fatta da Alessandro in pregiudizio della Chiesa romana, era stata annullata. E citò a Roma Alfonso.

Il re francese comprese immediatamente che il Pontefice affermava questo o per staccare da lui il duca di Ferrara, oppure per implicarlo in qualche grande turbolenza. Ed operò in quanto possibile presso il Pontefice perché la controversia con Ferrara fosse sopita; ma tutto fu invano. Poiché Alfonso, chiamato in pubblico concistoro, non compariva, il Pontefice lo privò del feudo con una sentenza giudiziale, lo scomunicò, e sottopose ad interdetto ecclesiastico Ferrara e gli altri luoghi ad essa aggregati. Si ebbe subito l'impressione che il Pontefice si stesse avvicinando ai Veneti e si divulgò anche una certa formula della ricomposizione intervenuta tra loro.

Gli Elvetici fino dall'inizio della guerra erano stati al soldo del Papa. Essi sono popoli immediatamente confinanti con il ducato di Milano e sono chiamati con vocabolo più moderno Sguizari. Il Pontefice intendeva abbattere la fazione francese da ogni parte in Italia ed intanto premeva con stimoli incessanti il re spagnolo e Massimiliano. Egli si accordò anche con gli Svizzeri che un certo giorno lasciassero Bellinzona (che è un castello fortissimo tra i monti cui il re aveva dato in premio Ludovico Sforza che gli si era consegnato) e facessero irruzione sul milanese oppure, passato l'Adda, sul bergamasco. Analogamente, egli convenne con i Veneti che allo stesso tempo lasciassero Padova, assalissero Verona e poi Vicenza che non era difesa da nessuno e non poteva quindi essere di impedimento ad alcuno. Per parte sua il Pontefice, che aveva approntato un esercito comandato dal cardinale lagato papiense (era della nobile famiglia emiliana di Castro Rio), comandò che fosse condotto sul parmense, come fingendo per molti giorni di aggredire Ferrara ed aveva invaso i confini dei Ferraresi per predare loro e gli edifici che li contenevano e fosse fatto dei Francesi se, come era stato ordinato, ciascuno fosse stato exequtus (?). Aveva inoltre stimolato certi nobili genovesi perché la città, per sua natura vogliosa di novità e non usa a sopportare alcun giogo, si riappropriasse della sua libertà, utilizzando dei soccorsi che aveva promesso di inviar loro per terra e per mare.

Gli Svizzeri, forse perché di natura impazienti, avevano accelerato eccessivamente i piani, oppure perché, come si credette, rebus Gallicis aliquanto consultari per non perdere, dopo la loro sconfitta gli stipendi che costoro profumatamente pagavano a loro volontà, senza che i preparativi fossero finiti, improvvisamente discesero e, occupata Varese, andarono verso Como. La loro irruzione fu causa di tale spavento per i Milanesi, che tutti gli abitanti del territorio sopra Milano, quant'esso giace tra il Ticino e l'Adda, pensarono a salvarsi con la fuga e decisero di porre guarnigioni a Milano. Como, dove stava il comandante francese Gruerio si difendeva molto bene, mentre tutti i capitani francesi con grandi sforzi l'assediavano, ma poiché essi non avevano macchine belliche si pensava che non avrebbero tentato di espugnare Como. Giovan Giacomo Triulzio attraversò l'Adda vicino a Trezzo e si attestò nell'Isola bergamasca presso Villa, temendo che attraversato l'Adda con un ponte, sfondassero entro i confini bergamaschi.

Carlo d'Amboise, il luogotenette regio, si portò a Galeratum (?) con quasi tutto l'esercito per impedire che [gli Svizzeri] si estendessero sul milanese; ma essi, ritornati sui loro passi, riportarono in patria l'ingente bottino. Nel frattempo i Veneti battevano con le bombarde le mura di Verona e distruggevano gran parte del castello detto di san Felice. Erano vicini ad impadronirsi in breve della città nella quale stavano molti comandanti francesi con le loro truppe quando, liberati dalla paura degli Svizzeri, [i Francesi] spinti dal medesimo impeto di vittoria, si avviarono a Verona.

I Veronesi, rianimati dalla speranza dell'aiuto che stava arrivando, uscirono segretamente di notte e vennero alle mani con alcuni ed in questa battaglia Citolo perugino rimase ucciso o per opera un nemico, oppure, come qualcuno riportò, di un nemico nell'esercito veneto. Mosso da tale notizia, Lattanzio Bongo, capitano dell'artiglieria, accorse per portare aiuto ad un uomo coraggioso ed a lui molto amico, e cadde, colpito alla coscia da un colpo di spingarda; morì pochi giorni dopo a Padova, dove era stato portato per curarsi.

I Veneti sapevano che stavano arrivando truppe francesi cui sarebbero stati impari, si ritirarono dall'assedio nel cuore della notte e si rifugiarono al sicuro. Carlo d'Amboise era appena arrivato ai confini del Veronese quando apprese che l'esercito pontificio si era impadronito di Modena, consegnata dai Rangoni che erano tra i primi della città, e avanzando, stava tentando di occupare Reggio. In Liguria era comparso Marco Antonio Colonna presso ... con un esercito non disprezzabile e voleva andare a Genova, come si poteva anche dedurre da certe navi che si diceva si stessero avvicinando al porto. Egli stesso allora [Carlo], guidando l'esercito attraverso il mantovano, si portò a Reggio per prestare aiuto a Galeazzo Pallavicini che si era rifugiato entro le mura della città di Riberia (?). Comandò anche a Rochebertino, capitano francese della fanteria, che agiva sul piacentino, che con alcune truppe scelte di fanteria superasse le Alpi e si congiungesse con i Genovesi, che preparavano le armi per resistere ai preparativi del Pontefice. A loro si aggiunse un'ingente reparto di Milanesi armati che Iafredo, vicecancelliere di Carlo, milanese, aveva armato. Essi si riunirono piuttosto disordinatamente in un solo esercito. Marco Antonio Colonna, che in città non aveva sentito di alcun movimento, temendo anche di venire assalito dai Fiorentini, uccise i cavalli e salì sulle navi con i suoi federati.

Carlo d'Amboise si fermò in un primo tempo a Reggio, fino a che poteva conservare il suo esercito. Il maresciallo Triulzio invece si portò in Francia per assistere al battesimo di un figlio del re che era prossimo, anche se si sospettò che fosse stato chiamato in Francia per coprire il fatto di esservi relegato, oppure perché la sua fedeltà era sospetta al re, o perché il suo valore era inviso a Carlo, dal momento che a lui era stato attribuito tutto il merito di una campagna ben condotta.

Gli Svizzeri si erano appena ritirati che gli oratori nostri inviati, Ludovico Suardi e Clemente Vertova giureconsulto, arrivarono a Milano. Essi approfittarono della passata irruzione degli Svizzeri e cominciarono a darsi da fare per relegare i cittadini di parte guelfa che si dicevano partigiani dei Veneti, soprattutto mediante l'intervento di Antonio Maria Pallavicino, governatore di Bergamo e capo della fazione ghibellina, al cui cenno Carlo tutto faceva. Essi agirono perché fossero mandati a Bergamo almeno cinquecento fanti, da distribuire nelle case dei guelfi. Abbisognando i fanti di più comodo, fecero una lista di persone da proscrivere ma, quando il loro numero non fu accettato (erano infatti quaranta) essi furono ricondotti al numero degli apostoli, li firmò e li diede al Pallavicino partendo da Milano.

Arrivato a Bergamo [il Pallavicino], comandò che si presentassero a lui ed al podestà Agostino Panigarola. Essi erano Leonardo Comenduno, Galeazzo Colombo, Paolo Zanchi, Pietro Assonica, il giureconsulto Ludovico Rota, David da Brembate, Andrea del Passo, Andrea da Calepio, Giorgio Benaglio, Federico Rivola, Salvo Lupi e Nicolò della Torre. Forse pentito di aver convocato allo stesso modo altri delle due fazioni, ciarlò a vanvera alcune affanias senili, ma non fu tuttavia in grado di nascondere a lungo tale scelleratezza perché alla fine, interpellato da alcuni dei proscritti e da me tra gli altri, non negò che la proscrizione fosse stata decretata, ma promise che si sarebbe dato da fare per calcellarla. Il risultato di tale inconsulta citazione fu che per opera di Gerolamo Figino, cui il chiarissimo Giovanni Agostino della Torre, tra i primi medici italiani, prestava le cure, fosse cancellato dal numero dei proscritti Nicolò suo figlio e fosse messo in luogo di lui Troilo Lupi. Infatti, il Pallavicino tutto concedeva al Figino.

Il Pallavicino non aveva ancora lasciato i confini del nostro territorio per andare a Salò, ed ecco che il primo ottobre 1510 furono di nuovo presi e fu comandato a noi dodici, in pena della confisca dei beni, di lasciare la patria entro quattro giorni e poi entro altri dodici giorni di raggiungere Grenoble, Vienne o Valenza, luoghi del Delfinato che erano quelli a noi assegnati, facendo fede del nostro arrivo per iscritto entro altri dodici giorni.

Per caso, tutti tranne Leonardo, Giorgio, Ludovico ed io stesso, avevano lasciato la città. Costernati, privi di ogni consiglio e rattristati, invano lamentavamo le condizioni dei tempi e la fortuna nostra. Venne Galeazzo Vertova a consolarci e lo pregammo di interessarsi presso il governatore per impetrare da lui un qualche aiuto. Alacremente, prese su di sé l'onere che gli veniva imposto e cercatolo a Salò, anche per l'aiuto del nostro concittadino Soccino Secco ottenne una sospensione di tre giorni, e con essa la speranza di una futura liberazione. Però, passati i tre giorni, lasciammo dolenti la città, anche se questa partenza arrecava a tutti grandi difficoltà: Paolo era gravato da una numerosa famiglia di bambini, Federico e Troilo non potevano vivere dell'introito dei loro beni immobili, Andrea del Passo e David Brembati erano vecchi e malati, Leonardo aveva sulle spalle molti figli ed una moglie giovane, Giorgio proprio allora, dopo dieci anni, aveva avuto figli dall'amatissima consorte, Ludovico aveva appena ottenuto il pieno possesso di una giovane moglie vergine. Tutti, insomma, ne avevano riportato gravi molestie. Qaunto a me, un solo e più legittimo dolore mi angustiava, perché lasciando la patria avrei abbandonato una moglie giovane e bella con il peso di otto figli impuberi che non avevano provento alcuno, per quanto piccolo, di beni immobili; ella sarebbe inoltre restata sola perché non aveva a Bergamo alcuno dei suoi, essendo padovana. Io non avevo quasi nessun parente e quelli che mi erano rimasti stavano lontani, perché i miei fratello e sorella erano a Venezia ed uno zio stava nella curia romana. Ed il dolore era ancor più grave perché quasi tutti gli amici più cari ai quali avrei potuto affidarla non invano, li vedevo invece andare esuli con me. In questo turbine di eventi il fato volle però che mia moglie con animo forte sostenesse l'indebito esilio del suo uomo e che il di lei fratello, che era inviso ai Veneti, si riparò da lei, egli stesso diventandole compagno.

Arrivati a Milano, David, Ludovico, Federico e Salvo decisero di continuare il viaggio e tirarono dalla loro parte gli altri, che non osavano contrastarne la volontà. Paolo ed io dicemmo chiaramente che intendevamo interrompere il viaggio, perché dovevamo badare ai nostri affari di famiglia. I primi persistettero nel loro proposito, ma noi ci consultammo con alcuni dei nostri migliori amici e decidemmo di non valicare i monti, prima di incontrarci con Carlo d'Amboise, che si diceva operasse in quel periodo a Parma o a Reggio. Allora partimmo ed arrivammo al borgo di san Donnino, castello parmigiano che era feudo dei Pallavicini, dove trovammo Ottaviano Pallavicini che ci informò come Carlo stava nel ferrarese ed il giorno seguente avrebbe incontrato a Cremona suo fratello Antonio Maria. Cambiammo parere, per non essere magari accusati di aver abbandonato fuggendo il territorio del re, decidemo di andare a Cremona ed arrivammo a Busseto. Incontrammo il concittadino Geronimo che tornava dal campo, dove si era recato a nome nostro, e da lui sapemmo che per i prossimi quindici giorni potevamo restare a Milano e che lì il Pallavicino ci avrebbe atteso e sarebbe stato disposto a dare seguito alle nostre richieste.

Soccino Secco, che si era recato al campo, aveva provveduto a far eleggere il giureconsulto Scipione Suardi come avvocato fiscale ed ancora Battista Suardi come regio auditore. Egli trasmise a Bergamo a Galeazzo Vertova mediante un messaggero a ciò destinato le lettere della nostra sospensiva e Galeazzo, venuto subito a Milano, trovò che gli altri, non abbastanza fiduciosi nelle promesse, erano invece partiti. Inseguendoli celermente con un messo, li richiamò perché si presentassero ad un certo tempo.

Sostammo invano per due giorni a Cremona e tornammo a Milano il giorno in cui il Pallavicino e Soccino vi giungevano per altra via. Molti di noi erano stati presi dalla speranza che attraverso gli amici potessimo impetrare dal Pallavicino il ritorno in patria. Anch'egli, mosso dai sediziosi e dall'avidità di denaro, sperava di fare di questo oggetto di scambio. Avvicinato, ascoltò con orecchio sordo le preghiere di tutti. Quando si passò dalle preci al prezzo, Andrea Calepio e Giorgio Benaglio, versando cento ducati ciascuno, ottennero il confino a Milano. Lo stesso fu per Andrea del Passo, a condizioni che non conosco, e per me stesso, che non pagai. Gli altri furono assegnati ad Alessandria oppure ad Asti, a loro scelta. David e gli altri, che si erano già sistemati a Grenoble potevano, entro un certo tempo loro stabilito, tornare agli stessi luoghi. Ritornarono, ed avendo trovato che gli altri erano andati ad Asti, preferirono recarsi ad Alessandria.

Galeaz Vertova, che era stato mediatore per il Calepio ed il Benaglio, ma che senza Soccino nulla faceva, ci aveva promesso - a noi che eravano ritenuti a Milano - che entro ostendium al massimo saremmo stati restituiti alla patria. Avevamo atteso questo per alcuni giorni invano quando, deposte le vesti solite, indossai la sua toga e dietro pressione del chiarissimo senatore Giovan Enrico Pecchio e del di lui fratello Giovan Antonio e sotto gli auspici di Ambrogio Fiorenza, avvocato tra i migliori della città, cominciai a discutere cause in Senato. Così, mi fu favorevole una sorte peraltro iniqua, giacché da questo trassi il vitto secondo la mia qualità ed anche un piccolo guadagno.

Nel frattempo i Francesi avevano accresciuto l'esercito ed Alessandro, insieme con gli altri figli di Giovanni Bentivoglio, che in precedenza il Pontefice Giulio aveva espulso da Bologna con il loro padre, fidando sugli aiuti dei Francesi, occupavano la città come tiranni ed avevano chiamato a sé nell'agro bolognese molti a loro favorevoli. La città tumultuava da ogni parte. Non per questo si intimorì il Pontefice Giulio dal coraggio invitto che, mentre stava sicuro a Roma, decise di recarsi a Bologna per rafforzare i cuori del popolo che dubitava. Comandò quindi a tutti i cardinali di seguire la curia ma siccome si fidava poco dei cardinali francesi, ordinò di rinchiudere il cardinale narbonense nel castel Sant'Angelo, poiché si diceva che si preparasse a fuggire, e pretese da alcuni di loro delle cauzioni fideiussorie. Il cardinale albinense, che era fratello di Carlo d'Amboise, volle che viaggiasse con lui, ma la sua immatura morte (morì infatti ad Ancona quando già avevano lasciato la città perché il Pontefice era andato a visitare il sacello di Santa Maria di Loreto) diede motivo ad alcuni di sospettare che avesse incontrato la morte per la violenza del veleno.

Questo fatto atterrì soprattutto i cardinali favorevoli alla Francia, che si stavano recando a Bologna per altre strade. E così Federico Sanseverino, italiano, ed i cardinali francesi di Bayona e Samalò, che viaggiavano per la via dell'Umbria, sviarono e si diressero attraverso la Toscana a Firenze. Sulle orme di costoro il cardinale spagnolo di Santa Croce, che aveva garantito per loro, li seguì, insieme con il cardinale spagnolo cosentino. Essi poi lasciarono Firenze e attraverso il territorio di Lucca arrivarono nell'agro parmense e poi raggiunsero Pavia ed infine Milano.

Il Pontefice arrivò a Bologna e chiese ai Veneti degli aiuti, che gli furono concessi ed ai quali fu messo come provveditore Paolo Capello. Si adoperò anche con il re di Spagna perché gli fossero dati cinquecento uomini d'arme per la difesa ed il recupero delle città della Chiesa. Egli poi confidando sul regno di qua di Sicilia che finora dalla composizione avvenuta con il re francese senza il permesso del Pontefice romano aveva ottenuto ed era stato solennemente investito, né si poteva per questo accusare il re spagnolo di essere fedifrago perché nulla aveva tramato contro lo stato del re di Francia, anche se era chiaro a tutti che gli altri principi cui era sospetta la potenza del re dei Francesi, facilmente si convincevano a reprimere gli sforzi dei Francesi (?).

Nell'attesa dei soldati spagnoli, crescevano tanto i Francesi e tanto si accentuavano i moti dei Bentivoglio, che fu necessario all'esercito pontificio di retrocedere. Perché Modena non cadesse nelle mani dei nemici che la premevano, si adoperò con Massimiliano perché si riprendesse quella città che gli era giuridicamente dovuta, anche se, contro la legge, gli estensi l'avevano occupata. In questo modo, concessa Modena al re dei Romani, l'esercito di Giulio indietreggiò. Vi furono opinioni diverse: alcuni dissero che Modena era stata occupata da Massimiliano in spregio di re Ludovico; tuttavia, i Francesi non portarono molestia alcuna ai Modenesi ma, seguendo le milizie ostili, si approssimavano già a Bologna. Già la cavalleria leggera si avvicinava alle porte ed ai fanti dei Bentivogli, tanto che dalle mura si potevano udire le voci di chi parlava. Il Pontefice Giulio aveva come legato a Bologna il cardinale papiense e lo aveva posto anche a capo dell'esercito; costui era crudele per natura e si era rivolto contro molti che favorivano i Bentivogli. Come sempre avviene, per andare contro un solo nemico, se ne era fatti molti ed essi, ricordandosi delle ingiurie - approfittando anche della cattiva salute dello stesso Pontefice, che una voce aveva addirittura dato per morto - tentavano di tessere molte trame.

L'opinione dei cardinali e di tutta la curia era favorevole a lasciare Bologna ed a pensare a sé stessi. Il Pontefice invece era coraggioso ed indomito, anche se ancora pallido per la recente malattia e magro e con la barba. Egli da un'alta tribuna che dominava il foro pubblico, comandò al popolo di presentarsi. Da lì egli stesso rincuorò i Bolognesi a stare di buon animo e fece loro molte concessioni, molte altre ne promise e li mandò fieri e gioiosi alla difesa delle mura. Avendo poi appreso che i soldati spagnoli al comando di Fabrizio Colonna si stavano avvicinando, persuase gli ambasciatori di Massimiliano, del re di Spagna, d'Inghilterra e d'Ungheria ad uscire incontro a Carlo che stava arrivando con il suo esercito vincitore, a distoglierlo dal procedere ed a discutere con lui di una pace da firmare tra loro. Gli ambasciatori non si sottrassero al desiderio del Pontefice, si recarono all'accampamento a nome dei loro re, lo trattennero dal portare le armi contro il Pontefice e dissero che avrebbe dovuto accontentarsi se difendevano Ferrara, che l'Estense poteva conservare se si dimostrava pronto ad una pace a condizioni giuste. Carlo, che non conosceva abbastanza le furberie del Pontefice, accettò le condizioni della pace e si fermò, in attesa che il re gli ordinasse di procedere. Intanto giunsero i rinforzi degli spagnoli ed il Pontefice rallegrandosi pensava non già alla pace, ma a mettere in fuga i nemici.

Già strideva l'orrido aquilone e si avvicinava pigro l'inverno, che fu il più freddo di tutti quelli che la memoria degli uomini ricordasse. Fu tanto freddo, che le schiere francesi non volevano passare le lunghe notti allo scoperto, con le nevi che stavano arrivando e che in quell'anno furono molto più alte del solito così da superare in molti luoghi l'altezza di un uomo. Ancora più insolito fu il fatto che la neve fu altissima in pianura e più bassa sui gioghi e sui monti, il che faceva presagire che sarebbe arrivata per tutti una grande rovina. Carlo radunò quindi l'esercito ai quartieri invernali nei territori parmense, aretino a ferrarese.

I cardinali, che avevano lasciato il Pontefice e stavano a Milano, ebbero l'idea di chiamare subito il Concilio che, contando sui presidii dell'Imperatore e del cristianissimo re, non dubitavano di convocare. Al Concilio aspirava tuttavia tra tutti il cardinale di Santa Croce, il quale confidava nella fama delle lettere e nei meriti della sua vita passata e non dubitava di salire alla somma posizione. Una sola cosa si opponeva però al loro desiderio, e cioè, che era necessario che la minoranza convocasse la maggioranza. Furono consultati i lettori dello studio Ticinese e tra essi i due più valenti, Filippo Decio, uomo di grandissima autorità presso i canonisti, e Gerolamo Bottigella, i quali dettero i loro pareri. Con essi affermavano che la minoranza dei cardinali, senza la partecipazione del Pontefice, poteva convocare il Concilio, soprattutto in vista del fatto che il Pontefice, quando era stato elevato al Papato, aveva attestato con giuramento, corroborato da un voto, che entro un biennio avrebbe convocato il Concilio, e questo termine era ormai trascorso.

A Milano arrivarono anche Ludovico Faella veronese, Gerolamo Nogarola vicentino e Antonio Capovacca padovano (tutti questi erano stati ribelli dei Veneti) i quali, in qualità di ambasciatori di Massimiliano, parteciparono all'indizione del Concilio. Per non contravvenire al numero minimo dei cardinali, finsero che anche altri fossero del loro parere, dopo averli citati nelle frome opportune, ma l'effetto di questa citazione rese chiaro che essi erano stati falsamente aggiunti, il che essi attestarono apertamente e pubblicamente. Costoro furono il cardinale ferrarese Adriano, fratello del duca ed il cardinale De Finali e ...; come sede del Concilio fu scelta la città di Pisa e come giorno il primo di settembre.

Il Papa intanto, sfidando il freddo impossibile, tra le nevi ed il gelo, aveva fatto uscire l'esercito per assediare Ferrara, ma prima decise di espugnare Mirandola. Mirandola era un luogo molto protetto da mura, da una fossa e da altre difese, che di recente Galeotto Pico aveva dato ogni opera per munire e tale opera era stata continuata con maggior cura da Ludovico, che aveva allontanato il fratello Giovan Francesco, usurpando per sé il dominio. Come ho detto sopra, egli era tuttavia morto presso il Po, colpito da un cannone mentre militava per il Papa, lasciando la moglie, che era figlia di Giovan Giacomo Triulzio, con un figlio. Ella comandava quel luogo all'arbitrio del padre. Non potendo quindi il Pontefice trarre a sé gli abitanti, accettò Giovan Francesco e pose l'assedio a Mirandola, dopo aver preso il villaggio di Concordia. Passarono molti giorni di assedio ma, essendo gelati i fossati per la temperatura cosicché tutti potevano attraversarli, il Pontefice accettò la dedizione degli abitanti. Ciò che fu più mirabile in questa spedizione fu il vedere Giulio, Pontefice massimo settuagenario appena convalescente, sopportare il gelo intollerabile, calcare le nevi e non soltanto animare, ma incalzare i soldati, spingendo a forza coloro che non poteva convincere con la voce. E' più che certo che senza il Pontefice Mirandola non sarebbe stata presa.

Il Pontefice vincitore, entrato nella fortezza, reistaurò Giovan Francesco. Poi si portò a Bologna, nell'attesa di ricostituire l'esercito che aveva deciso di condurre contro Ferrara. Sarebbe stato facile per lui realizzare questo desiderio, ma arrivò Giovan Giacomo Triulzio, che era pervaso a un giusto dolore per la cacciata della figlia e del nipote. Il Triulzio aveva spinto i comandanti francesi chiusi in Reggio ad uscire, ricordando loro l'età, l'autorità e le opere del Pontefice. Non si cessava intanto di discutere un trattato di pace. Era anche arrivato il vescovo di Parigi in qualità di regio legato, il quale doveva incontrarsi a Mantova con il curzense, oratore di Massimiliano ed uomo di somma autorità. A Mantova si diceva che fosse anche destinato Achille de Grassis, auditore della Rota.

Allontanandosi da Milano, il cardinale di Parigi aveva con sé due uomini milanesi di sommo ingegno, Gerolamo Moroni, senatore regio, e Ambrogio Fiorentino, avvocato in città: del primo di questi si diceva che era facilmente in grado di consigliare su qualsiasi cosa. A Mantova si discusse del modo di comporre le cose in Italia, ma essi partirono senza accordo, perché il Pontefice aveva ricusato le condizioni offerte, che tuttavia molti ritenevano eque. Il Pontefice creò dieci cardinali e tra essi vi fu anche il vescovo sedunense, che era di somma autorità e potenza tra gli svizzeri, ed il vescono curzense, oratore di Massimiliano. Ciò creò in tutti un grandissimo sospetto, che fu tuttavia fugato quando il curzense rifiutò la dignità offertagli, ma rinnovò il trattato di pace. Il cardinale di Parigi arrivò a Modena, ma, frustrato nella sua speranza, ritornò a Milano.

Intanto l'attivissimo Triulzio aveva portato in campo le truppe ed occupato Concordia, un villaggio presso Mirandola. Anche il duca ferrarese, uscito di notte con tutte le sue fanterie, si portò rapidamente a Bastia, che i nemici avevano invaso (ma la distanza era tale che essi si ritenevano sicuri e nulla temevano da lui). Aggredì gli incauti, li vinse e li fugò, catturandone molti ed uccidendone parecchi. Il luogo di Bastia è situato sulle rive del Po e difeso in modo da non avere alcun accesso, se non da una fortificazione che, soprattutto a chi naviga sul Po è del massimo aiuto e può ostacolare le navi che vanno da Ferrara verso Ravenna.

Quando il Triulzio cominciò a far uscire l'esercito, Carlo, che aveva celebrato a Milano la festa di quaresima appena passata, si ammalò a Reggio e, mentre correvano su di lui notizie diverse e si annunciava una migliore speranza per la sua vita, morì. La sua salma fu portata prima a Milano e poi in Francia. A Milano furono celebrate le esequie rituali nella medesima chiesa cattedrale che egli stesso poco prima aveva conservato per i solenni sacrifici funebri di suo zio, il cardinale rothomagense.

Dopo la morte di Carlo, continuai ad adoperarmi da un esilio indebito ed impetrai lettere commendatizie dall'ill.mo Triulzioo al Senato, con le quali egli affermava di aver discusso di noi con il re, il quale avrebbe riferito la causa al Senato per una decisione. Primo tra tutti, avvicinai Iafredo, luogotenente di Carlo, cancelliere del Senato di Milano e del vescovo di Parigi. Egli benignamente mi ascoltò e, dopo avermi udito mi confortò nella massima speranza; negò tuttavia che egli si sarebbe occupato della causa fino a quando le esequie di Carlo fossero stata concluse ed il vescono di Parigi, che era in quel momento assente, fosse ritornato. Quando la causa fu introdotta in pieno Senato alla presenza del vescovo di Parigi, io fui ascoltato e tutti furono d'accordo per la nostra liberazione.

Soltanto Leo Belloni, senatore francese, che in precedenza era andato a Bergamo per ordine di Carlo d'Amboise perché fosse detenuto Francesco Donatoni - era costui un giovane di ingegno vivace, nato da povera famiglia, che era andato a Venezia per trattare certi patti, perché si diceva che avesse ferito un certo Gasto, castellano della rocca di Bergamo e da lì, patteggiate con un voto le cose, era ritornato - e se qualcuno fosse stato trovato a conoscenza ed in complicità per tale crimine fosse punito ed aveva fatto carcerare Salvo Lupi, imputato di certe efferatezze dalle quali infine, dopo il pagamento di mille scudi, era stato assolto dallo stesso Carlo. [Il Belloni] si lamentava di non aver ricevuto il pagamento delle diarie per il tempo in cui aveva soggiornato a Bergamo. Salvo, pur richiesto diverse volte, ricusava di pagare tali diarie, sia perché era avaro di natura, sia perché era consigliato dallo suocero Battistino Rota, egli stesso avarissimo. [Il Belloni] dichiarò falsamente che lo stesso Salvo era reo del crimine di lesa maestà e non poteva essere assolto.

Accadde quindi che, ignorando questo tutti i senatori ed io stesso che ero patrocinatore, piacque al Senato che tutti gli altri fossero liberati e che Salvo restasse a Milano fino a quando, esaminato il processo, si decidesse diversamente. Alla fine, non gli giovò né pagare la diaria con gli interessi, né mostrare la sentenza della sua assoluzione: infatti, fu costretto a rimanere a Milano per altri sei mesi. Noi invece, restituiti alla patria, celebrammo con i nostri cari le feste pasquali, eccetto il Passo, che aveva concluso una trattativa con il Pallavicino quando Carlo era ancora in vita, e aveva preso le ceneri secondo il rito cristiano nella sua patria. Io stabilii invece di continuare ad abitare a Milano, dove mi ero trasferito, perché l'inverno mi aveva portato miglior fortuna.

Molte cose di grande importanza erano anche accadute nella patria del Fiuli. Infatti, essendo provveditore dei militari che difendevano la patria Gian Paolo Gradenigo, i Tedeschi aggredirono la città di Belluno. Egli accorse per portare aiuto e fece uscire da Udine tutti gli uomini che poteva armare. Ma inconsultamente, perché fu vinto e messo in fuga, fornendo il miglior pretesto per riprendere la patria se essi l'avessero sfruttata ed i Bellunesi, che senza difficoltà avrebbero potuto respingere i tentativi del Tedeschi, quando videro che stavano arrivando le truppe in rotta, atterriti, si consegnarono volontariamente.

Si avvicinava la lieta festa di Dio che si suole chiamare giovedì untuoso. Due fazioni che prendevano il nome dalle famiglie più potenti sembravano venire alle mani: una era quella dei Savorgnan, alla quale appartenevano tutti i plebei ed aveva pertanto grande autorità nella terra di Udine; l'altra era quella dei Torriani, cui appartenevano tutti i feudatari della patria, che erano numerosi. Alvise Gradenigo temeva quindi che una tale sedizione avrebbe portato grandissima iattura alla causa dei Veneti e si adopeò con ogni modo e sforzo e procurò che riponessero le armi e facessero pace. I Savorgnan, tuttavia, nacti dei Torriani per la sicurezza che avevano concepito dalla fedeltà ai patti (?), usciti alle prime luci dell'alba con l'intento di aggredirli, raccolsero un gran numero di contadini e plebei. Tornati verso l'ora di pranzo, aggredirono i Torriani, i cui capi stavano a pranzo in casa di Aloisio della Torre, accusandoli di essere alleati dei Tedeschi e di cospirare a svantaggio loro e dello stato veneto. Deiectis foribus, uccisero inutilmente tutti quelli che ritenevano contro di loro e poi festanti invasero tutta la città, fecero uscire molti dai luoghi dove si erano nascosti e crudelissimamente li ammazzarono. Antonio Savorgnan, autore di questo nefando crimine, fu il più perfido di tutti, mentre suo fratello Gerolamo fu creduto innocente.

Tre di questi nobili si erano nascosti presso un uomo illustre della loro fazione e costui non poteva essere convinto nè con le minacce né con le preghiere a consegnarli; egli negava strenuamente che fossero presso di lui, né osasse usare la forza che il popolo teneva, se rivolgesse le armi contro i suoi (?). [Antonio] gli parlò carezzevolmente e cominciò col dire che era inutile che egli negasse di sapere: egli poteva, se voleva, ottimamente meritare di lui, degli stessi nobili ed infine della patria e dello stato veneto. Egli infatti, che null'altro desiderava se non che gli stessi nobili si vincolassero da alcun perpetuo beneficio (?), avrebbe concesso loro non soltanto il perdono, ma tutto quanto chiedevano. Egli ambiva ad una cosa sola: che, deposti gli odi del passato, cominciassero a volersi bene, né oltre memori delle ingiurie, tutti si chiamassero con un solo nome comune ed, abbandonate le fazioni, facessero un corpo solo, a sollievo della patria, a vantaggio dei principi e per la loro stessa gioia.

Commosso dal discorso di Antonio, che costui confermava giurando, nella speranza che ciò che aveva detto si sarebbe realizzato, che rasserenati gli animi, la pace tornasse alla patria sua, fece uscire i miseri dai nascondigli. Essi caddero alle ginocchia di Antonio e lo scongiurarono della vita. Antonio la promise loro e promise anche molto altro; li esortò a stare di buon animo. Ma poiché il popolo era in armi ed il furore non si poteva facilmente domare, li consigliò di attendere chiusi in casa la notte che stava arrivando. Protetti dalla sua ombra, fidando nella sorte che egli aveva promesso, si sarebbero poi rifugiati al sicuro. Rincuorati i nobili da questa insperata disponibilità di Antonio ed usciti da ugni timore, attendevano la notte.

Ma Antonio, spinto dagli stimoli dell'odio, oppure, come qualcuno disse, dietro suggerimento del figlio e di altri faziosi, appena giunse la notte fece entrare alcuni dei suoi, dei quali era solito servirsi per ogni nefandezza, e comandò loro di decapitare gli stessi nobili. Costoro riconobbero la voce dei carnefici e si nascosero di nuovo; furono portati fuori dalla forza pubblica, pregando Dio e la fede degli uomini; furono cacciati dalla casa e sulla soglia furono decapitati. Si infierì anche contro tutti i Torriani, senza riguardo alcuno per l'età o il sesso. Quando Antonio fu chiamato per questo a Venezia, fu punito con la sola detenzione, ed anche quella presso i Veneti. Per scontare il delitto egli dovette far migliore (?) abisando dell'eccessiva facilità dei principi, alla fine proruppe in una tale follia che consegnò l'intera patria a Massimiliano, compensando l'ingiustizia dei Veneti con pari ingratitudine, come dirò più avanti.

Intanto, dopo la morte di Carlo, i comandanti francesi si riunirono e trasferirono il comando generale al Triulzioo, fino a quando il re decidesse diversamente. Egli mosse il campo e si avvicinò all'esercito pontificio, che era numeroso e bene armato. Sebbene sarebbe stato facile, se fosse stato retto da un comandante prudente, che l'esercito riuscisse vincitore, esso era invece comandato da un cardinal legato troppo poco pratico delle armi. Lo comandava anche il duca di Urbino, giovane nipote del Pontefice per parte di un fratello. Di recente egli era stato promosso dal defunto suo zio Valentino Borgia dal comando di Senigallia al ducato di Urbino, per conto della curia romana.

Fabrizio Colonna comandava invece le truppe spagnole; egli era uomo di grande autorità e rinomanza nelle armi ed aveva avuto qualche rancore nei confronti del duca di Urbino. Egli diceva infatti che lo stesso ducato gli spettava per un suo diritto ereditario, perché discendeva dalla sorella di Guidone Ferretano, che era già stato duca, essendosi esaurita la linea di successione maschile; allo stesso modo il duca di Senigallia discendeva da un'altra sorella.

Date le discordie dell'esercito pontificio, era facilissimo per il Triulzioo, molto anziano nelle armi e non inferiore ad alcuno dei comandanti, rovesciare ogni decisione degli avversari. Vi era anche un'altra difficoltà, cioè che i soldati spagnoli dicevano che che il tempo per cui essi pepigerant che avrebbero militato per il Pontefice era scaduto ed essi si preparavano domnitionem. Quando, giorno dopo giorno, il Triulzioo, sempre più li premeva, essi furono obbligati a retrocedere e mentre si ritiravano sempre più tallonati da lui fecero copiam bellandi. Poiché tuttavia stavano in un luogo abbastanza munito oppure perché credeva più prudente non affidarsi del tutto alla fortuna, il Triulzioo decretò la battaglia, ma accampatosi vicino a loro che soffrivano (?) la scarsità di cibo proibì di fermarsi.

Intanto i Bentivogli suscitavano a Bologna e nel territorio grandissimi tumulti, ai quali partecipavano anche molti della nobiltà bolognese che il cardinal legato, persona crudele, aveva reso nemici del Pontefice perché ne aveva ucciso molti per ragioni abbastanza futili. Già lo spagnolo Fabrizio aveva raccolto le truppe per andare in Campania; già i soldati pontifici si erano assestati presso il Reno sotto le stesse mura di Bologna ed il cardinal legato era entrato in città per incitare gli animi dei cittadini e li agitava; già il Pontefice aveva disposto i presidi che si credevano molto solidi a difesa della città, e, affinchè una città popolosa e che doveva nutrire un grande esercito non fosse provata dalla mancanza di cibo, si era portato ad Imola; già sembrava che fosse stato disposto tutto quanto poteva tener lontano l'assalto dei nemici e dare impulso a ciò che si era disposto; quand'ecco che i Francesi si avvicinano, i cittadini prendono le armi e decidono di consegnare la città ai Bentivogli, piuttosto che al re francese.

Nel cuor della notte, presa una porta all'esercito, inviarono degli ambasciatori per chiamare chi prendesse la città. Gli uomini d'arme del Pontefice, senza che nessuno li attaccasse o li consigliasse e senza nemmeno che alcuno lo credesse, furono sbaragliati e posti in fuga e per vie diverse andarono verso Imola ed altri luoghi dell'Emilia e della Flaminia. In tal modo offrirono ai contadini nelle cui mani cadevano una insperata preda. La fanteria invece, uscita verso i monti per una via più breve, fu quasi tutta spogliata dai Bentivogli, dei quali i montanari erano grandi alleati, e fu fatta a pezzi. Soltanto Paolo Capello, comandante delle truppe venete, che aveva già previsto quanto sarebbe successo ed aveva quindi mantenuto i suoi sotto le bandiere ed all'armi, non sopportando di sciogliere i ranghi, per una via diretta si stabilì nel territorio di Imola e poi a tappe forzate si portò a Ravenna, dove era arrivato anche il Pontefice. Ivi caricò l'esercito sulle navi e le barche che i Veneti avevano mandato in gran fretta, e si rifugiò al sicuro.

La notte stessa invece, i Bolognesi fecero entrare in città Nicolò, l'unico figlio del Triulzioo, in rappresentanza del re francese. Egli tuttavia finse di entrare a nome del Concilio generale ed a nome dei Bentivogli, come se dovesse prendere possesso dei seguaci della Chiesa. Ma alla prima mossa dei cittadini, il cardinale papiense, che non si fidava per nulla della città, abbandonati tutti i bagagli che erano di valore, pensò alla sua vita con la fuga e tutti gli altri ecclesiastici tentarono di fuggire. Tuttavia ... cardinale di Albreto e fratello del re di Navarra, fu catturato. Egli era in disaccordo con il re francese ed era stato male trattato da Gastone, signore di Foix, che era di stirpe reale ed abbastanza vicino allo stesso re ed aveva come zie le regine delle Gallie, sorelle delle spagnole (?). Asseriva egli quindi che il regno di Navarra gli spettava per diritto ereditario ed aveva inimicizie continue con quelli. Tuttavia in seguito, condotto il cardinale a Milano ed approvando costui le deliberazioni del Concilio, fu restituito alla libertà.

I Bolognesi al primo sorgere del sole, animatisi a vicenda, aggredirono il castello che Giulio, a prezzo di enormi spese, con ogni cura e con architetti fatti venire da ogni parte, aveva costruito agguerritissimo per punire le indomite cervici dei bolognesi. Li comandava N. Vitellio da Tiferno [Città di Castello], protonotario apostolico, uomo ritenuto di animo coraggioso e forte. Il quale tuttavia, o per la scarsità del cibo, o perché non si fidava dei suoi soldati, senza colpo ferire, consegnò il castello, che fu immediatamente distrutto fino alle fondamenta, infierendo contro tutti quanti si ritenevano favorevoli alla fazione del Pontefice.

Introdotti così i Bentivogli, il Pontefice si ritirò a Ravenna, mentre il duca di Urbino, per la cui età ed impreparazione l'esercito pontificio era stato sconfitto e fugato, quasi per diluire le sue responsabilità con un misfatto anche maggiore, assalì e ferì il cardinale papiense che ivi si era rifugiato in fuga. Impedì anche che a lui, mezzo morto e caduto nel fango, qualcuno prestasse aiuto, o almeno gli desse il perdono dei suoi peccati secondo il rito cristiano; disse che la causa di una morte così atroce era dovuta ai di lui maneggi con i Francesi, il che gli fu anche comunemente attribuito, dal momento che tutti dicevano che fosse affezionatissimo al re francese.

Riuscì facilissimo al Triulzio ed ai capitani francesi...