Ringrazio dell'invito a ricordare uno dei più grandiosi e discussi momenti della millenaria storia di Venezia in questa sede prestigiosa e nella bellissima città di Bergamo (che amo per molteplici motivi, non ultimo la disseminata presenza di Lorenzo Lotto); Bergamo e il suo territorio, ai confini dello Stato veneziano, e proprio per questo, a chi studia la storia politica e culturale veneziana, centro delicatissimo di comunicazione diplomatica, come testimoniano i dispacci dei Rettori bergamaschi al Senato e al Consiglio dei Dieci; ma Bergamo e il Bergamasco sono anche, per chi si occupa di storia veneziana, un sensore finissimo della politica interna della Serenissima, degli umori sociali, religiosi ed economici della Terraferma nei confronti della Dominante. E per venire all'argomento di questo incontro, l'interdetto del 1606, Bergamo e il Bergamasco assumono un rilievo particolarissimo e direi nevralgico nell'intera vicenda, anche perché, ripeto, terra di confine e contigua alla vasta diocesi
milanese. Ma di questo peculiare aspetto, del modo con cui Bergamo visse la contesa dell'Interdetto, non tratterò specificamente, ben guardandomi dall'entrare in un territorio storiografico ricchissimo e solo in parte sondato, ma che giustamente attende dagli storici locali – e l'intenzione c'è e anche ben più di un avvio di ricerca –, approfondimenti e nuove sistemazioni, dopo il quadro di insieme, essenzialmente a livello di documentazione, fornito dal Belotti.
Quattrocento anni or sono, e precisamente, il 6 maggio, quindi fra tre giorni, entravano in vigore le censure ecclesiastiche, che davano inizio all'interdetto veneziano. In quella data, rompendo gli indugi, il doge Leonardo Donà a nome della Serenissima, pubblicava il cosiddetto
Protesto, il documento ufficiale con cui si respingeva il monitorio pontificio, vero e proprio ultimatum di Paolo V al governo veneziano, perché si piegasse ai suoi dettami;
Protesto che segnava l'inizio di quel conflitto tra la Repubblica di Venezia e il papato, un evento di enorme risonanza, «che mentre è durato – scriverà Paolo Sarpi allo storico francese Jacques- Auguste de Thou – ha tenuto sospeso tutto il mondo», e che diede vita, a detta di uno storico attuale, a una spettacolare e vivacissima «campagna a stampa che fece dell'interdetto uno dei maggiori successi editoriali del Seicento, non solo in Italia, ma in tutta Europa» (de Vivo, p. 179).
Tappa fondamentale, è stato ancora scritto, nella storia di quel binomio "Stato e Chiesa", che percorre i due ultimi millenni del mondo occidentale e che chiama in causa il rapporto tra politica e religione, potere secolare e potere spirituale, o con linguaggio strettamente agostiniano la città di Dio e la città dell'uomo, il regno di Cristo e il regno di questo mondo; ambiti irriducibili per Paolo Sarpi, un personaggio che incontreremo più di una volta oggi, che nella sua consueta prosa cristallina scriveva al Senato veneziano, a pochi mesi dalla morte:
Non si possono incontrare e urtarsi se non quei che camminano per la medesma via; ma quei che vanno per diverse strade non possono né urtarsi né incommodarsi; [...] il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in cielo, e però la religione cammina per via celeste e il governo di stato per via mondana, e perciò uno non può mai incommodar l'altro.
Teorema quasi lapalissiano, in realtà di difficile soluzione, che solo apparentemente o in linea teorica si è creduto, in tempi a noi più vicini, di aver brillantemente affrontato; e penso, per fare un esempio risaputo, al cavouriano «libera Chiesa in libero Stato». Rapporto invero complesso e delicatissimo, che si ripresenta di continuo, se solo si riflette sulla tipica situazione italiana, o, perché no?, sui ciclici ritorni, oggi particolarmente drammatici, di fondamentalismi, islamici o meno. Argomento d'attualità il nostro, e, come osservava Giovanni Miccoli, «nessuno studioso di storia può dimenticare il presente in cui vive, può rinunciare all'ambizione di riuscire a leggerne, anche grazie al suo studio e alla sua esperienza di studio, alcuni percorsi» (la Rep. 28 aprile '06). A patto però che chi scrive o si accosta alla storia abbia sempre ben presente che è operazione scorretta, oltre che deviante, trattare un avvenimento del passato e i suoi protagonisti caricandoli di mentalità, valori,
concezioni politiche e religiose del nostro tempo. Ad altri, politologi, filosofi, teologi ecc., a voi stessi, il pieno diritto di fare questi trasbordi, non permessi allo storico, il quale più che guardare alle analogie, alle somiglianze, punta sulle diversità, sui mutamenti avvenuti nel breve o lungo periodo. Come ha scritto recentemente Carlo Ginzburg, «il passato è un paesaggio che va protetto», ed è dovere dello storico non inquinarlo con facili quanto scorretti anacronismi.
Nella contesa tra Venezia e la Chiesa romana, di cui ora tratterò, le concezioni politiche e giuridiche, i valori civili e religiosi erano sentiti diversamente da come li sentiamo noi. Mi spiego:
se a noi risulta ovvio che chiunque, anche un ecclesiastico, che commetta un omicidio sia sottoposto a un tribunale dello Stato, non lo era altrettanto quattro secoli fa, e fior di teologi e giuristi e filosofi ritenevano che questo esercizio per noi elementare della sovranità dello Stato fosse illegittimo e per il papa persino ereticale.
Galilei non viene certo diffidato e poi condannato nel tribunale dell'Inquisizione da ottusi e sanguinari personaggi, ché tale non era, per fare un nome illustre, il cardinale gesuita san Roberto Bellarmino, protagonista anche sul versante antiveneziano della contesa dell'Interdetto; e non meno fieramente si schiererà contro l'infedele Venezia il celebre cardinale Federigo Borromeo, l'emblema manzoniano di una Chiesa cattolica colta e illuminata. Ma pur sempre, dobbiamo aggiungere, una Chiesa del tempo, della Controriforma, convinta nelle sue concezioni non necessariamente soltanto teocratiche (che a dire il vero in quel tempo stavano montando e avevano nella curia romana non pochi paladini, pontefice compreso) di dover rispondere a Dio dell'inderogabile compito affidatole di guida dell'umanità; e quindi anche degli Stati, che allora stavano timidamente facendo propri i princìpi dell'assolutismo regio per investitura divina, passaggio obbligato verso una concezione dello Stato, chiamato a esercitare il
potere sovrano indistintamente su tutti, persone e ceti, laici ed ecclesiastici, e su tutto il territorio.
Nel limitato spazio di questo nostro incontro è già tanto che riesca ad accennare al fatto del 1606-1607; senza peraltro poter tratteggiare la situazione veneziana ed europea dei rapporti Stato-Chiesa all'inizio del Seicento e più generalmente la situazione storica di quello che è stato definito il secolo di ferro, tra il 1550 e il 1650. Ma visto che ho nominato Alessandro Manzoni, tanto vale rimandare al suo Seicento dei
Promessi sposi, così magistralmente e tragicamente ritmato sui tre flagelli della peste, della fame e della guerra.
Anche se, lo si vedrà, la contesa dell'interdetto sembra fare eccezione, nel senso che non registra fragori di armi, né, fortunatamente, epidemie e carestie, ma solo problemi di giurisdizione, di diritto canonico e civile, di incontri diplomatici, di dibattiti teologici e politici. Il tutto originato dalle censure ecclesiastiche della scomunica e dell'interdetto che il papa Paolo V fulmina contro il governo e il Dominio veneti nell'aprile del 1606 e che resteranno in vigore per un intero anno.
Complessa la casistica canonistica di queste due censure, ma per semplificare si può dire che la scomunica separa dal consesso ecclesiale il singolo cristiano, lo esclude dalla vita della Chiesa, il che una volta significava anche dalla vita sociale; mentre l'interdetto è in qualche modo una scomunica allargata a tutta la popolazione di un territorio o di uno Stato, dal momento che al clero viene ordinato dall'autorità ecclesiastica di astenersi dal celebrare ogni funzione religiosa, dalle messe, alla somministrazione dei sacramenti, alla sepoltura religiosa ecc. (con l'eccezione di alcune grandi festività): sanzione nei secoli passati pesantissima, gravida di riflessi sullo stesso ordine pubblico di uno Stato e sulle relazioni di carattere internazionale.
Censure ecclesiastiche, attinenti all'ambito spirituale, non dunque guerre. Anche se, come vedremo, alle armi spirituali, le censure appunto, non risultate sufficientemente efficaci, il pontefice penserà ad un certo momento di affiancare le armi temporali, cercando di convincere, benché senza esito pratico, soprattutto la Spagna a intervenire con i suoi eserciti, ma intanto obbligando la Serenissima al rafforzamento dei confini e a logoranti trattative diplomatiche per assoldare (il danaro non mancava) compagnie mercenarie da reclutare fuori d'Italia.
Una guerra di eserciti solo annunciata. Ma una guerra veramente ci fu, come insegnano anche i manuali scolastici di storia, tanto che dire Interdetto del 1606 significa
tout court rievocare la cosiddetta "guerra delle scritture", messa su da teologi e giuristi, soldati di una guerra di parole, ma, come scriverà l'eroe per eccellenza di quella guerra, fra Paolo Sarpi, «la materia de' libri par cosa di poco momento perché tutta di parole, ma da quelle parole vengono le opinioni nel mondo, che causano le parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre». Una guerra solo metaforica, in un momento in cui in Europa sonnecchiavano, rara parentesi, le armi, ma tutto sembrava in attesa di esplodere e lo farà, una dozzina di anni più tardi, con la devastante Guerra dei Trent'anni.
Non vera guerra, dunque, la contesa dell'Interdetto. E neppure periodo di epidemie e carestie, sventure che s'accompagnano alla guerra, come recita la classica invocazione "a peste, fame et bello, libera nos Domine"; e fortunatamente, ripeto, per Venezia, perché la contesa tra papa e Serenissima si sarebbe risolta in una partita troppo sbilanciata a favore della Chiesa, ben sapendo – e non solo per quei tempi, ma certo ancor più per quei tempi – che fame e peste erano flagelli di Dio e quindi giusta punizione per chi si ribellava a lui, o al suo vicario in terra, il pontefice romano.
Eppure... per tutto il tempo che durerà l'interdetto, un anno intero, volteggerà sul Dominio veneto una stranissima epidemia, che colpirà patriarchi e vescovi, vicari episcopali, curati e frati, i quali in occasione di celebrazioni liturgiche si troveranno malati o, come in occasione delle storiche pesti, si rifugeranno, i vescovi (e non farà eccezione il vescovo di Bergamo il teatino Giambattista Milani), ma anche nobili di Terraferma e persino patrizi veneziani e ancor più numerose le loro consorti, in campagna, fuori dall'occhiuto controllo degli Inquisitori di Stato. Epidemia che non risparmia neppure taluni ambasciatori italiani e stranieri accreditati presso la Serenissima in occasione di messe e festività religiose veneziane, e tutto questo, l'avrete già capito, per evitare di pregare in pubblico accanto a un doge e a un Senato scomunicati dal papa. Ma sull'altro versante, quello romano, anche qualche astutissimo cardinale si troverà bloccato a letto proprio quando Paolo V lo convocherà in
concistoro per avere il suo assenso sulla battaglia antiveneziana che sta intraprendendo.
A godere di ottima salute saranno invece i patrizi più accaniti contro Roma e anche questa volta per buona ventura: quale iattura per l'immagine di Venezia se il ribelle doge Leonardo Donà o l'anticuriale Nicolò Contarini fossero morti a interdetto inoltrato; il solito finissimo scrittore, che già si è immischiato nella nostra conversazione, e che non sarà facile tenere lontano, Paolo Sarpi, a 15 anni dalla fine dell'Interdetto, dopo che saranno morti i suoi più illustri antagonisti, i cardinali Baronio e Bellarmino e lo stesso papa Paolo V, celiando diceva che ora poteva morire senza che la sua morte fosse interpretata come una punizione divina.
E neppure l'ombra di alluvioni o siccità, allora frequentissime, o di carestie: sarebbe stata – inutile sottolinearlo – una totale débâcle per Venezia; la siccità colpirà, ma fuori tempo massimo, negli anni 1608-1609, le campagne venete, e alcune comunità di Terraferma vi riconosceranno la punizione divina per la ribellione dello Stato veneto al pontefice; e la Repubblica dovrà correre celermente ai ripari.
Non vorrei che questa premessa suonasse come una dichiarazione platealmente partigiana a favore di un contendente, Venezia appunto, e tantomeno un approccio, decisamente scorretto in sede storiografica, dal sornione tono anticlericale.
C'è che nella contesa dell'Interdetto del 1606 le atmosfere, le mentalità, le convinzioni religiose ma anche le superstizioni e i fanatismi, il giustificabilissimo timore o terrore del fulmini spirituali peseranno sul campo quanto almeno e forse più delle paventate armi degli eserciti e sicuramente – per molti, moltissimi – più che le ragioni dei libri. Ma peseranno anche altri fattori non facilmente ponderabili, come quello che potremmo chiamare, senza anacronismi, patriottismo, che spiegherà i comportamenti diversi della città di Venezia da altre di Terraferma, o, più o meno quantificabili, gli interessi economici, la formazione culturale laico-umanistica, la presenza in decenni passati di sacche di diffusione ereticale, la più o meno riuscita opera di confessionalizzazione della società urbana e rurale a opera della nuova Chiesa nata con il concilio di Trento.
Tanti, tantissimi fattori solo in parte passati al vaglio dalla storiografia, copiosissima peraltro sull'argomento, che rendono questa pagina di storia veneziana ancora aperta a indagini e a novità, che ci auguriamo intensificarsi proprio nell'occasione di questo quarto centenario.
E mi avvicino, finalmente, alla cronaca di quell'avvenimento, che uno degli osservatori più intelligenti sul posto, l'ambasciatore francese a Venezia Philippe Canaye de Fresne, definirà, a contesa conclusa, «un'Iliade di guai per un'Elena da così poco». Una contesa dalle catastrofiche conseguenze, a suo giudizio, ma nata per motivi di poco conto. Vediamo se il contendere era proprio così da poco e poi rapidamente passiamo all'Iliade.
Con un brevissimo sguardo indietro.
Nei due secoli che precedono l'Interdetto del 1606 le relazioni tra Venezia e Roma non erano state generalmente improntate all'insegna dell'armonia. Ora più sotterraneo ora più appariscente l'antagonismo tra i due Stati principali d'Italia aveva accompagnato una convivenza difficile, benché solo a momenti sfociata in aperte contese, come la guerra di Ferrara del 1482, che vedeva su due schieramenti opposti Venezia e Sisto IV, e il rovinoso scontro con papa Giulio II nel 1509, animatore irriducibile della lega di Cambrai e della disfatta di Venezia, soccombente sotto i colpi di mezza Europa. I due pontefici in guerra con la Serenissima erano ricorsi, come era consuetudine inveterata, anche all'arma delle censure, usata però troppo scopertamente in funzione politica per turbare a fondo le coscienze, come invece succederà con il nostro interdetto.
Venezia allora aveva risposto in entrambi i casi non solo ignorando i fulmini spirituali, ma anche facendo ricorso all'appello al futuro concilio generale. Sfida temeraria, da cui Venezia era uscita indenne nel '400: il papa Innocenzo VIII, succeduto a Sisto IV, dovrà ritirare le censure senza ottenere alcun atto di sottomissione veneziano; ma ben diversamente erano andate le cose con Giulio II: l'umiliante riconciliazione era stata pagata a prezzo talmente mortificante e gravoso, che Venezia rifiuterà sempre con vari pretesti di riconoscere la presunta capitolazione.
A un secolo di distanza i due antagonisti si trovavano nuovamente a fronteggiarsi, ma su posizioni vistosamente mutate. La Serenissima era ormai, in un Europa tanto diversa, uno Stato politicamente marginale; il papato, uscito dai drammatici decenni della lacerazione della Riforma, ricuperati prestigio e forza, guidava invece una Chiesa cattolica trionfante che si identificava nel pontefice. Anche a Venezia ne avevano preso atto con realismo quei patrizi più prudenti, che vedevano ineluttabile l'egemonia asburgica e trovavano rassicurante una stretta alleanza, che era anche sottomissione, col papato; non così altri, recalcitranti, più irruenti, chiamati anche per questo i "giovani", insofferenti della stagnante acquiescenza agli Asburgo, e – a vari livelli – al papato, sentito non solo troppo legato alla Spagna, ma, nel nuovo clima della Controriforma, religiosamente e politicamente opprimente. Un giogo, sintetizzerà icasticamente Sarpi, «sopra il collo d'Italia» di «due monarchie, una sopra i corpi e
l'altra sopra le anime».
La presenza dei cosiddetti "giovani" nei massimi organismi governativi si era fatta più vivace fino a diventare preponderante nei due ultimi decenni del Cinquecento. E ne avevano risentito i rapporti veneto-pontifici sotto gli ultimi pontificati, in un preoccupante clima di tensione e di diffidenza per innumerevoli motivi conflittuali.
Si andava, tanto per accennare ai motivi di attrito più scottanti, dal proclamato dominio veneziano sul mar Adriatico, che impediva i liberi commerci di porti pontifici come Ancona e Goro, ai lavori di arginamento e deviazione da parte veneziana di rami del Po in luoghi di controversa giurisdizione, ora che lo Stato pontificio con la recente annessione del Ferrarese era diventato scomodo confinante con il Dominio veneto; alla sfuggente, ma sostanzialmente ferma opposizione della Repubblica a seguire gli appelli pontifici alla lotta antiturca; alla difesa dei marrani che in Venezia tornavano non di rado al giudaismo; al problema mai pacificato dell'Inquisizione romana e dell'Indice dei libri proibiti; alla scarsa propensione della Repubblica, e dei "giovani" in particolare, a rispettare i troppo rigidi confini della «libertà ecclesiastica», e cioè le molte immunità personali e reali del clero (foro ecclesiastico, esenzione da tributi, diritto d'asilo ecc.). Contrasti che non erano sfociati in aperta
rottura grazie anche all'azione moderatrice, dall'una parte e dall'altra, di influenti personaggi come il patrizio veneziano Giacomo Foscarini e il cardinale nipote Pietro Aldobrandini, filoveneziano. Alla morte di Clemente VIII e dopo l'effimero pontificato, nell'aprile del 1605, di Leone XI, il 16 maggio veniva eletto al soglio pontificio il cardinale Camillo Borghese col nome di Paolo V.
Il grottesco ma acuto ritratto che apre l'
Istoria dell'Interdetto di Paolo Sarpi mette in rilievo l'educazione e la mentalità curialistica del nuovo papa e le sue smodate convinzioni teocratiche; con effetti allarmanti sui rapporti con la Serenissima. Non solamente erano tornati a galla i motivi di tensione solo in parte sopiti con Clemente VIII, ma i dispacci da Roma dell'ambasciatore veneziano Agostino Nani registravano, a partire dall'estate del 1605, in un crescendo preoccupante, sempre nuove rimostranze del papa contro la Repubblica, che finivano con l'irritare la suscettibilità del patriziato veneziano anche più moderato. Nel Senato veneziano si acuiva la sensazione di avere a che fare con un interlocutore pregiudizialmente ostile.
Da fine ottobre poi le recriminazioni di Paolo V si andavano trasformando in vere e proprie ingiunzioni, tanto che cresceva la convinzione nella classe dirigente veneziana di essere oggetto di un accanimento non occasionale, fomentato da ostili personaggi della curia romana e dalle manovre spagnole.
Il 22 ottobre Agostino Nani dava notizia di un papa fortemente turbato nel denunciare una legge veneziana del 26 marzo 1605, che metteva un freno all'alienazione da parte dei laici di beni immobili (ma non il corrispettivo in denaro) agli ecclesiastici (un limite alla manomorta, possedendo gli ecclesiastici, che rappresentavano meno di un centesimo dell'intera popolazione, una gran parte dei terreni: nel Padovano un terzo, nel Bergamasco quasi la metà ecc., con gli inconvenienti che possiamo immaginare, anzitutto in pagamenti di imposte allo Stato).
In altro dispaccio era la volta di una legge della Repubblica del 10 gennaio 1604 che estendeva all'intero Dominio la proibizione, già in vigore dal XIV secolo per la città di Venezia, di costruire chiese o altri luoghi pii senza licenza del Senato.
Nelle stesse settimane la notizia giunta a Roma dell'incarcerazione da parte del Consiglio dei X di due ecclesiastici accusati di delitti, almeno in un caso, gravissimi (omicidi e stupri ecc.), senza una pronta consegna al tribunale della Chiesa, aveva fatto scattare l'ennesima rimostranza del papa, che ingiungeva alla Repubblica il rilascio al foro ecclesiastico dei due carcerati.
Motivi di forte attrito, se si vuole, ma non inusuali e che in altri momenti si sarebbero appianati con un compromesso o con una diplomatica dissimulazione, ma che ora trovavano al vertice dei due schieramenti un papa troppo compreso nel ruolo di supremo giudice spirituale e temporale, e che pertanto riteneva doveroso intervenire pesantemente negli affari di uno Stato cattolico, e a Venezia il cosiddetto gruppo patrizio dei ‘giovani', combattivo, anticuriale e antiasburgico.
Ai primi di dicembre le cose precipitavano: a un Senato che ostentatamente mostrava di non voler cedere su nessun punto, il pontefice inviava due brevi, durissimi nella sostanza, il primo sulle leggi del 1604 e del 1605, l'altro sui due ecclesiastici processati.
Ad aprire i brevi pontifici, dopo la morte del doge Marino Grimani, era Leonardo Donà, eletto doge il 10 gennaio 1606, l'uomo più prestigioso del patriziato, ma anche il fautore d'una linea di condotta improntata a un altissimo senso dello Stato.
Ancor più significativa e gravida di conseguenze, benché al momento meno avvertita, la nomina seguita qualche giorno dopo a teologo e canonista della Repubblica del frate servita Paolo Sarpi; teologo e soprattutto acuto filosofo, scienziato e matematico. Sorprendente la scelta di questo appartato intellettuale che dalla vita trascorsa tra libri ed esperimenti scientifici e nel socratico conversare nei circoli intellettuali di Venezia e di Padova, abbandonata ora la torre d'avorio dello studioso, entrava nel gran teatro della vita politica e religiosa non solo veneziana, ma italiana ed europea. Ma forse è meno sorprendente che proprio su Venezia si abbattano le censure ecclesiastiche di Paolo V, quella Venezia di fine Rinascimento, dove il grande pensatore politico Jean Bodin immaginava lo svolgimento di un colloquio
Colloquium eptaplomeres tra un cattolico, un luterano, un calvinista, un musulmano, un ebreo, un filosofo razionalista e uno scettico, per trovare una concordia sentita come
necessaria alla convivenza civile dell'umanità; una Venezia in cui qualche decennio più tardi Galilei ambienterà il
Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, manifesto della nascita della scienza moderna, libera nella sua ricerca nel gran volume della natura; e ancora quella Venezia, dove Eméric Crucé immaginerà di istituire un'assemblea stabile di rappresentanti di tutti gli Stati per garantire una pace mondiale. L'Interdetto, e Venezia e Paolo Sarpi «l'intellettuale – come ha scritto Gino Benzoni – che più ha contato nella storia della Serenissima», quasi cerniera tra Rinascimento e Barocco?
Per rispondere ai brevi pontifici la Repubblica aveva interpellato oltre ai suoi consultori in iure, altri rinomati giuristi dello Studio padovano, a fronte di un solo teologo; perché il contendere era sentito di carattere essenziamente giuridico: bisognava dimostrare che la Serenissima aveva diritto di emanare quelle leggi, da tempo in vigore e riconosciute o non contestate dai pontefici, che il diritto comune e quello canonico, gli Statuti veneziani e la consuetudine ne provavano la legittimità. Dotte, dottissime le scritture latine dei giuristi, ricche di allegazioni e di giurisprudenza. A staccarsi nettamente da questa impostazione era la prima scrittura in italiano consegnata da Sarpi per la lettura in Senato col titolo
Trattato sopra la forza e validità della scomunica giusta e ingiusta. Non era una difesa delle leggi veneziane, ma la risposta politico-religiosa alla minaccia di censure ecclesiastiche presenti nei brevi pontifici. Sarpi insegnava ai senatori veneziani – ma forse sarebbe
meglio dire che esprimeva con lucidità e profondità quanto sentito da almeno parte della classe dirigente veneziana – che tanto il governo quanto i singoli cittadini non dovevano lasciarsi intimorire da censure ecclesiastiche illecite e invalide anche se provenienti dalla suprema autorità religiosa. Bisognava invece mettere in discussione la presunzione del pontefice di dettare legge ai sovrani temporali, un potere mai ricevuto da Cristo; e il cittadino doveva convincersi che anche l'esercizio del potere spirituale aveva un limite nell'autonomia della coscienza del cristiano, lui responsabile direttamente di fronte a Dio, senza coperture o intermediazioni della Chiesa: l'obbedienza al papa non esimeva il cristiano dalla sua responsabilità personale; obbedire a un ordine ingiusto, o indebito, sia pur del papa, era peccato.
Tema religioso ed ecclesiologico, ma non disgiunto da alti momenti di riflessione politica. Come quando scrive:
Non posso restar di dire che nessuna ingiuria penetra più nell'intimo d'un principato quanto che la sovranità sii limitata e sii soggieta a legi d'altrui: tanto è principe chi possede molta, come poca parte del mondo, né Romolo fu manco principe che Traiano, né Vostra Serenità al presente è maggiore che li maggiori suoi, quando non usciva il loro imperio le lagune. Chi leva una parte dello Stato al principe, lo fa principe minore, ma lo lascia principe; chi li impone legi e lo vuole obligare, se bene possedesse un'Asia intiera, lo priva della essenza di principe.
Chiedo venia della lunga citazione: ma qui mi pare stia una delle svolte profonde di tutta la controversia, quella differenza che fa di una accesa ma non rara diatriba di carattere giurisdizionale che interessava quotidianamente e da secoli gli Stati cristiani, un dibattito dottrinale, un momento importante, come scrive Federico Chabod, della stessa vita spirituale italiana ed europea, «una tappa significativa nella storia delle dottrine e del pensiero storico-politico».
Tra gennaio e marzo il Senato dava ai due brevi pontifici una risposta deferente nella forma, ma ferma e intransigente nella sostanza. Un ambasciatore straordinario inviato a Roma nella persona di Pietro Duodo, diplomatico più moderato e duttile del Nani, per ritardare più gravi e intempestivi provvedimenti, non sortiva alcun effetto. Anzi Paolo V aveva persino aggiunto tra le sue diffide anche una legge veneziana del 1602, dettata sempre allo scopo di limitare la manomorta, che non riconosceva agli ecclesiastici il diritto di prelazione sui beni enfiteutici. Tardivamente Venezia si era detta disposta a offrire al papa il rilascio al suo tribunale di uno dei due ecclesiastici incarcerati. Venezia doveva consegnare, ribadiva però Paolo V, al foro ecclesiastico entrambi i prigionieri, ritirare le leggi incriminate sugli immobili del clero e quella sui cosiddetti beni enfiteutici, pena l'Interdetto.
Che veniva fulminato il 17 aprile 1606, con un monitorio indirizzato agli ecclesiastici del Dominio, nel quale Paolo V oltre a dichiarare nulli i decreti e i provvedimenti della Repubblica oggetto della contesa, stabiliva l'entrata in vigore della scomunica di doge, Senato, Consiglio dei X ecc. dopo il ventiquattresimo giorno e colpiva l'intero Dominio con l'interdetto dopo altri tre, se nel frattempo la Repubblica non si fosse piegata ad accettare le condizioni poste dalla Santa Sede.
L'affissione era stata preceduta, quel giorno stesso, dalla convocazione del concistoro, in cui il papa aveva esposto ampiamente la situazione della contesa con Venezia e aveva chiesto il voto del collegio cardinalizio, ottenendo un consenso pressoché unanime.
Prima ancora dello scadere dei termini, la Repubblica prendeva tempestivi provvedimenti per far fronte all'attacco pontificio. A Paolo V che negava al popolo cristiano del Dominio la partecipazione a «messe e divini uffici», al chiaro scopo di farlo ribellare contro i propri governanti, il Senato doveva trovare il modo di garantire il regolare svolgimento dei riti religiosi, anzitutto impedendo la divulgazione della notizia e l'affissione in pubblico del monitorio. Così il 17 il Senato dava ordine a tutti i prelati del Dominio di non lasciar pubblicare in alcun luogo il monitorio o altra bolla pontificia; il 18 il Consiglio dei Dieci faceva un proclama che chiunque avesse copia del monitorio la dovesse presentare ai magistrati veneti; il 20 consegnava a tutti i rettori delle città una comunicazione sulla contesa col pontefice da leggere alle assemblee delle comunità del Dominio.
Il divieto di ricevere quei documenti, il consegnarli chiusi alla Repubblica, l'impedire che qualcuno li introducesse da fuori (vigilatissimi i portalettere e le porte delle città) davano l'avvio a un capillare controllo, snervante e fastidioso, che non stenteremmo a definire da vero regime poliziesco. Impensabile, d'altronde, lasciare entrare in vigore il monitorio, quasi che una popolazione potesse indifferentemente rinunciare alla sua vita religiosa comunitaria, perno del rituale svolgimento del vivere associato. (con finezza, mi faceva osservare uno studente, forse anche memore dello scampanio manzoniano in occasione della visita pastorale del Borromeo, come sarebbe stato accettato il silenzio delle campane, che ritmavano la vita quotidiana delle comunità rurali e urbane?)
Bisognava anche rispondere al documento del pontefice, prima che le censure comminate entrassero in vigore. In quei giorni il Senato veneziano era stato interessato da un dibattito intenso e acceso, in vista delle decisioni non più procrastinabili e gravide di conseguenze per la Repubblica ma anche per la Chiesa: ed era naturale che in questo momento riprendessero vigore le voci della prudenza e della moderazione: si consigliava fermezza di fronte all'irriguardoso dettato del papa, ma senza alcun atteggiamento provocatorio, che non avrebbe riscosso simpatie nel consesso internazionale cattolico: quindi nessuna risposta al monitorio che denunciasse in toni religiosamente risentiti l'anacronistica dottrina teocratica del papato e la sua sostanziale mancanza di sentimento cristiano. Che era invece quanto proponeva fra Paolo Sarpi, che perorava anche il ricorso estremo, e non sgradito al mondo cattolico francese e tedesco, al concilio generale. Si decideva alla fine di assumere formalmente un atteggiamento
solo difensivo, benché fermissimo: la Repubblica rifiutava di ricevere il monitorio e le censure pontificie, perché ingiuste e invalide. Usciva così a stampa in data 6 maggio 1606 a nome del doge Leonardo Donà il documento ufficiale della Serenissima che respingeva il monitorio pontificio (e per questo verrà denominato
Protesto), rivolto, come quello romano, al clero veneto, a cui si ordinava di attendere al suo ufficio pastorale, come se nulla fosse accaduto.
Cominciava ufficialmente il periodo dell'Interdetto. Entrambi i contendenti erano convinti che l'avversario avrebbe in breve ceduto. Bisognava prevenirlo, agendo con tempestività: da parte pontificia per ottenere l'adesione incondizionata del clero, secolare e regolare, alto e basso, all'applicazione dell'Interdetto, rifiutando ogni celebrazione degli uffici divini in tutto il Dominio; da parte veneziana per convincere o obbligare il clero a rifiutare l'obbedienza al pontefice.
Scarse e solo iniziali le resistenze dei vescovi delle principali diocesi della Terraferma, tutti appartenenti al patriziato veneziano: il rischio di dover lasciare le laute rendite, le pressioni fatte immediatamente dal Collegio sulle famiglie patrizie di appartenenza, che avrebbero rischiato una perdita di prestigio politico ed economico, furono motivi determinanti per una defezione massiccia non messa in conto da Roma, almeno in quella dimensione. Conseguentemente anche il clero secolare basso, quello delle parrocchie, ignorò l'Interdetto, con rare eccezioni almeno nei primi mesi. Ai renitenti la Repubblica minacciava, e qualche volta mise in pratica, sanzioni severe, fino al carcere; anzi, alcuni teologi avevano suggerito al governo veneziano di comminare ai dissidenti persino la pena di morte, non per metterla in esecuzione, ma per precostituire un alibi valido anche dal punto di vista giuscanonistico per quegli ecclesiastici che avessero disubbidito agli ordini della Santa Sede, dal momento che una
minaccia siffatta esentava, secondo le leggi canoniche, dall'obbedienza al papa (Pierre de l'Estoile raccontava divertito di un prete padovano che "aimait mieux etre excommunié deux ans que d'etre pendu une heure").
Ma fuori celia, spesso a costringere i curati a rimanere erano gli stessi fedeli, che si dimostreranno poco disposti, anche finita la contesa, a ricevere quei preti che li avevano abbandonati nei momenti difficili.
E non bisogna trascurare anche un'altro motivo, che una corte romana, povera di senso pastorale, e tale era anche Paolo V, uomo di curia, di tribunali ecclesiastici, poteva bellamente sottovalutare, ma non i veri pastori d'anime, preoccupati di lasciare per settimane e mesi i fedeli senza assistenza religiosa, senza sacramenti, con il rischio di favorire fenomeni ereticali se non una crescente scristianizzazione.
Diversa la situazione degli ordini religiosi presenti nel Dominio. Il problema della disobbedienza al Protesto della Signoria si presentò quasi solo per gli ordini di recente fondazione, vere truppe scelte della Controriforma: il resto del clero regolare in particolare gli antichi ordini monastici e mendicanti (benedettini, francescani, domenicani, agostiniani, serviti, carmelitani ecc.) non si mossero, e non solo per la minaccia dell'esilio o per la perdita delle proprie fonti di sostentamento. Qualche speranza iniziale Venezia l'aveva avuta persino con i Gesuiti: ancora dopo il
Protesto essi avevano tentato di escogitare qualche formula compromissoria; ma da Roma era giunto perentorio l'ordine di totale obbedienza; quando fecero sapere in Collegio di sentirsi obbligati in coscienza a rispettare le disposizioni ricevute dai propri superiori, il Senato decise di mandarli immediatamente fuori del Dominio: un esilio che nel caso specifico dei gesuiti fu aggravato poco dopo dall'emanazione di un
decreto mirante a impedire il loro ritorno anche dopo la soluzione della vertenza. Li seguirono pressoché subito anche cappuccini, teatini, francescani riformati. E questo tanto in Venezia quanto nella Terraferma, dove i rettori generalmente furono in grado di assicurare una sostanziale regolarità nella celebrazione dei divini uffici e anche nella predicazione di avvento e quaresima.
La classe politica veneziana aveva manifestato una sostanziale compattezza, che doveva aver sorpreso la curia romana, fiduciosa in una spaccatura del patriziato di fronte a tanta evenienza.
La vertenza durerà per ben un anno. Difficile, defatigante, con un Paolo V all'attacco, come si conveniva a chi aveva voluto lo scontro, e la Repubblica in difesa, a parare i colpi. Sotto l'occhio delle corti dell'intera Europa, interessate certo al dibattito giurisdizionalistico, che toccava la legislazione di tutti gli Stati, ma di fatto defilate, con l'eccezione dei Paesi riformati. E' vero che gli Stati anticattolici avevano subito parteggiato per Venezia, ma gli Olandesi dovevano badare alla Spagna, Giacomo I d'Inghilterra, subito pronto a offrire aiuto alla Serenissima, lo avrebbe fatto più a parole che nei fatti. La Spagna, nella sua autocandidatura a paladina della Chiesa, non faceva però mistero del suo schieramento contro l'invisa Repubblica, ma non di più. E la Francia di Enrico IV, vicina a Venezia per antichi e recenti rapporti di amicizia, badava a scongiurare un deteriorarsi della situazione foriera di pericolosissime conseguenze.
A estate inoltrata si registrava una situazione di stallo. A smuovere le acque era ancora Paolo V con l'abilissima mossa di proclamare un giubileo straordinario concesso a tutti i territori non soggetti ad interdetto. Efficacissimo nello spingere tanti sudditi veneti a uscire temporaneamente dai confini per lucrare le indulgenze con il conseguenze risultato psicologico di farli sentire diversi e penalizzati a causa dei loro governanti ribelli. Armi insidiose, ma ancora solo spirituali: e insufficienti al momento a fiaccare la resistenza veneziana.
Ecco allora il pontefice sempre più fermamente convinto della necessità di un conflitto armato con la Serenissima: ai suoi pressanti appelli, il re spagnolo Filippo III faceva circolare in luglio la notizia della sua disponibilità, suscitando nel governo veneziano perplessità e preoccupazione, e obbligandolo, come già faceva da tempo il papa, ad arruolare milizie.
Ma un'altra guerra vedeva Venezia non sulla difensiva ma all'attacco. Come già ho accennato, si tratta della "guerra delle scritture", cioè del fronteggiarsi degli intellettuali sia laici sia ecclesiastici che avevano preso posizione chi a favore di Venezia, chi della Santa Sede con trattati o
pamphlets inizialmente manoscritti poi sempre più numerosi a stampa: lavori di pochi fogli o anche di centinaia di pagine. Una guerra sicuramente ostacolata all'inizio dai contendenti ufficiali: tanto a Venezia quanto a Roma si capiva che l'avvio di una battaglia delle idee avrebbe portato lontano e accresciuto le distanze. Era Sarpi con i "giovani" più radicali a rompere gli indugi. E ancora una volta non saranno tanto le stigmatizzate leggi veneziane al centro dello scontro, quanto piuttosto il tema delle censure, la contestazione dell'infallibilità del pontefice, i limiti della sua potestas sulle coscienze, e il categorico rifiuto del potere statale a rispondere a un potere religioso, che pretendeva una
superiorità in vista dei suoi fini soprannaturali [la cosiddetta potestas indirecta]. Da agosto fino all'aprile del 1607 usciranno centinaia e centinaia di scritti, da una parte e dall'altra; una guerra di carta condotta non di rado con estrema aggressività. Interverranno per il papa grandi nomi della Chiesa, i cardinali Bellarmino e Baronio, già ricordati, alti prelati e teologi di fama, e poi una pletora di laici ma soprattutto di frati, a gara da una parte a inneggiare al papato, ad attribuirgli, spesso smodatamente, poteri teocratici insindacabili su fedeli e Stati, dall'altra a coprire di contumelie i veneziani ribelli della Chiesa, con la costante delle minacce divine per quegli scismatici ed eretici che seguivano le orme di Marsilio da Padova, di Lutero, di Calvino, quando negavano il potere coercitivo del papa sulla società: vera eresia, inconcepibile anche per il moderato Bellarmino; eresia che costerà la scomunica a Sarpi e l'attentato di cinque sicari sul ponte di Santa Fosca a pochi mesi
dalla fine della contesa. Più pacati gli scrittori del versante veneziano, quelli almeno controllati direttamente dal centro, come il patrizio Antonio Querini e sopratutto fra Paolo, mai volgare o insultante, bastandogli l'arma sottile dell'ironia e la forza dell'intelligenza. Difficile sfuggire alla noia nel sostare su tanti di quei libelli; ma anche ricchissima la materia trattata, coinvolgente, oltre gli ineludibili problemi giurisdizionali, temi della Chiesa, antica e moderna, dei rapporti dei fedeli con le gerarchie ecclesiastiche, dell'obbedienza del cristiano ai dettami della Chiesa ma anche della propria coscienza; degli Stati nei rapporti con il papato, dei sudditi con i rispettivi governi, dei limiti di Stato e di Chiesa nei confronti del singolo. Materiale incandescente e vivissimo in quest'inizio di '600.
L'Europa dei dotti aveva assistito inizialmente ammirata e turbata, poi inevitabilmente era scesa nella contesa. Su un fronte e sull'altro: con una prevalenza in Italia di interventi a favore del papato, all'estero, Francia, Inghilterra, Germania, Polonia ecc., di Venezia. In quei paesi europei si erano presto registrati un profondo interesse e aperte manifestazioni di simpatia per la lotta sostenuta dalla Serenissima e soprattutto per l'immagine del servita, per il suo messaggio lucido ed efficace non solo di carattere politico, che richiamava le dottrine dello Stato di Jean Bodin e quelle assolutistiche di Giacomo I Stuard, ma di contestazione dell'operato romano, la messa in discussione del suo infallibile magistero, la sfiducia in una Chiesa che proprio nella contesa si era mostrata del tutto refrattaria a mettere un limite a quell'autoritarismo attuato nei decenni seguenti al concilio di Trento, e giunto al culmine con l'inizio del pontificato di Paolo V.
La messa in discussione in un pubblico dibattito, anche in Italia, dei poteri pontifici era già un grave smacco per la Chiesa controriformistica. Ma anche il mito di Venezia, quello della sua nascita libera, il suo repubblicanesimo dalla costituzione politica perfetta, la sua società armonica, non uscivano indenni dalle penne acute e avvelenate di un Antonio Possevino o di un Tommaso Campanella.
Difficile dire non della bontà dei contenuti, ma della concreta efficacia della persuasione. Ma anzitutto andrebbe messo in conto la diffusione delle scritture, forse non particolarmente influenzata dalla messa all'Indice da parte dell'Inquisizione romana delle opere filovenete (a differenza di Venezia, che permette la circolazione di quelle di parte pontificia).
Per tutto il 1606 la Repubblica aveva, nonostante qualche tergiversazione, respinto ogni proposta di accordo che implicasse un cedimento, benché parziale. Così era caduta la prima mediazione francese che comportava una temporanea sospensione dell'applicazione delle leggi incriminate. Né aveva avuto esito più felice una mediazione spagnola. Altri Stati si offriranno a gara come pacieri, ma senza fattive risposte della Serenissima.
L'inizio del 1607 segnerà il momento più drammatico nella storia della contesa: il papa, senza via d'uscita, invocava con ostinazione la guerra; il Dominio veneto subiva una massiccia ondata di libelli minaccianti vendette divine, appelli ai vari ceti sociali perché si dissociassero dai loro governanti. Innegabile un crescente disagio nel patriziato veneziano, che incrementava i controlli sui sudditi, poiché da più parti si registravano cedimenti preoccupanti, malumori popolari, defezioni più frequenti del clero specie nei territori di confine.
Nella classe dirigente veneziana il partito moderato si rinforzava a scapito dell'intransigente gruppo dei "giovani", da cui lo stesso doge Donà sembrava prendere le distanze.
Da Roma giungevano informazioni allarmanti: il cardinale Giovanni Dolfin faceva sapere che il papa preparava «una bolla d'escomunica contro tutti, e prencipi e particolari, di ogni sorte, che aiuteranno la Signoria di Venezia»; aggiungendo che, ammassando eserciti pontifìci e spagnoli ai confini del Dominio veneto, Paolo V sperava «di far sollevar gli populi» della Terraferma.
Posizioni estreme, segno di logoramento senza via di sbocco. Provvidenziale, e ben calcolato, allora l'arrivo a Venezia, a metà febbraio, dell'inviato di Enrico IV, il cardinale François de Joyeuse, accolto da un patriziato non più compatto nella difesa a oltranza dei diritti della Serenissima e sempre più disposto a chiudere la contesa. Facendo la spola tra le due capitali, il cardinale e la diplomazia francese, riusciranno 21 aprile 1607 in Venezia a metter fine alla vertenza con un cerimoniale svoltosi fra molte ambiguità, tanto che si daranno versioni contrastanti, affermandosi da parte curiale che il cardinale avesse impartito l'assoluzione al doge e al Collegio, mentre da parte veneziana si negò sempre recisamente il fatto.
In verità, la Repubblica usciva vincente dal logorante contrasto: il papa ritirava le censure, mentre le leggi veneziane da lui incriminate restavano in vigore. Clero secolare e regolare, anche quello che aveva lasciato il Dominio, tornava ai normali compiti religiosi. Con l'eccezione veramente rimarchevole dei gesuiti, i difensori più strenui del papato, che la Repubblica aveva rifiutato di riaccogliere: una resa cocente per Paolo V, che aveva dovuto accettare l'umiliazione, forse anche perché allarmato dal cardinale Du Perron che gli aveva prospettato il pericolo, in realtà inesistente, di uno scisma veneziano, se non persino di un passaggio alla Riforma dell'avversario. La «pace» era stata accolta ovunque come una liberazione e nella Terraferma anche con incontenibili manifestazioni di giubilo. Liberazione da una paventata guerra, che già aveva gravato sulle casse dello Stato per milioni di ducati e sui sudditi con imposte straordinarie; liberazione da un malessere delle coscienze, da una situazione
di indubbio disagio, di tutti i ceti sociali indistintamente, di clero e di laici.
Il dopo-interdetto vedrà la Sede Apostolica, nonostante una iniziale volontà di rivincita, saggiamente più guardinga, e soprattutto non più intenzionata a ricorrere a censure ecclesiastiche dall'esito incerto e persino controproducente. Il grande dibattito dell'autonomia (oggi diremmo, un po' impropriamente, della laicità) dello Stato procederà d'ora in avanti in tutta Europa (e nella stessa Venezia) più coscientemente e speditamente. Tuttavia il prezzo politico che allora la Repubblica di Venezia pagò fu piuttosto duro: un'ulteriore lacerazione nella classe dirigente veneziana; l'approfondirsi del distacco nei confronti della Terraferma e la maggior difficoltà di esercitarvi l'autorità. Dunque un'Iliade di guai per Roma, ma anche per Venezia.
E qui si aprirebbe un ampio capitolo, uno dei tanti che il grande avvenimento dell'Interdetto chiamerebbe in causa: il comportamento della popolazione laica ed ecclesiastica durante l'anno della contesa. Illustrazione amplissima, che vorrebbe almeno un'altra conferenza. Tema solo apparentemente secondario, che varie ricerche otto e novecentesche di storici più o meno locali hanno affrontato, spesso solo a livello cronachistico.
Ma a questo punto bisognerebbe distinguere tra città e campagna, tra alfabetizzati e no, tra veneti, cioè di qua del Mincio, e Lombardi (Brescia, anzitutto, e Bergamo, città di confine sotto l'arcivescovato di Milano, e per il Bergamasco, in parte nella stessa diocesi milanese; ma anche Verona, da sempre sul versante delle due regioni).
In generale si può affermare che tanto in Venezia quanto nel Dominio di Terra e da Mar la Repubblica aveva resistito bene, grazie certo ai controlli anche polizieschi di cui si è detto, ma più semplicemente per un attaccamento alla Serenissima dei sudditi e anzitutto del clero secolare e degli ordini religiosi di antica data. Nessun particolare problema registravano i rettori di molte località, come Belluno o Bassano, soprattutto dove non erano presenti o radicati i nuovi ordini religiosi, gesuiti o teatini. Meno tranquille, ma senza fatti apertamente clamorosi, Padova, Verona e Vicenza. Ma non erano mancate manifestazioni, sia pur sporadiche, di ribellione.
Insidioso il comportamento di intere comunità del Bresciano che, come informa un rettore, si erano accordate col loro curato «d'osservar l'Interdetto, e che contentandosi lui di non celebrare, si contenteranno loro di non palesarlo»; non diversamente da quanto faceva sapere preoccupato il provveditore generale in Terraferma Nicolò Dolfin alla fine di ottobre 1606, scrivendo al Consiglio dei Dieci che in varie comunità «così li popolari come li nobili vanno sempre più titubando; lasciando di frequentar le chiese, o sacrifici ordinari, e omettendo le confessioni e altri sacramenti necessari [...]; e che molti [...] vanno a ricever li sacramenti fuori dello Stato».
Per Venezia, dove il controllo era stato più capillare e la devozione alla Repubblica più massiccia e forse più convinta, dove anche era più diffusa un'ampia gradazione di miscredenza a tutti i livelli, si era assistito a discordanti reazioni. Per tutte, l'episodio dell'allontanamento dalla città dei gesuiti. Molti i devoti, tra il patriziato e il popolo, per il più potente ordine della Controriforma. Significativa, pertanto, la lettera di una donna veneziana appartenente al ceto cittadino, dove narrava con forte passione il distacco dai padri: «non vi finirei – scriveva al marito – i pianti e i lamenti e i scorni, che erano in quella chiesa: certo era cosa da morire, et essi era allegri del martirio, che Dio benedetto ghe dà»; e non si tratteneva dall'indignato vituperio: «sti signori viniziani i è pezzi di cani».
Sempre a Venezia, però, alla partenza dei gesuiti si registra anche un comportamento opposto, che lascio, senza commenti, narrare alla superba penna dell'Istoria dell'Interdetto, scritta da Sarpi a pochi anni dalla contesa:
Partirono [i gesuiti] alla sera alle doi ore, ciascuno con un crocifisso al collo, per mostrare che Cristo partiva con loro. Concorse moltitudine di populo, quanto capiva il luoco fuori della chiesa, così in terra come in acqua, a questo spettacolo; e quando il preposito, che ultimo entrò in barca, dimandò la benedizione al vicario patriarcale, ch'era andato per ricevere il loco, si levò una voce in tutto il populo, che in lingua veneziana gridò dicendo: Andé in malora.
Se tuttavia volessimo caratterizzare e dar voce alla maggioranza silenziosa, potremmo ricorrere alla saggezza del medico veronese Andrea Chiocco, il quale a un canonico del duomo che lo accusava «per aver sentito col Principe in materia dell'interdetto», schiettamente confessava che era rimasto «neutrale», «di che è segno che né confessato, né communicato mi sono durante esso interdetto», ma allo stesso tempo aveva senza timori dichiarato in pubblico «che le leggi del nostro Principe mi son sempre parute ragionevoli».
Che doveva essere stato il comportamento anche dei bergamaschi.
Un capitolo tutto da scrivere, e che qui solo suggerisco, ma che dovrebbe interessare gli storici che s'avventurano nell'antropologia, e riguarda gli effetti a lunga distanza nelle coscienze e nell'immaginario collettivo dell'esperienza dell'Interdetto. Effetti che non mancano e che qualche storico comincia a registrare.
Io, che ho vista alquanto corta, vorrei, per concludere, buttare invece qualche sprazzo di indagine nel mondo veneziano del dopo interdetto, sul patriziato e su coloro, anzitutto Paolo Sarpi, che avevano intensamente vissuto quell'annus terribilis.
In una lettera scritta a due settimane dalla fine della contesa mediata dal re di Francia tra il papa Paolo V e la Repubblica di Venezia, l'ugonotto Jérôme Groslot de L'Isle, scrivendo da Venezia allo storico francese Jacques-Auguste de Thou, definiva l'accordo «une sotte paix» (una stupida pace).
In verità la «sotte paix» era stata accolta ovunque come una liberazione. Vescovi, clero regolare e secolare, laici di ogni ceto avevano prontamente anche se segretamente seguito le direttive pontificie impartite dal cardinale de Joyeuse per sgravare la coscienza da ogni scrupolo. I confessori, generalmente con discrezione, avevano riconciliato i fedeli con Roma. Anche quanti, soprattutto del clero, avevano dal pulpito e con la penna preso le difese di Venezia, ora ricorrevano al nunzio pontificio per una rappacificazione con il papato, e nei due anni seguenti alcuni di loro abbandoneranno Venezia per ottenere il perdono pontificio. La mancata assoluzione ufficiale, rifiutata formalmente dal governo veneziano, non aveva quindi impedito le innumerevoli assoluzioni individuali. Sconfitto sul piano giurisdizionale, il papato aveva avuto, di fatto, una rivincita su quello religioso, a livello delle coscienze.
Antonio Querini, l'autore di un ammirato libello antipontificio, aveva cominciato ben presto a dubitare della validità della strenua lotta di Venezia: aveva errato nella sua precipitazione Paolo V, ma altrettanto con il suo irrigidimento aveva fatto la Repubblica; nel turbolento contesto europeo, confidava, Venezia aveva bisogno di pace, «spezialmente con il papa». Non tutti pentiti o convertiti, però. Rimanevano irriducibili e fermi sulle loro drastiche posizioni non pochi promotori della lotta contro il pontefice. Per tutti, e più perentorio di tutti, Nicolò Contarini, futuro doge, aveva bollato quel compromesso conclusivo come un «appuntamento di servitù».
E sul tema della servitù ritornerà Paolo Sarpi, che Roma continuerà a considerare fino alla morte scomunicato; l'anno dell'interdetto era stato, scriveva agli amici francesi, come un risveglio, un aprire gli occhi, un liberarsi per una provvidenziale occasione dal torpore, dagli effetti oppiacei, dai lacci. Lo confida con rimpianto, a pochi mesi dalla «fine», proprio a Groslot de L'Isle, testimone di quel momento di vitalità: «abbiamo già esalata tutta la nostra virtù» e ora siamo tornati a bere «qualche oppiata del vase che addormenta tutti» (
Lett. Protestanti, 4 settembre 1607). Incombe il timore che quel glorioso momento sia destinato a un definitivo tramonto: «Io vado dubitando – scrive ancora a Groslot – che a poco a poco perderemo quel principio di libertà che Dio ci aveva aperta» (
Ibidem, 8 luglio 1608).
Un cruccio, questo disarmo generale, che si accompagna all'amarezza del combattente lasciato solo a lottare. Un senso profondo di delusione per i grandi disegni naufragati, a cui reagiva con giudizi amari e sprezzanti: «Vostra Signoria tenga per fermo che in Italia sono molti ipocriti – scriveva nella stessa lettera - e non si maravigli, come fa nella sua, che, veduto il lume, abbino chiusi gli occhi; ché li hanno sempre avuti chiusi al vero ed aperti all'interesse; e quando mostravano di veder, meno vedevano».
A Roma, preso atto con fatica del fallimento dell'uso delle censure spirituali, e anche della temporanea sconfitta sul piano giurisdizionale, si voleva con insistenza e fermezza che la Repubblica sconfessasse i suoi teologi, che avevano osato mettere in discussione il potere pontificio sulle anime e sui corpi. «I libri di fra Paulo sono ripieni di essorbitanti eresie», insisteva scandalizzato il papa, sentenziando: «quei libri sono stati publicati qui e dall'Inquisizione di Spagna in stampa per proibiti, e chi li tiene non può esser assoluto», ribadendo che i ‘teologi' veneziani non erano stati compresi nella riconciliazione, perché, come aveva già ripetuto all'ambasciatore francese, «questo è cibo dell'Officio dell'Inquisizione».
Il patriziato veneziano, aveva difeso i suoi scrittori, ma senza grandi entusiasmi. È forse eccessivo, e non ancora sufficientemente provato, parlare di una rimozione dell'Interdetto da parte della classe dirigente veneziana già in questi primi anni, anche perché i principali promotori della contesa mantenevano intatti il loro prestigio e la loro influenza. Tuttavia si ha la sensazione che il silenzio sulla vicenda dell'Interdetto fosse auspicato da una parte consistente del patriziato veneziano, preoccupato dei periodici ritorni di contrasto fra Venezia e Roma, e già propenso a cancellare la memoria di una vicenda che assumeva col tempo sempre più ai suoi occhi i connotati negativi di uno scontro improduttivo, anzi dannoso per la Repubblica.
Al doge Leonardo Donà il servita veneziano, sicuro di trovare in lui incondizionato ascolto, aveva inviato una importante scrittura da leggere in Senato, in cui ribadiva le tesi dottrinarie veneziane sostenute durante la contesa e chiamava tutto il patriziato a sottoscriverle. Questa la sintesi:
Dio ha instituito dui governi nel mondo, uno spirituale l'altro temporale, ciascuno di essi supremo e independente l'uno dall'altro. Questi sono l'uno il ministerio ecclesiastico e l'altro il regimento politico, e del spirituale ha dato la cura alli prelati, del temporale alli prìncipi; sì che fu benissimo detto dalli antichi che li ecclesiastici sono vicari di Cristo nelle cose spirituali, e li prìncipi vicari di Dio nelle cose temporali; per il che, dove si tratta della salute delle anime, tutti, anco li prìncipi, sono soggietti alli ecclesiastici, ma dove si tratta della tranquillità publica e della vita civile, tutti, anco li ecclesiastici, sono soggietti al principe»; e concludeva: «Questo vuol dire esser due potestà supreme, independenti, non subordinate, che una non può impedirsi nelli negozi dell'altra, né commandarli in quello che Dio ha raccomandato alla cura di essa.
Dottrina troppo avanzata per la Serenissima, e persino ereticale per il papa. Di fatto inaccettabile questa totale separazione così netta tra temporale e spirituale anche per gli Stati cosiddetti "assoluti", fino a quando almeno continueranno a ritenere indispensabile al potere una base confessionale.
Prima ancora di entrare nella contesa dell'Interdetto, il Sarpi "privato" aveva annotato in un suo
pensiero:
Il politico in formar la città si vuol servire di tutta la materia che truova, uomini, denari, armi, spassi, medicine ecc., e se alcuno di tali strumenti manca, egli ne fa senza. Perché anco trova la Torà [la religione], se ne serve, ma farebbe senza di lei, se no la trovasse.
Considerazione che fa dire a un autorevole storico inglese, Richard Tuck, che «Sarpi può essere considerato il primo pensatore sistematico ad aver negato efficacia sociale alla religione: persino Hobbes non volle spingersi a tanto». Enorme affermazione, dunque, quella sarpiana, in un mondo dove la religione era considerata il fondamento dello Stato, e non per nulla l'Europa intera da molti decenni era vittima di guerre di religione e già si annunciava prossima la più tragica di tutte, la Guerra dei Trent'anni. Intuizione geniale che anticipa di oltre un secolo il pensiero europeo, ma per ora tenuta dal servita prudentemente tra le sue carte private.
Ed è forse proprio sulla figura del servita veneziano che si hanno i risultati più duraturi dell'eredità dell'Interdetto.
Sarpi proseguirà, nei restanti quindici anni di vita a servizio della Serenissima in qualità di consultore in iure, a momenti solitariamente, la battaglia iniziata nel 1606 – una battaglia civile e religiosa, che approderà a quel capolavoro della storiografia europea che è l'
Istoria del concilio tridentino – contro la Chiesa romana di quel tempo, che egli considerava la più lontana dal messaggio evangelico tra le Chiese cristiane del mondo europeo, proprio perché venuta meno da tempo alla sua natura spirituale che «cammina per via celeste», perché «il regno di Cristo non è di questo mondo, ma in cielo».
E affiderà con i suoi molti consulti (oltre un migliaio) alla Repubblica un diritto ecclesiastico "tra i più articolati e moderni d'Europa"”, dopo aver "con forza espresso indefessamente le esigenze dello Stato moderno", e contribuito a farne partecipe una gran parte della classe dirigente veneziana, che aveva liberato da falsi timori religiosi, mostrando come spesso sotto il manto della religione si celavano a moventi tutti terreni e spesso bassamente terreni.
Ma per concludere, tornando a una visione allargata dei problemi della civiltà, si può osservare come il cammino dell'uomo proceda per percorsi generalmente lunghi e non lineari e mai definitivamente acquisiti, ma che ci siano anche momenti che sembrano imprimere alla storia una accelerazione, un salto, uno scatto nella direzione di quei valori che noi oggi, occidentali e non solo, consideriamo conquiste irrinunciabili (le libertà di pensiero, di coscienza, l'uguaglianza di fronte alla legge ecc.); momenti di crisi, di lotta, che solo a distanza rivelano tutta la loro grandezza.
La contesa tra la Repubblica di Venezia e il papato di Paolo V è stata veramente un momento di crisi nel senso più pregnante del termine, non solo cioè di messa in discussione di rapporti e di valori da tempo consolidati, ma, una volta superato il motivo del contendere, di acquisizione non occasionale di valori e di rapporti nuovi.
«Ci sono lotte ideali – ha scritto Gaetano Cozzi, lo storico veneziano-trevigiano che più a fondo ha colto il senso dell'Interdetto e che qui richiamo per concludere la nostra conversazione – la cui posta trascende la vita e gli interessi degli uomini che le affrontano, lotte che bisogna combattere, al di là delle valutazioni contingenti, perché il farlo è di per sé un vincere: e tale credo sia stata la contesa dell'Interdetto, il cui significato fa parte di un patrimonio comune anche a noi ... a secoli di distanza».
Corrado Pin
Bibliografia
Per una scelta bibliografia sull'Interdetto si veda, nel sito
www.storiadivenezia.it, la rassegna curata da Filippo de Vivo. Per alcune opere, da cui ho attinto anche per citazioni, si vedano F. CHABOD,
La politica di Paolo Sarpi, Venezia-Roma, Istituto per la Collaborazione Culturale, 1962; G. COZZI,
Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Einaudi, Torino 1979; W.J. BOUWSMA,
Venezia e la difesa della libertà repubblicana. I valori del Rinascimento nell'età della Controriforma, il Mulino, Bologna 1977; G. BENZONI,
I «teologi » minori dell'interdetto, ora in
Da Palazzo Ducale. Studi sul Quattro-Settecento, Marsilio, Venezia 1999; C. PIN,
Per la storia della vita religiosa a Bassano: reazioni nel bassanese all'interdetto di Paolo V contro la Repubblica di Venezia, in Giornata di studi di storia bassanese in memoria di Gina Fasoli, Bassano 1995, pp. 129-157; F. DE VIVO,
Dall'imposizione del silenzio alla ‘guerra delle scritture'. Le pubblicazioni ufficiali durante l'interdetto del 1606-1607, «Studi Veneziani» 41 (2001), pp. 179-213; la citazione di C. Ginzburg viene da A. PETTENELLA,
Storie euganee, a cura di F. Selmin, presentazione di C. Ginzburg, Sommacampagna, Cierre Edizioni, 2002.
Per le opere di PAOLO SARPI richiamate nella relazione:
Istoria dell'Interdetto, in SARPI,
Scritti scelti, a cura di G. Da Pozzo, UTET, Torino 1968 [rist. 1974];
Lettere ai Gallicani, a cura di B. Ulianich, Wiesbaden, Steiner Verlag, 1961;
Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, 2 voll., Bari, Laterza, 1931;
Opere, a cura di G. e L. Cozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1969 [rist. nei «Classici Ricciardi-Mondadori», Milano-Napoli 1997];
Pensieri naturali, metafisici e matematici, edizione critica integrale commentata a cura di L. Cozzi e L. Sosio, Milano-Napoli, Ricciardi, 1996;
Consulti, vol. I, tomo I:
I Consulti dell'Interdetto (1606-1609), a cura di C. Pin, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici - Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2001.