Fedeli alla Chiesa o allo Stato?
Documenti sul comportamento dei Bergamaschi
durante l'Interdetto di Paolo V (1606-1607)
Relazione di Pier Maria Soglian; Bergamo, Biblioteca Civica "A. Mai", 25 Novembre 2006


La mia ricerca sull'impatto dell'Interdetto a Bergamo si è svolta sinora su documenti delle due potenze in lotta, in cui Bergamo viene rappresentata da altri, come uno, e non dei più importanti, territori coinvolti: non vi appaiono espressioni proprie e dirette dei Bergamaschi, salvo rarissimi casi; vi appaiono bensì molti soggetti bergamaschi nei loro comportamenti - che cercherò di descrivere - ma sempre con la riserva della conferma o almeno della verisimiglianza risultante dal confronto tra i documenti stessi.
Proporrò pertanto anzitutto tre documenti, di cui due inediti conservati nella civica "A. Mai"; due di essi offrono un giudizio esplicitamente espresso da due intellettuali bergamaschi; il terzo è una lettera anonima indirizzata a Paolo Sarpi, che presumiamo circolasse a Bergamo, e perciò verrà trattata più avanti, nel contesto della propaganda delle due potenze.
  1. dalla "Historia universale" attribuita ad Antonio Gargani (1646), manoscritta (uno stralcio iniziale è riportato in Appendice*)
  2. M. Publii Fontanae in Franciscum Joyosium cardinalem ob sedatos Italiae tumultos, elogium, ad illustrissimum Nicolaum Pizzamanum, Bergomi praetorem, Bergomi, typis Comini Venturae MDCVII
  3. lettera, anonima, a Paolo Sarpi, datata Napoli, 18 Agosto 1606, manoscritta, copia di primo '600
il primo rappresenta, nella sintesi necessaria per una storia "universale", il giudizio di un'intellettuale bergamasco, che visse all'epoca dei fatti, sulla vicenda dell'Interdetto: secondo la sua interpretazione Venezia volle caparbiamente resistere al Papa, con rischio di guerra guerreggiata, e solo grazie all'opera del cardinale di Joyeuse, per la volontà di mediazione di Enrico IV di Francia, si venne ad un accomodamento, con l'assoluzione di Venezia. A parte l'eventuale sospetto che appartenesse a quella parte, mai sopita, "ghibellina" del patriziato di provincia contraria a Venezia, pare ovvio che l'Autore nutrisse dubbi fin dall'epoca dei fatti e si esprima ora, a 40 anni di distanza (di guerre che toccarono o sfiorarono Venezia; di una peste catastrofica vista come punizione divina) libero di criticare e di rinnegare l'obbedienza prestata. Fin qui non è una posizione originale, visto che tra gli stessi protagonisti veneti della vicenda circolò presto il pentimento per la scelta fin'allora sostenuta; ciò spiegherebbe l'ardita conclusione sulle "sfortune" e il "declino" di Venezia causate dall'aver voluto offendere il Papa, ma l'Autore si spinge, facendo addirittura partire la storia "universale" dall'Interdetto del 1606, a chiamare a testimonio la coscienza popolare, una "vox populi" che fin d'allora si sarebbe pentita di aver offeso il Papa.
In una visione letteraria, apparentemente distaccata e neutrale, la "poesia d'occasione" del bergamasco Publio Fontana celebra, non le ragioni o la vittoria di uno dei contendenti, e nemmeno i loro nomi, ma i meriti del cardinale Joyeuse per aver "sedato i tumulti" cioè scongiurato la guerra guerreggiata, riconducendo i contendenti alle sagge mediazioni del buon governo: la vicinanza ai fatti produce quasi un canto di liberazione del suddito dal pericolo bellico indipendentemente dalle ragioni, ragion di stato - ragion di chiesa, tra le quali non si sa che scelta abbia fatto ma certamente che avrebbe preferito non dover scegliere. Va ricordato però che questo poeta, come d'altronde gli intellettuali per secoli, scrisse varie poesie d'occasione, tra cui alcune come questa, dedicate a personaggi politici: in condizioni normali ai Rettori nel loro avvento o nella loro partenza, con cui, sotto involute forme latine, si voleva rappresentare il sentimento, la stima, la volontà dei cittadini ed influenzare le scelte politiche ed amministrative; in questo caso eccezionale, stante che Venezia non aveva mai ufficialmente riconosciuto il valore della censura e pertanto non riconosceva il suo ritiro, proibendo di festeggiare l'avvenimento, questo era l'unico mezzo per rappresentare pubblicamente il pensiero della società bergamasca.
Presenterò in seguito il terzo documento, una delle copie di uno scritto propagandistico antiveneto, che, conservato nella nostra Biblioteca Civica testimonia della circolazione, in Bergamo, di "scritture" come queste all'epoca dell'Interdetto, confermando altri dati documentali.



Il tema ed il quadro complessivo

Qui ci si pone una domanda: in effetti fu chiesto ai sudditi di scegliere, fornendo loro le ragioni della scelta? Ha quindi senso la domanda se i bergamaschi, obbedirono come sudditi per definizione "fedeli" a Venezia, o come fedeli sacramentalmente "sudditi" del Papa? Sarebbe antistorico realizzare una sorta di moderno sondaggio a ritroso nel tempo: le domande moderne di una per quanto discutibile democrazia non troverebbero risposta in una società cetuale, fatta di "corpi" (patriziato, clero, militari, dottori, "innominata civiltà", arti e mestieri, territoriali, originari e foresti...) distinti tra loro per accesso alle cariche, privilegi giuridici e fiscali, oltre che per cultura, censo, regole di vita.
È però vero che ambedue le potenze, Papato e Stato veneto, ebbero cura non solo di chiedere specifiche risposte di obbedienza, ma di verificare in vario modo il grado di fedeltà dei sudditi: era importante, perchè la Chiesa, scomunicando il Doge ed il Senato, liberava i sudditi dall'obbedienza ed anzi li esortava esplicitamente alla ribellione; ogni occasione di repressione dei fedeli avrebbe potuto comportare un intervento militare; per parte sua Venezia considerava ogni atteggiamento dubbio come possibile tradimento o connivenza col nemico.
In questa situazione è ovviamente difficile trovare espressioni dirette del pensiero, delle scelte o anche solo dei dubbi da parte dei sudditi bergamaschi; le loro scelte si dovrebbero dedurre dai comportamenti, sui quali è costante il controllo dei Rettori veneti, degli appositi Inquisitori in Terra Ferma e quindi del Senato, del Consiglio dei Dieci. Di qui la valutazione, per così dire, ufficiale, di Paolo Sarpi, nella sua Historia dell'Interdetto: complessivamente i sudditi territoriali sono fedeli a Venezia, in base alle dichiarazioni ed alle risposte e promesse dei Consigli cittadini, da un lato, e dei Vescovi, e di conseguenza del clero secolare, dall'altro; i pochi casi di devianza sono facilmente controllati perseguiti e corretti dai Rettori locali; diverso è il caso del clero regolare, monastico, conventuale, anche perchè diretto da superiori esterni al territorio, oltre che costituiti talora di personale straniero, non suddito veneto; in questi casi si hanno espressioni di disobbedienza o provocazione, che il Sarpi individua anzitutto nei Gesuiti, Teatini e Cappuccini; la soluzione è bandirli dal territorio, cosa che avviene a Venezia, secondo il Sarpi, con grande sollievo del popolo. Già qui però si verificano dei distinguo: la provincia cappuccina d'Oltre Mincio, Brescia e Bergamo, si dimostra almeno in parte fedele e ciò si spiega, sempre secondo il Sarpi, perchè qui non sono insediati i Gesuiti, capaci di pilotare la ribellione anche presso gli altri ordini. Il Sarpi inoltre è cosciente della specificità delle realtà di confine, Bergamo, Brescia, Crema, come più esposte alle pressioni di parte papale, ma ritiene che esse siano sufficientemente difese dall'azione di controllo dei Rettori.
Su questa traccia si muove anche il racconto di Bortolo Belotti, rigorosamente ricavato, come sempre, dalla documentazione. Ne risulta confermato il seguente percorso: dalle dichiarazioni di fedeltà e di obbedienza a Venezia da parte del Vescovo e del Consiglio cittadino si procede al controllo delle provocazioni provenienti da Roma e dei comportamenti da parte dei curati e dei regolari, cui partecipano sia funzionari locali (commissari e consoli) che i padri superiori di alcuni conventi che il popolo, come gli "uomini di Zogno" o i terrazzani di val san Martino; il primo e più lampante caso di ribellione si verifica proprio in un monastero, quello vallombrosano di Astino, e viene bloccato da spie locali e si conclude con la carcerazione di un monaco, la fuga dell'abate e del priore, poi il sostanziale spopolamento del monastero. In seguito i padri superiori dei conventi in gran parte si dimostrano fedeli agli ordini di Venezia e solo in alcuni casi denunce private permettono di far rientrare atteggiamenti devianti, come l'ospitare frati stranieri entrati in incognito, travestiti; lo stesso Vescovo si dichiara obbediente a Venezia: non fugge e, a differenza di alcuni canonici e del suo stesso Vicario generale che dopo pochi mesi lo abbandonano; presiede accanto ai Rettori alle più importanti celebrazioni religiose pubbliche. I Rettori insomma trovano clero sia secolare che regolare disposto a celebrare e a predicare; nei pochi casi di fuga o bando anche a sostituire gli eventuali assenti, giustificati o meno.
I Bergamaschi laici (dai patrizi al popolo) in una prima fase contribuiscono a rifiutare gli ordini di Roma e frequentano le chiese e le messe; in una seconda fase, però, a partire già dalla fine di Agosto, a soli quattro mesi dal monitorio di papa Paolo V, i Rettori e l'Inquisitore in Terraferma denunciano un preoccupante raffreddamento: la frequenza alle celebrazioni pubbliche si fa più rara e meno convinta; seguirà un periodo di sforzi, spesso vani, di contrastare la propaganda di parte romana e la renitenza dei canonici del Duomo, di rafforzare la propaganda veneta trovando e istruendo predicatori e confessori disponibili a diffondere le ragioni della Repubblica e la fedeltà allo Stato; nel popolo non si verificano mai atti di aperta ribellione o manifestazione di dissenso, ma il raffreddamento patriottico diviene più esplicito nel momento in cui lo stesso Consiglio comunale, che all'inizio ha giurato fedeltà e l'ha voluta dimostrare offrendo a Venezia una compagnia di 50 corazze, dopo aver lavorato per armarle e scegliere un comandante, a Gennaio 1607 fa un passo indietro, dichiarando che l'offerta valeva solo in caso di guerra difensiva; lo stesso Vescovo riesce a resistere fino alla Pasqua del 1607, quando giustificherà sua assenza dalle celebrazioni per motivi di salute.

In questa ricostruzione sintetica si confermano le pagine scritte dal Belotti, ma non si spiega non dico il perchè, ma almeno il come, di questo progressivo voltafaccia, nè lo si giustifica all'interno di un percorso storico in cui, secondo tradizione, Bergamo, sarebbe stata coerentemente fedele a Venezia. Anzitutto bisognerebbe sempre definire Bergamo socialmente e politicamente, nella crescita e nella dialettica delle sue componenti, patriziato, clero, corporazioni,Valli, Uomini del Piano, poi, quanto a quest'epoca, in genere tra '500 e '600, andrebbero considerati il ruolo e l'influenza di Milano. A mio parere, quanto specificamente all'Interdetto, non è stato sufficientemente considerato il ruolo di Federigo Borromeo, al di là della sua specifica competenza ecclesiastica su una piccola fetta di territorio veneto: egli personalmente, e Milano come soggetto più complessivo, entrano nel gioco di una realtà di confine dai risvolti complessi, che Venezia considerava soprattutto dal punto di vista militare e, nelle condizioni normali, non di pericolo di guerra, da quello commerciale e daziario, assai meno da quello sociale e culturale, per cui la "politica" locale, di confine, poteva essere delegata al patriziato bergamasco, formalmente fedele, ma probabilmente molto più coinvolto in rapporti di buon vicinato o di interesse familiare ed economico e culturale con Milano, che la si consideri come classe di governo, come diocesi borromaica pilota dell'applicazione dei canoni tridentini, come polo culturale (i Gesuiti, la Biblioteca ambrosiana), oltre che come espressione del potere e della cultura spagnola; quanto poi al controllo dell'ortodossia, il modello borromaico dovette apparire assai più energico di quello dell'Inquisizione, vincolata a patti con Venezia ed a collaborazione con la magistratura locale.

È partendo da questa ipotesi che ho condotto la ricerca sia nei documenti milanesi, sinora, che io sappia, inesplorati, che su quelli veneti, in gran parte già visti dal Belotti, ma che si sono rivelati assai più complessi, quanto più si è tenuto conto dei "comportamenti" dei soggetti minori, quelli cioè più personali e vicini alla dimensione del popolo, meno riconducibili a schemi ideologici o dottrinari:
AstVE (archivio di stato, Venezia), Senato, dispacci dei Rettori, Bergamo
AstVE, Senato, Roma
AstVE, Inquisitori di stato, dispacci dei Rettori
AstVE, Senato, dispacci degli ambasciatori e residenti, Milano
AdiocMI (archivio della Diocesi di Milano), Inchiesta vicariale sull'Interdetto in Val san Martino
Biblioteca Ambrosiana, Milano, Epistolario di Federigo Borromeo



Una breve descrizione dei documenti studiati

Documenti veneti:

la base è costituita da dispacci quasi giornalieri dei Rettori, in corrispondenza ad alcune disposizioni del Senato, alcune riferite specificamente a Bergamo, altre dirette a Padova ma, come "circolari", a tutte le città suddite: i Rettori riferiscono del controllo sul clero, accennando talora ai sudditi, anzitutto alla loro frequenza alle cerimonie religiose; comunicando i dati di cui sono in possesso, chiedono conferme, provvedimenti e autorizzazioni a procedere, spesso semplicemente allegando documenti pervenutigli su cui lasciano il giudizio a Venezia. Dato che la loro durata in carica è di circa un anno e mezzo, Podestà e Capitano decadono durante l'anno dell'Interdetto (in Agosto il Capitano Francesco Querini al posto di Andrea Paruta, il Podestà Francesco Diedo al posto di Niccolò Pizzamano); notare che mentre fino a Ottobre trattano quasi giornalmente dell'Interdetto, con qualche accenno a questioni militari e diplomatiche, successivamente prevalgono temi militari o di carestia e relativi provvedimenti; per tutto Settembre ed Ottobre si moltiplicano i casi di denuncia di corrispondenze private intercettate e concernenti il clero, ma indirizzate anche a laici, alcuni dei quali si premurano di consegnarle all'Autorità civile.

Documenti milanesi:
  1. inchiesta di Federigo Borromeo sulle parrocchie di Val san Martino, che si svolge tra il 9 ed il 13 Giugno 1606: 10 testimonianze di sacerdoti su fatti accaduti tra la fine di Aprile e quella di Maggio: come sia stato impossibile diffondere il "monitorio" ed applicare l'interdetto, causa il controllo dei funzionari veneziani (Rettori, Commissario di Caprino), dei loro soldati e in alcuni casi del popolo;
  2. epistolario di Federigo Borromeo: corrispondenza con Roma (il cardinal nipote Scipione Borghese, il card. Arigoni, segretario del Sant'Uffizio, Antonio Seneca ed altri) sull'incarico avuto di divulgare sia il monitorio che i "transunti" della scomunica; inoltre sul controllo, valutazione e proibizione delle "scritture" di parte veneziana: tra le prime forse alcune provenienti da Bergamo. Inoltre, e fino almeno alla fine del 1607: risposte, consigli, disposizioni sulla possibilità di perdono per chi non aveva rispettato, o aveva contrastato, l'Interdetto.
Ne ricaveremo i seguenti quadri, ricordando che i dati provengono da giudizi necessariamente di parte o prudenziali, anche perchè sia i Rettori che il Borromeo spesso rimandano ai superiori, Venezia e Roma, le decisioni in materia o attendono conferma di quelle prese; e per capire gli atteggiamenti dei Bergamaschi dobbiamo allora chiederci quali furono le tattiche, i provvedimenti, gli strumenti utilizzati dalle due potenze nei loro confronti e cercar di definire e spiegare l'effetto che suscitarono, con un'ulteriore riserva: i documenti sono prevalentemente dispacci o lettere di cui non possediamo i correlativi referenziali, che sarebbero da ricostruire con una non facile ricerca, oppure possono essere, nel contesto di uno scontro tra potenze, dei falsi o delle provocazioni, su cui varrà il beneficio del dubbio.



La grande politica

Negli atti dell' Arcivescovo di Milano e dei Rettori veneti, come esecutori delle rispettive potenze, il rapporto tra Venezia e Roma si configura da subito, come confronto-scontro politico-militare, dentro il quale manovra la diplomazia intesa a comporre la vertenza evitando le armi; lo scontro a livello dottrinale ("guerra delle scritture") è inteso, anzitutto da Venezia, come ricerca del consenso da parte delle potenze politiche europee e come sostegno dei provvedimenti di governo in ambito territoriale; da parte romana si cerca invece di confutare le teorie veneziane, dimostrandone l'apostasia se non l'eresia.
Non seguiremo questo percorso, a livello dottrinale, rimandando alla lezione del prof. Pin del 3 Maggio, caso mai chiedendoci se lasciò traccia in Bergamo: non nel senso di una partecipazione al dibattito, che, almeno a quanto sinora studiato non vi fu, se non forse anonima o pseudonima e inedita, ma in quello della circolazione degli opuscoli di ambedue le parti. Dai Rettori sappiamo che erano informati della circolazione fin dalle prime pubblicazioni e che comunque erano a conoscenza di autorevoli scritti (o almeno di autorevoli pareri) fin dai primi di Giugno; potrebbe trattarsi di Due discorsi sulla libertà ecclesiastica, uscito tra i primi se prestiamo fede a fra Fulgenzio Micanzio, biografo del Sarpi, oppure del Trattato e risoluzione di Giovanni Gersone, che a Milano è noto fin da Maggio; essi stessi, per ordine di Venezia, diedero ordine di pubblicare in Bergamo il Trattato dei 7 Teologi a fine Agosto - primi di Settembre; troppo tardi, se l'intento dichiarato era quello di confortare i sudditi nell'obbedienza a Venezia: la propaganda romana (anzi milanese) circolava già e con più capillare efficacia, come già enunciato e come vedremo meglio più avanti.
Su questo tema ci vorranno altre ricerche (cui spero di fornire quanto meno alcuni dati e spunti) specialmente dopo l'uscita, negli atti dell'ultimo Convegno sarpiano, del saggio di F. de Vivo
«Il vero termine di reggere il suddito»: Paolo Sarpi e la gestione dell’informazione, ove si dimostra che il Sarpi si proponeva effettivamente un coinvolgimento dei sudditi nella vertenza dottrinale, a differenza di chi avrebbe preferito che i sudditi non fossero messi a parte degli "arcana imperii". Ciò certamente non sfuggì alla controparte, che non solo proibì la circolazione degli opuscoli di parte veneziana, ma registrò il Sarpi come il nemico più pericoloso, agitatore-scismatico: il 5 Agosto il card. Arrigoni raccomanda a Federigo Borromeo di "trovare alcuni testimonij contro quel fra Paolo servita", procedendo con segretezza.
Nell'ambito di questa vertenza possiamo collocare anche il nostro terzo documento, la lettera di un anonimo al Sarpi, di cui si dichiara amico ed antico ammiratore, ma gli rimprovera la presunzione di predicare una verità diversa da quella papale, tentato dal Demonio, dalla "diabolica ragion di Stato" e corrotto dalla frequentazione di conventicole libertine, in cui si nega e distrugge l'autorità ecclesiastica, si mira allo scisma, si predica l'eresia. Se intende giustificare la sua azione, i suoi consulti, con l'amor di patria, cerchi piuttosto di salvare Venezia dalla rovina: dove si distrugge la religione si distrugge anche lo stato. Si noti la centralità, tutta politica, del messaggio persuasivo: se il Sarpi vuole il bene della patria faccia "conoscere a cotesto principe quanto maggior gloria appresso il mondo tutto sarebbe humiliarsi da se medesimo e ricorrere alla benignità del Pontefice, che, mettendosi in mezzo del re di Francia, ò quello di Spagna, dover restar etternamente all'uno o all'altro obbligato"; ove l'Anonimo dimostra di essere ben informato non solo delle persecuzioni venete sul clero, ma sulle trattative politiche internazionali, alle quali l'azione del Sarpi fornisce le ragioni a sostegno della Serenissima. Per un verso lettera minatoria alla persona, anonima, e come tale da interpretare come vox populi, per un altro "discorso" politico persuasivo, di propaganda, che pertanto è destinato al pubblico, per confutare e denigrare l'avversario. Nuova luce su questo documento apporterà il contributo del prof. Corrado Pin, di prossima pubblicazione negli «Atti del convegno di studi storici, Lo Stato marciano durante l’interdetto 1606-1607. Celebrazioni del IV Centenario. 3-4 novembre 2006, Rovigo, a cura della Associazione culturale Minelliana di Rovigo».
Vedremo nell'ambito locale la funzione di messaggi politici come questi e la loro efficacia sulla coscienza dei sudditi. Tra i documenti trasmessi a Venezia dai Rettori se ne trovano alcuni di taglio simile: si va dalle informazioni o delazioni per ottenere un premio, alle copie di "instruttioni in stampa serrate in forma di lettere (mandate da Milano) a diversi gentilhuomini et mercanti di questa città", agli appelli di frati sedicenti "veri amici della Repubblica" che minacciano Venezia di gravi disastri se non si pentirà. È materiale destinato alla riproduzione (a mano o a stampa) potenzialmente, anche se non necessariamente concepito allo scopo propagandistico, analogo a quello dei pamphlets delle recenti guerre di religione in Francia, che, se tennero "già da tanto tempo sospeso il giudicio del mondo", furono fatti conoscere in Italia, ed in particolare a Bergamo, con un'originale raccolta dall'editore Comino Ventura.



La politica locale

Ambedue le potenze hanno voluto coinvolgere capillarmente i sudditi fin da Aprile, quindi prima dell'entrata in vigore della scomunica:
Venezia, con la pubblicazione di lettere ducali 1) al consiglio comunale, in cui si denuncia la prevaricazione del Papa rispetto alla propria sovranità, 2) al clero, secolare e regolare, ove si difendono le proprie leggi contro innovazioni dannose al clero stesso (effettivamente erano un' estensione al territorio di leggi già in vigore a Venezia), e si ordina di restare al proprio posto e praticare secondo consuetudine; nell'inchiesta sulla val san Martino un parroco testimonia di aver letto un manifesto ducale affisso in un'osteria. Da parte romana l'ordine di affissione o distribuzione di monitori ha riscontro almeno a partire dal 29 Aprile (a Morengo) ed il 6 Maggio, ad Astino, viene affisso un manifesto papale: è il primo grande "scandalo"; nell'inchiesta sulla val san Martino si vuol sapere se, non solo il clero, ma il popolo è stato informato, mediante la predica nelle funzioni di maggior afflusso.
Ai fedeli ed ai sudditi ambedue impongono di respingere gli ordini dell'avversario: Venezia dichiarandoli invalidi e cercando di impedirne la comunicazione, il Borromeo accusando gli scritti veneti di eresia.
Venezia deve evitare non solo che si faccia propaganda contro le sue leggi, che già sarebbe tradimento, connivenza col nemico, ma in particolare che il clero rifiuti di officiare e celebrare o fugga, usando la polizia e colpendo i renitenti o con l'arresto, il bando, la sostituzione, il sequestro e la devoluzione dei beni; la sua azione avrà buon esito specialmente con la minaccia delle pene più pesanti, fino a quella di morte, perchè il clero che non se la sentirà di ribellarsi o di fuggire potrà giustificare la sua disobbedienza all'Interdetto appellandosi alla condizione necessitante "per pericolo di vita". In effetti la Repubblica può ottenere un'obbedienza soltanto formale da parte del clero e provocare una sostanziale resistenza passiva, che ha la sua maggiore efficacia nel confessionale e nei rapporti privati; a queste condizioni i Rettori non possono contare su una collaborazione efficace da parte del vescovo e dell'alto clero; tutt'al più su quella di regolari, predicatori o confessori fedeli alla Repubblica: fin dall'inizio della vertenza, proprio dove segnalano l'anomalia del territorio in comune con la Diocesi milanese e, come conseguenza, il pericolo della disobbedienza da parte di quei curati, oltre che della diffusione di propaganda entro i confini, i Rettori dovranno ricorrere ad un mezzo di convincimento assai discutibile: l'autorevolezza di patrizi cittadini aventi beni ed influenza in zona: che quanto possano essere graditi come consiglieri, per i curati e per il popolo, è tutto da vedere (si va dai militari ai signorotti banditi ai prevaricatori sui beni comunali ai fini diplomatici esperti di faide familiari...); lo stesso avviene, e con prevedibili difficoltà, quando si tratta di trovare garanti per il deposito dei beni sequestrati al clero ribelle o ai monasteri abbandonati: sono immaginabili le resistenze, specie quando il fuggitivo ha parenti importanti; difficoltà che possono aver ostacolato l'effetto della decisione di devolvere i frutti dei beni sequestrati alle chiese più povere o alle opere pie, in occasione dell'incipiente carestia. Ma il fallimento più grave da parte di Venezia (sempre rispetto alla coscienza del suddito) si vede specialmente nella pretesa di censurare la corrispondenza privata, attraverso cui passano sia l'informazione che la propaganda lo spionaggio e la provocazione che il conforto e la promessa di premi e perdono: in genere provengono da Milano (quindi dal Borromeo, secondo i Rettori, e in alcuni casi con ragione evidente) e prevalentemente da regolari, banditi o esuli, indirizzati a parenti, sorelle monache, ma capaci di raggiungere amici, confidenti, "penitenti"; è corrispondenza che si appoggia su, o è propriamente trasportata da, mercanti, categoria facilmente mobile sul confine e difficilmente controllabile. In un caso, lo stesso Vescovo è raggiunto (per sua stessa volontà? o è un caso di controspionaggio?) da una corrispondenza privata da Roma, che lo informa dettagliatamente sugli sviluppi della vertenza e sui suoi problemi personali.
Per parte sua Roma, o direttamente o attraverso Milano, non ottenendo in tempi brevi forme evidenti di ribellione a Venezia, anzi rilevando che, almeno in val san Martino, la popolazione partecipa a bloccare l'eventuale fuga dei curati, deve minacciar di punire, anche con la scomunica, chi li ha costretti, per esempio facendo "la guardia al curato", ma difficilmente il suo messaggio può arrivare a buon fine, nelle condizioni del controllo veneto. Peraltro, nel momento in cui i curati riescono a fuggire, o vengono respinti al confine se vogliono tornare, e trovano nella Diocesi milanese ospitalità, conforto e premi, il Borromeo ottiene solo un abbandono delle cure, che spiace al popolo e cui Venezia rimedia con sostituzioni, premi, finanziamenti alle cure più povere; nè si può pensare che i fedeli possano seguire i loro pastori fuori confine, per cui Federigo Borromeo si affretta ad avvertire i fedeli che i sostituti, mandati dai Rettori e senza la sua licenza, sono scomunicati e che ogni sacramento non sarà valido (matrimoni, estreme unzioni...).
D'altronde, il Borromeo figura in questo momento anche nel ruolo di potenza straniera, specie ove si veda, o solo si tema, una sua intesa con il governatore Fuentes, che già si conosce attivo e pericoloso ai confini veneti (bergamaschi) con la Valtellina, ove nel 1603, quando Venezia ha stretto un patto con i Grigioni, egli ha fatto costruire l'omonimo forte. Comunque il cardinale è potenza da trattare diplomaticamente, ma non otterrà molto da questa posizione ufficiale: alla sua richiesta di poter far uscire dai confini gli alunni del collegio di Celana, cui fece da mediatore il canonico bergamasco Guglielmo Beroa, la risposta negativa fu cortese ma ferma; solo qualche mese dopo cercò inutilmente di offrire giustificazioni in favore del fuggitivo canonico Prisco Benaglio; si ottenne, inviandogli una delegazione di stimati patrizi, G. Gerolamo Grumelli e Ludovico Benaglio, che rinviasse una rischiosa visita pastorale nella zona bergamasca della sua diocesi; dei frati suoi emissari alcuni furono fermati ai confini, altri riuscirono a penetrare, e furono fermati ed arrestati. Lo strumento più efficace, suo o da lui ispirato o favorito, che raggiunse capillarmente i Bergamaschi (non solo quelli di val san Martino) fu invece quello della corrispondenza privata, con cui arriverà il conforto, la minaccia, il consiglio, la promessa di perdono; ma viene denunciata anche una forma di lettere "circolari" indirizzate a singoli professionisti e mercanti bergamaschi. Così lo stampato (la "scrittura perniciosa" contestata dal Sarpi) che reca istruzioni minacce di nullità dei sacramenti in tempo d'Interdetto, è facilmente intercettabile dai Rettori nel momento in cui vuol essere pubblicato o comunicato ufficialmente; prende allora la via, tra i primi ed il 19 Agosto, della corrispondenza privata, con cui raggiunge e "tormenta" i sudditi, "gentilhuomini e mercanti". E proviene dall'ambito milanese la diceria popolare, sparsasi in breve tempo, che i Bergamaschi, sudditi di un principe scomunicato cui non si volevano ribellare, erano anch'essi eretici e scismatici; così come si può ipotizzare a Milano uno dei canali dello spionaggio a carico di Paolo Sarpi per conto del sant'Uffizio. Si deve poi probabilmente ai rapporti privati e clandestini il caso comunque più vistoso dell'efficacia dell'azione milanese: molto avanti nell'anno dell'Interdetto, il 21 Marzo del 1607, dalla diocesi di Milano furono indirizzate al Monastero di Matris Domini istruzioni per le monache sull'Interdetto, ove si tratta tra l'altro di scritture proibite di parte veneta, che qualcuno avrebbe introdotto nel monastero: il documento è fondato sull'autorità papale, come lo saranno altri, richiesti da Bergamaschi per ottenere l'assoluzione, anche molti mesi dopo la fine della vertenza ed il ritiro delle censure.



Dati ed ipotesi

La documentazione consultata ci ha permesso fin qui di valutare l'impatto dell'Interdetto a Bergamo secondo le aspettative delle due potenze in lotta; il riscontro tra i punti di vista di Venezia e Milano chiarisce alcuni aspetti e momenti ma per altro verso, nel momento in cui offre un buon numero di nuovi dati, soggetti e situazioni, richiede un riscontro con documenti locali, che, già difficilmente reperibili quanto più ci si avvicina al caso particolare, in questo caso e nelle condizioni di censura, segretezza e ufficiosità, quando non addirittura di false informazioni diffuse ad arte, saranno anche difficilmente interpretabili, ammesso di trovarli.



Il clero secolare

La figura che immediatamente sollecita studi approfonditi è ovviamente quella del vescovo G. Battista Milani, veneto, di famiglia del ceto dei "secretari" elevata allora al patriziato; già preposto generale dei Teatini, ordine di chierici regolari che si insediò in Bergamo nell'epoca del suo vescovato (prima in san Michele dell'Arco, poi al Carmine e, in una seconda sede, anche alla Masone) e ne fu parzialmente cacciato durante l'interdetto. Non si vede -se non forse approfondendo il conclamato rigore della sua pratica teatina- la continuità con i vescovi precedenti, Cornaro e Ragazzoni, ambedue convinti collaboratori di Carlo Borromeo, e non è chiara nemmeno la fine del suo vescovato, nel 1611, che da cronache teatine è attribuita a destituzione per aver disobbedito al Papa. Dai dispacci rettorali risulta che, dopo aver inutilmente cercato di fuggire lasciando l'amministrazione alla garanzia di un laico (Ludovico Benaglio?), promise fedeltà alla Repubblica e la mantenne almeno formalmente sia nel culto che nell'obbligo di consegna ai Rettori di ogni comunicazione proveniente da Roma. Quanto al primo, egli presiedette alle cerimonie delle importanti festività religiose esonerate dall'interdetto (Natale, Pasqua, Pentecoste, Corpus Domini, Assunzione) ma ai Rettori premeva soprattutto che lo facesse in occasioni di valore politico, come la festa di s. Giustina, 7 Ottobre, ricorrenza della vittoria di Lepanto: si noti che già da più di un mese gli stessi Rettori denunciavano un calo di presenze di patrizi e popolo alle celebrazioni ufficiali e si verifica tra fine Agosto e metà Ottobre la fuga dell'abate di Astino, dei canonici G.B. Terzi e Prisco Benaglio, arcidiacono, e dell'abate Tasso; in generale i canonici del Duomo si appellano ai loro privilegi, opponendo ai Rettori i limiti dei loro carichi di celebrazione. Abbandonato, e commiserato, anche dal suo Vicario Generale, Bernardino Costa, Milani resta al suo posto fino all'ultimo e si dà malato solo alla Pasqua del 1607, quando la vertenza è alle ultime battute. Presumibilmente deve aver contato molto sulla protezione di Venezia se, il 10 Marzo 1607, prega i Rettori di raccomandarlo al Doge, poichè teme che il vescovo di Cremona, in queste circostanze, tenti di togliergli l'enclave di Paderno ed "altre cinque parrocchie", e ciò dopo aver inutilmente tentato di chiedere l'aiuto del cardinale Dolfin. Quanto e come poteva essere informato dell'andamento della vertenza e in particolare della sua delicata situazione? Nei mesi di Settembre e Ottobre (che, per qualità e ricchezza di documentazione nei dispacci dei Rettori, dovremmo almeno sin qui considerare decisivi) il vescovo è raggiunto da una corrispondenza quanto meno singolare: un ecclesiastico romano, ma di nazionalità boema, Martino Hasdale, prima tramite il nipote del Milani, Nicolò Lio, a sua volta teatino e canonico del duomo, poi direttamente, lo informa periodicamente di umori e movimenti del Papa e della Curia, delle trattative in corso con la mediazione dei cardinali francesi, dell'effetto e delle reazioni prodotte dalle scritture di parte sarpiana, degli orientamenti politici dei principi italiani in caso di guerra. Curioso che l'Hasdale, nell'annunciare l'opuscolo del cardinal Colonna sui vescovi disobbedienti (e quindi interessante direttamente il Milani) tenda a sminuirne il valore, in considerazione anche della scarsa credibilità -storica- della famiglia Colonna nei rapporti col Papato; egli peraltro più volte ragguaglia il Milani sulle reali difficoltà di una guerra da parte del Papa in un momento di carestia. Situazione che, insieme al procedere delle trattative diplomatiche, sminuirebbe per il Milani la scusante del pericolo di vita, mentre gli lascerebbe dei dubbi sulle minacce o le promesse delle due potenze (protezione, nomina di nuovi vescovi...). Per altro verso queste lettere sono materiale scottante -da intelligence- dal punto di vista politico-militare, il che spiega l'interesse dei Rettori ad ottenerlo e smistarlo a Venezia, anche sapendo che il vescovo può averlo letto; e non è impossibile, dato il suo contenuto, che si tratti di una provocazione e di notizie artefatte.
Fin qui l'alto clero, che in vario modo può essere stato toccato da questo tipo di messaggi; per quanto riguarda invece il livello dei curati, a parte quelli della diocesi milanese, i dati documentali sono scarsissimi; se ne dovrebbe dedurre che, in assenza di denunce di chiari atti di ribellione, essi celebrarono regolarmente e che quindi le parrocchie e la gran parte dei fedeli non furono toccati dall'Interdetto. Mi limito a segnalare, tra le denunce dei Rettori, un caso anche stavolta di comportamento "anomalo" o "autonomistico" di Clusone: a fine Ottobre si ha notizia di una "congregazione" di preti, proibita, che viene immediatamente bloccata con allontanamento dell'arciprete.
Un caso particolare, ma rilevante come modello di comportamento, dovette essere quello della Misericordia Maggiore (MÎA), ente che tuttora ha in gestione la basilica di s. Maria Maggiore: pare che abbia contribuito al culto cittadino malgrado l'interdetto, pur in condizioni di difficoltà; ve n'è testimonianza nel Giugno 1606, quando il Consiglio autorizza il cavalier G. Gerolamo Grumelli, Giulio Alzano e Donato Licini a servirsi di un cappellano di s. Maria Maggiore (cui si sospende lo stipendio ma si conserva il posto) "stando la qualità di questi tempi".
Il successivo 4 Novembre, stante che Stefano Pianca de Rota, priore della basilica, è stato "bandito in arringo", perchè assentatosi dalla patria senza giustificazione, il Consiglio delibera di sostituirlo; il successivo 1 Maggio viene esaminata una sua supplica di riassunzione, ma gli si risponde che l'incarico è stato dato ad altri. Notare che la supplica era datata 17 Aprile, quattro giorni prima della conclusione della vertenza, con relativo ritiro delle censure: presumibilmente il Pianca de Rota, esule o comunque in contatto con Roma o con Venezia, aveva tempestive informazioni sull'andamento delle trattative e contava sulla possibilità di trarne argomento per giustificarsi ed ottenere la riassunzione. Ciò non fu possibile per il carattere proprio della MÎA, ente da sempre, ed orgogliosamente, "laico ed amministrato da laici", che aveva bensì un "patrono" ecclesiastico, elettivo, ma era spesso in contrasto con l'autorità ecclesiastica; quanto ai suoi beni, destinati alla beneficienza ed al culto celebrativo della beneficienza stessa, non potevano rientrare nella legislazione veneta sui beni ecclesiastici ed erano amministrati secondo la legge veneta e con criteri laici: gli ecclesiastici, priore, sacrista maggiore, cappellani, chierici, musici e cantori, gli stessi predicatori, per la basilica o prestati per carità ad istituzioni più povere (come d'altronde certi paramenti sacri) erano vincolati a rapporti di dipendenza analoghi a quelli laici; la stessa scuola dei chierici ("accademia", più tardi "collegio") poteva produrre tanto cappellani al servizio della basilica quanto funzionari pubblici o "secretari" di corte. Il governo della MÎA era presieduto da un Ministro eletto annualmente, carica che in questi anni toccò a personaggi rilevanti per la nostra storia: nel 1605 Ludovico Benaglio, nel 1606, con riconferma nel 1607, G. Gerolamo Grumelli.



Il clero regolare

Un tema, particolare, tutt'altro che secondario, riguarda il rapporto del patriziato bergamasco con gli ordini regolari, maschili e femminili; nel caso dell'interdetto non vi sono notizie specifiche di interventi diretti, anche se sono immaginabili. Si segnalano però, in questi anni, diversi casi in cui il patriziato si spese per la fondazione di nuovi conventi e di nuovi ordini ed almeno in due casi l'ottenne, malgrado il momento fosse tutt'altro che favorevole dal punto di vista di Venezia: a parte il caso dei Teatini, già visto, e quello dei Gesuiti, che alcuni, tra cui pare lo stesso G. Gerolamo Grumelli, avrebbero voluto introdurre, v'è quello dei Cappuccini di Albino, fortemente voluti dalla famiglia Spini ed ottenuti dopo molti anni malgrado l'opposizione dei Rettori, e quello (cortesemente segnalatomi da Gabriele Medolago che lo inserirà in una prossima pubblicazione) dei Riformati del Baccanello, voluti da Febo Colleoni: offerti e poi ritirati, causa l'Interdetto, dai Riformati di Bergamo, fecero in tempo a filtrare propaganda clandestina milanese.
Quanto agli antichi monasteri benedettini, a parte il caso di Astino, la cui ribellione viene attribuita ad un monaco "foresto", fiorentino, quelli di Pontida e di san Paolo d'Argon presentano atteggiamenti differenti al loro proprio interno: formalmente obbedienti a Venezia, cui sono legati da storici vincoli istituzionali, pare che ne siano fuggiti almeno alcuni monaci, mentre altri si prestarono a sostituire curati fuggiti; quanto al loro rapporto con il territorio, a parte l'opera di culto e di carità, va ricordato che si tratta di proprietari terrieri spesso in conflitto con le comunità locali. Caso a parte anche i monasteri femminili: sono in genere governati da donne del patriziato bergamasco, ma supponiamo, con i Rettori, che i loro comportamenti dipendano dai confessori, e che Venezia trovi modo di sostituire gli "scandalosi" con propri fautori; risulta che alcune monache, dubbiose o tentate da confessori fedeli a Venezia, da certa corrispondenza privata furono esortate ad osservare l'Interdetto secondo quanto indicava, invece, la Badessa.
Più complesso il caso dei conventi e dei nuovi ordini regolari. Per quanto riguarda Agostiniani, Riformati, Celestini, Carmelitani e Serviti si hanno prove formali di fedeltà a Venezia e in più alcuni casi specifici di collaborazione sia nella predicazione che nella sostituzione di curati esuli a Milano. D'ordine di Venezia, i Rettori dovevano far conto su di loro, convocandoli a gruppi di due o tre e garantendosi la loro collaborazione, con promesse di premi e protezione; non sappiamo, in effetti, quale sia stata poi questa protezione dopo la composizione della vertenza; certo non si ebbero, alla lunga, i risultati sperati: un caso importante è esposto nei dispacci rettorali del 3 Gennaio 1607: si è fatto venire da Brescia a predicare il cappuccino p. Ippolito Averoldi, che molto efficacemente ha argomentato sulla necessità che i sudditi obbediscano al proprio Principe nelle cose di religione, ma si è sparsa voce che i Cappuccini di Brescia sono "dichiarati apostati", "per il che molti di questi Principali della Città et le donne di ogni conditione (quasi in generale) sono restati di udire la sua predica"; il tutto peggiorato dalla notizia che ora spesso i Rettori, nel recarsi a Messa, vengono accompagnati fino alla chiesa ma poi lasciati entrare soli. In effetti l'Averoldi era stato scomunicato già in Luglio, con i Cappuccini rimasti a Brescia, rispetto ad altri che, tramite Federigo Borromeo, avevano trovato nuova sede a Caravaggio. Questa, del ruolo avuto dai Cappuccini della provincia di Brescia e Bergamo, ed addirittura del loro padre Provinciale, quel Mattia Bellintani da Salò che era stato prezioso collaboratore di Carlo Borromeo ed ora veniva contestato nel suo governo dalle denunce dei confratelli, è storia tutta da definire: anche l'Averoldi non è figura di secondo piano, se fu pubblicato un Testimonianze della Fede, Scienza, Vita et costumi del rev[erendo] padre f[ra] Hippolito Averoldo cappuccino fatte da noi superiori Generali et Provinciali. In Brescia, appresso Comino Presegli, MDCVI. Anche altri soggetti espressero in stampa la loro fedeltà a Venezia, come la lettera Essendo fatto notorio a noi… dei pp. Bernardino da Bergamo, Francesco Foresto, Hippolito da Brescia, edita a Brescia sempre nel 1606. È peraltro cappuccino anche quel fra Patrizio da Bergamo che, da Lugano, firmandosi "vero amico della Repubblica", scrive al Capitano di Bergamo condannando la disobbedienza di Venezia e le persecuzioni del clero; riferisce del fermento che cova in molti patrizi veneziani e denuncia la follia scismatica dei sarpiani: ha sentito dire che si staccherebbero da Roma come han fatto i Greci e non vedono quale sia stato il declino della Grecia, "da poi che si ribellorno alla santa Chiesa, di male in peggio, et tutti a casa del diavolo"; quanto alla "sua" Bergamo ribadisce la sua fedeltà a Venezia contro qualsiasi potenza, salvo che contro il Papa, e riferisce di manovre (del Papa, o spagnole?) per impadronirsi di Brescia e Bergamo. La forma, tono medio ed espressioni familiari, come il chiudere augurandosi un appuntamento con il Capitano alla festa del Redentore, potrebbe confermare il carattere di una lettera privata, ma il contenuto, le denunce, le allusioni e più o meno velate minacce, sembra piuttosto rivelare una lettera provocatoria o un pamphlet propagandistico degno di un predicatore militare: forse un contrappeso alle prediche dei cappuccini fedeli a Venezia?
Molte altre lettere diffondono propaganda e rivelano, senza bisogno di immaginare che fossero destinate a circolare clandestinamente, l'esistenza di nuclei di resistenza, di laici e religiosi: provengono da religiosi esuli e in genere sostengono chi vuol osservare l'Interdetto o consigliano di fuggire; in quest'ultimo caso avvertono però che i fuggiaschi sono molti e gli spazi ospitali si vanno restringendo. Sono dirette a parenti religiosi a loro volta, direttamente o tramite indirizzi di comodo e in genere non contengono riferimenti a pubblicazioni, a progetti politici o militari, come quella di fra Patrizio: recano solo conforto, tutt'al più, come nel caso di un'esortazione, di ambiente domenicano, ad una sorella monaca in santa Marta ad osservare l'Interdetto: si smitizza il rischio di punizioni con la frase "tanto più che (i Veneziani) non corrono ad ammazzare così in furia". È specialmente l'ambiente teatino che rivela una penetrazione capillare, notevole specie se si pensa che quest'ordine era entrato in Bergamo da pochi anni e per di più con difficoltà, sia nell'insediamento al Carmine, sia in quello successivo alla Masone, a cui fan riferimento alcune lettere. Qui peraltro un'indagine rettorale aveva trovato fedeli a Venezia tutti i chierici, salvo due, fuggiti. Le lettere più significative provengono da Genova, dove si trovano padre Tomaso Bargoni e padre Vincenzo de Benis: il primo in particolare, nel mandare saluti, fa riferimento a "tutti i suoi penitenti" e cita un buon numero di donne, monsignori e sacerdoti; solo un accenno, il 19 Agosto, ad un attuale "temperamento delle turbolenze" per confortare chi è costretto a restare o chi non è chierico, perchè resista di buon animo. Un segno di questa presenza può essere che l'unico caso di ribellione aperta dichiarato dai Rettori -e che non consista nella fuga- è quello di una donna, definita "pizzoccara teatina" e chiamata ironicamente "Semirasmis bergamasca", probabilmente una terziaria, che va proclamando in pubblico di temere più l'ira del Papa che le galere veneziane.



Patrizi e "popolo"

Del Consiglio cittadino abbiamo già detto l'essenziale; va ricordato che, nel rivolgersi ai sudditi, Venezia tien conto esclusivamente delle civitates, che in questo momento sono in mano ad un ristretto numero di famiglie patrizie cittadine, ognuna delle quali ha privilegi ricchezze ed autorità nel territorio, in contrasto spesso con gli "huomini del Piano", che denunciano le loro prevaricazioni, da secoli con i "valeriani" che vantano diverse manifestazioni di maggior fedeltà a Venezia rispetto agli infidi cittadini; Venezia da quasi due secoli ha un occhio di riguardo per le Valli Bergamasche, in termini di esenzioni fiscali e, seppur in piccola parte, giurisdizionali. Del periodo che stiamo affrontando, grosso modo tra le due pesti, del 1575 e del 1630, nel quale queste differenze appaiono vieppiù profonde, sarebbe da chiarire il ruolo delle famiglie territoriali che, pur mantenendo una solida base economica e politica, si sono fatte cittadine ed hanno realizzato rapporti familiari e patrimoniali con il patriziato. Sono di soli quindici-dieci anni prima dell'interdetto due rilevanti approcci con la realtà territoriale: la visita di Leonardo Donà, in qualità di Provveditore in Terraferma, alle Valli, di cui rileva la potenzialità militare e la fedeltà alla Repubblica essendone ricambiato con la soddisfazione dei sudditi per questo -raro- atto di approccio; successivamente fu il Capitano Giovanni da Lezze a rilevare, con un'ampia indagine, i problemi di amministrazione del territorio, tra cui moltissimi casi di querele dei comuni territoriali verso le prevaricazioni signorili; problemi ad alcuni dei quali pose rimedio, anche mediante un riordino delle amministrazioni; il governo del territorio era un gradino necessario per la carriera politica e, se il da Lezze sfiorò soltanto il Dogado, Leonardo Donà fu il doge protagonista della resistenza alla politica papale prima, durante e dopo l'interdetto.
Nell'Interdetto diversi soggetti e famiglie del patriziato furono in vario modo coinvolti: anzitutto come detentori di beni e di influenza nel territorio, in particolare quello di confine: dal cavalier Rivola, che da un suo massaro riceve, e consegna ai Rettori, un manifesto papale affisso a Morengo, al conte e cavalier Ludovico Benaglio, autorevole in val san Martino, al conte e cavalier G. Gerolamo Grumelli, autorevole nella zona di Dalmine: come si vede, in zone di confine, ed è per questo, ma soprattutto per la competenza degli ultimi due, nominati l'anno prima Provveditori ai confini, che i Rettori affidano ai patrizi influenti in zona sia il compito di convincere i curati dubbiosi che quello di delicate missioni diplomatiche, come quella di raggiungere il Borromeo a Treviglio, o a Groppello d'Adda ("luogo di sue delizie"), e convincerlo a rinunciare ad un'inopportuna visita pastorale in territorio bergamasco. Anche in altri incarichi deve aver avuto effetto il ruolo di G. Gerolamo Grumelli, fine diplomatico e giurista esperto di questioni di confine, come nella vertenza con i Milanesi per i boschi di Taleggio, accreditato a Milano anche per parentele, già collaboratore di Carlo Borromeo sia in zona di Dalmine che di Val san Martino e Celana. Meno convincente appare un incarico delicato se affidato a Francesco Martinengo, erede del Colleoni su Malpaga e Cavernago, ove si è fatto costruire un castello tutt'altro che diplomatico, viste la sua carica di generale della cavalleria veneta e l'eccessiva vicinanza al confine spagnolo; qualità queste certamente significative in ambito militare, e sappiamo che Venezia lo incaricò di rafforzare le difese bergamasche in quest'occasione; meno produttive -credo- sul piano locale, quando ebbe dai Rettori l'incarico di un giro di convinzione presso i parroci, con la scusa di andare a caccia: quali ragioni poteva offrire ai sudditi un signore (un "signorotto" manzoniano?) raffigurato, anche dal da Lezze, come prevaricatore di diritti comunali, nel cui territorio di Malpaga e Cavernago era impossibile amministrare la giustizia, ed uso presentarsi a Bergamo con un minaccioso seguito di 40 bravi a cavallo? Oggetto di attenzione delle stesse autorità venete sia per denunce criminali (ed in seguito anche condannato) sia per sospetti di spionaggio militare, dovette avere molto consenso finchè durava il pericolo di guerra, lui che sosteneva una iniziativa di guerra d'attacco, ma sappiamo che il Consiglio Comunale pensò di ritirare la sua offerta di 50 corazze se la guerra non fosse stata difensiva. Il coinvolgimento, la fedeltà, del patriziato bergamasco procedeva anzitutto su questo piano militare, con la proposta dei più bei nomi come possibili comandanti della compagnia: Estore Martinengo, Francesco Brembati, Ezechiele Solza, Camillo Secco, Galeazzo Suardo; escluso il Secco, perchè vincolato da beni nel Milanese, fu eletto Francesco Brembati, mentre il Solza, con Ottavio Marchesi, furono raccomandati per un incarico nell'esercito veneziano. Quale influsso potessero avere peraltro, sulle coscienze dei sudditi, personaggi come questi è da studiare, ma le premesse non sono buone, se si pensa che lo stesso Solza è uno dei due "signorotti" che il "popolo di Bergamo" nel 1601 denuncia esser stati protetti dai Rettori nelle loro prevaricazioni. Anche sulla fedeltà dei militari di carriera l'Interdetto deve aver sollecitato qualche dubbio, quando ci si chiese se gli ufficiali originari dello Stato Pontificio, sudditi del Papa, avrebbero potuto combattere per Venezia.
Su di un altro piano il patriziato ebbe meno fortuna, quello del rapporto con l'alto clero, cui spesso era legato da rapporti di parentela. Fu assai difficile per i Rettori trovare qualcuno che si prestasse ad un riordino dell'amministrazione dei monasteri o a garantire per i frutti dei beni sequestrati agli ecclesiastici fuggitivi, oltre che a convincere gli ecclesiastici loro parenti a disobbedire al Papa; lo stesso Ludovico Benaglio non potè convincere il fratello Prisco, canonico arcidiacono, mentre risulta che altri Benaglio, Guido e Gerolamo, furono fatti conti e cavalieri dal Papa già il 6 Giugno, con assoluzione da ogni censura; il relativo Breve è allegato alla corrispondenza di un fuoriuscito dei primi di Ottobre e viene segnalato dai Rettori come una manovra di sovversione dei sudditi. Anche da parte milanese il patriziato ecclesiastico viene utilizzato come mediazione: come nel caso del canonico Guglielmo Beroa, tramite il quale un curato milanese chiede ai Rettori di poter trasferire a Milano i chierici del collegio di Celana; gli si risponde che se i chierici soffrono dei tumulti in corso "i soldati li proteggeranno"; e la mediazione del Beroa discende dall'esser stato, come d'altronde G. Gerolamo Grumelli, collaboratore di Carlo Borromeo, precedente cui il curato inutilmente si appella; ad una successiva insistenza, stavolta ufficiale, di Federigo in veste di "esecutore del monitorio di sua santità", la risposta negativa sarà ancora più netta e verrà data dai Rettori in presenza di Francesco Martinengo.
Abbiamo accennato più sopra al particolare rapporto che legava il patriziato agli ordini religiosi. Qui invece conviene chiedersi come interpretare, attraverso i pochi ed anonimi riferimenti, i comportamenti del "popolo".
Se riferito alla Città, "popolo" qui vale per "pubblico che frequenta le celebrazioni ufficiali" e probabilmente quella che, in Consiglio Comunale vien definita "innominata civiltà": cittadini, con diritti e privilegi rispetto ai territoriali, ma non patrizi, nè "dottori", nè plebe miserabile; salvo che nelle Arti e Corporazioni e nelle Confraternite -che qui non appaiono mai- trovano espressione in Consiglio e nella Misericordia, peraltro rigorosamente pilotati da esponenti del patriziato di cui politicamente dovrebbero considerarsi seguaci. A parte il dato complessivo del loro progressivo abbandono delle pubbliche celebrazioni, c'è quello della corrispondenza ("circolare"?) manoscritta e stampata che raggiunse da Milano professionisti e mercanti: due casi sono segnalati da un dottore, Pagano della Torre, "fedelissimo" alla Repubblica; diversi altri invece sono scoperti tra mercanti sia di Bergamo che di Vertova di cui i Rettori riescono ad individuare i corrispondenti milanesi, senza però riuscire a perseguire i veri mittenti. Merita di essere segnalato, in questo ambiente, il ruolo del libraio-editore Comino Ventura, che mise a disposizione dei Rettori la sua competenza per riconoscere che le lettere stampate provenivano da torchi milanesi.
Se poi intendiamo per "popolo" i territoriali, sono citati poche volte, e in genere in comportamenti filo-veneti, come la "guardia al curato", l'opposizione alla sua fuga e l'inseguimento, addirittura, nel caso di Zogno, l'arresto di due frati; in questi casi, di val san Martino e val Brembana e convalli, appaiono associati o confusi con la polizia veneta, costituita in genere da mercenari corsi o albanesi; se questi ultimi eseguivano gli ordini dei Rettori o del funzionario locale (il Commissario di Caprino, per la val san Martino), è probabile che "huomini" e "terrazzani" non fossero gruppi di persone autodeterminate, quanto piuttosto una sorta di polizia organizzata ed armata localmente; agli ordini di consoli o sindici nel caso dei comuni di Valle oppure dei "gentilhuomini" potenti nelle quadre di pianura, che ordinariamente avevano il compito di "descrivere" i ruoli dei paesani, con le rispettive armi di cui dotarli, cioè di arruolarli d'ordine pubblico. In quest'ultimo caso ritengo che sia difficile fissare una differenza netta, almeno nei comportamenti, tra polizia locale, legale, e polizia privata agli ordini di "signorotti": in altri termini i cosiddetti "bravi". Il ruolo dei bravi, reso famoso dal Manzoni proprio nel Lecchese, è ricordato nella Relazione del Da Lezze come fenomeno di confine con Milano: a Caprino "vi praticano però molti Milanesi, la qual praticha rende gran disgusto a quelli populi, perchè caminando con l'arme e con li principali vivono della loro braura in gran timore"; quale sarà stato il ruolo, nella nostra vicenda e nel rapporto con la Diocesi milanese e dei suoi curati, dei "terrazzani" di val san Martino, "lavoradori o massari per la maggior parte et bracenti del conte Ludovico Benaglio" a Calolzio, oppure delle dodici famiglie di massari di "don Pietro Sozzo", con le quali, a Caprino, questi "fa comun per sè"? Diverso, credo, il caso degli "huomini di Zogno", come in genere delle valli "esenti", dove il rapporto tra autorità laica, consoli e sindici, ed ecclesiastica, curato e custode del convento, è più diretto, magari conflittuale, come nel caso, frequente, della nomina comunale del curato. Il caso clamoroso dell'arresto di due frati da parte degli "huomini di Zogno", quindi della polizia locale, non credo sia da riferire al convento del Romacolo, quanto piuttosto a due emissari di Federigo Borromeo, stranieri e penetrati clandestinamente, quindi figure da perseguire come illegali e nemiche dello Stato. Altri soggetti rappresentanti del territorio come i consoli, appaiono in genere come fedeli esecutori degli ordini rettorali, nella consegna di documenti clandestini e nelle denunce di comportamenti pericolosi o nella "guardia al curato" nelle alte Valli sotto diocesi milanese; a quest'ultima qualcuno chiese poi il perdono; un console di Taleggio figura invece aver aiutato e finanziato la fuga del curato, Grazio Danelli, colpito poi da bando perpetuo.



Una proposta di inquadramento

Considerando i limiti di questo tipo di documenti, non si può dare una risposta definitiva al tema che ci siamo proposti, data la varietà dei comportamenti rilevati; se ne deve ricavare certamente che, magari in uno stato di resistenza passiva, i casi di ribellione -o piuttosto di fuga- furono pochi e che il culto giornaliero e l'amministrazione dei sacramenti continuarono regolarmente; soprattutto non vi furono nè l'abbandono generale del territorio da parte del clero nè la ribellione al Principe auspicati dal Papa: non cessò, secondo un'immagine assai efficace, il suono delle campane, se pensiamo al ruolo fondamentale di questo segno nella vita di antico regime; vero è peraltro che ancor più rari devono esser stati i casi di protezioni e premi per i sudditi fedeli, e questo richiederebbe altri studi sul periodo successivo all'Interdetto. Oltre che ricordare la vittoria di Venezia sul piano del consenso internazionale, anche sul piano dell'impatto dell'Interdetto sul territorio da questo primo quadro risulterebbe confermato quanto già osservato da precedenti studi: se Venezia la vinse sul piano diplomatico non così nelle coscienze dei sudditi. A Bergamo in particolare,ove, per la crescente importanza militare e commerciale dovuta alla collocazione di confine, la società si comporta ed esprime, talora conflittualmente, certo ambiguamente, tra l'antico patriziato militare e rentier e le emergenti forze cittadine, ma specie valligiane, di origine mercantile. Nel caso dell'Interdetto, quando si rivolgono ai sudditi, i Rettori veneti utilizzano e valorizzano i primi, malgrado la loro inaffidabilità più volte denunciata. Quale fosse la loro influenza, positiva o negativa, è da studiare, ma le premesse non sono positive, se si considera quante rimostranze registra a loro carico il Capitano Da Lezze nella sua relazione su Bergamo di dieci anni prima; peggio ancora se venivano incaricati di rappresentare la legge veneta, alla cui equità i Bergamaschi si affidavano tradizionalmente fiduciosi, e per di più se venivano difesi nelle loro bravate dagli stessi Rettori, come denunciò il "popolo di Bergamo" in più di una protesta nel 1601. Dopo l'esperienza della riforma borromaica del 1575, da un lato, e, a tenaglia, di quelle laiche, giuridiche ed amministrative, si verifica, almeno dal 1601, nei Bergamaschi un dubbio sul governo veneto, che probabilmente si approfondì davanti alle "sfortune" militari e politiche e nella tragedia della peste del 1630, ed a cui non dovette essere indifferente la vicenda dell'Interdetto: se nel 1606 non ci fu ribellione a Venezia, nelle condizioni descritte, è probabile che Bergamo abbia recepito il messaggio papale attraverso uno dei modelli diversi, di cui la sua cultura "di confine" si imbeveva, in questo caso quello di Milano.
Pier Maria Soglian

Toptop



Appendice*

dalle pagine iniziali della Historia universale di Antonio Gargani, ms. in Biblioteca "A. Mai", Bergamo (sottolineature mie)

Giachè in questo spatio dell'età mia mi è toccato et tocca di veder ò sentire molte novità, anderò ramemorando le più notabili, così alla meglio per fuggire l'ocio, et per considerare con quanti modi l'onnipotente mano di N.S. Gesù Christo puossa castigare è benefficiare tutt'il genere humano.
Fù adonche l'anno 1606 interdetta dal sommo Pontefice nostro Paolo quinto la Republica di Venetia per occasione, da quanto si è detto, d'alcune ordinationi che aveva fatto in pregiuditio dell'Auttorità e Potestà Pontificia, le quali si è poi divulgato che fossero queste, cioè, che per l'avenire i Luoghi Pij, come conventi monasteri ò altri, non puotessero hereditare beni stabili, ò per dire meglio che tutti quelli beni che da qualcuno gli venivano donati ò lasciati non li puotessero possedere più d'anni due, e /2/passati detti due anni fossero forzati à venderli a persone libere.
Che non si puotesse più fabricare chiese ne conventi ò monasteri di sorte alcuna senza l'espressa licenza del Senato, overo delli deputati da quello, et che li preti e frati, et altri ecclesiastici, fosero sottoposti in casi atroci al foro secolare.
Per il qual'Interdetto mostrandosi li Venitiani molto alterati, comiciorno à fare le guardie alli preti e frati, astringendo ancora quelli sacerdoti, che nel suo Dominio si ritrovavano, che dicessero messa et officiassero secondo il solito, sotto pena della vita et confiscatione de beni (agg. a marg.: dispacciando ancora con bando che non puotessero più tornar nel Dominio veneto i Giesuiti), cominciò perciò il Papa, suggerito ancora, oltre la Corte di Roma, dal Re di Spagna, ad armare e fare gente, il che vedendo Venitiani si mossero anch'essi ad armare prestamente et con grandissima quantità di gente a piedi e cavallo e continuando a bollire giornalmente più li pensieri di guerra. S'interpose Henrico quarto Re di Francia à trattar /3/ accomodatione, la qual finalmente dell'anno 1607 fù stabilita per mezzo del cardinale di Gioiosa francese, che andò a Venetia à (agg. sul rigo: concludere et con tal occasione con auttorità ancora d') assolvere il Principe con tutta la Republica, parendo (agg. sul rigo: in tal accomodatione) che à Venitiani fossero ammesse le loro ordinationi sudette, ma che (agg. a marg.: dove non pretendessero farlo di propria potestà) le havessero supplicate à detto Sommo Pontefice, e così liberato tutto lo Stato de Venitiani da questo grande dolore che sentiva di vedere il suo Principe con tutta la Republica scommunicati, et privo delle gratie spirituali, godeva in universale grandissimamente.

(seguono dati su guerre del Monferrato e del Friuli, in genere negative per Venezia)

..."Tanto sono sfortunati li nri ssri, il che tutto il popolo attribuisse all'interdetto che hebbero dal sommo P. Paolo V l'anno 1606, sendosi osservato che dall'hora in qua le cose loro sono sempre andate declinando, volendo n.s. mostrare che si doveva riverire lui et abbandonar ogni ragione di stato et ogn'altro interesse, che commettere cosa, benchè minima, in pregiuditio et vilipendio della s.ta chiesa cattolica et apostolica sua sposa…"

tre sottolineature: rappresentano il dubbio, già all'epoca dei fatti, sulle ragioni della Repubblica e sulle tattiche diplomatiche di Venezia
Toptop