Bergamo tra Milano e Venezia

Nella cultura come nell'economia, il rapporto tra Bergamo e Milano fu intenso anche quando nel secolo XVI Milano fu soggetta, ma anche soggetto attivo, di potenze avverse a Venezia, specialmente della Spagna a partire dal 1559. Anche come sede arcivescovile, con Carlo e Federigo Borromeo, Milano ebbe grande influenza su Bergamo, a partire dalla visita apostolica di Carlo, in effettuazione dei Decreti Tridentini. Le tensioni politiche e giurisdizionali al tempo dell'Interdetto riproporranno temi "di confine" in cui la diocesi milanese ebbe peso decisivo.

Carlo Borromeo e il "cavaliere in rosa" di Pier Maria Soglian
Tra Milano e Venezia: la pieve ambrosiana di Verdello di Marino Paganini


Carlo Borromeo e il "cavaliere in rosa"
La corrispondenza tra Carlo Borromeo e Giovan Girolamo Grumelli (ed alcuni altri personaggi qui sotto citati), conservata nella Biblioteca Ambrosiana di Milano, ha per oggetto prevalente la riforma della Diocesi milanese in territorio bergamasco, ove il nostro "cavaliere in rosa" si muove con abilità diplomatica per favorire l'illustre corrispondente. Vi è importante il carattere "locale" dei problemi trattati dai due personaggi: chiese, cappellanie, chiericati, e i relativi beneficia et officia, tra la piana di Dalmine, la val san Martino e la cima delle valli Brembana e Taleggio, sono all'epoca territori di confine, ove si intrecciano gli stati, veneto e milanese, e le diocesi, bergamasca e ambrosiana.
Quando il Cavaliere propone al Cardinale di collocare un nuovo curato a Sforzatica, oppure un nuovo beneficio per Carlo Benaglio che rinuncerebbe al canonicato di Pontirolo o, più ancora, quando si spinge a prefigurare, con sottili argomenti di strategia territoriale, una pieve di Mariano, suggerendo anche di valorizzare i meriti di pré Pasino Pisoni, si muove sul suo terreno: ha un impegno familiare di patrocinio sulla chiesa di Sforzatica, il Benaglio è suo parente e in zona di Mariano ha forte influenza; deve però tener conto anche dei confini di stato, poiché, se il curato di Sforzatica dovrà essere esaminato a Milano, bisognerà che superi i controlli confinari della non sopita pestilenza; pertanto si sente di suggerire (ingenuamente?, certo inutilmente) al Cardinale una soluzione contraria alle norme tridentine: far esaminare il curato da autorevoli ecclesiastici bergamaschi come il canonico Marco Moroni, altro personaggio rilevante nella chiesa e nella cultura.
Anche nei limiti, per quanto impegnativi, della riorganizzazione della Chiesa, è già notevole che un laico, come il cavaliere bergamasco, vi si intrometta con pareri tutt'altro che innocui, sapendo quante resistenze abbia incontrato, sia a Milano che a Bergamo, l'azione riformatrice del Cardinale, specie nelle più alte sfere degli ecclesiastici avvezzi ai privilegi antichi spettanti alle loro nobili famiglie. Sappiamo che anche a Bergamo qualcuno si oppose alla riforma, come prelati e canonici che nel 1578 inviarono a Roma Paolo Colleoni e Giovanni Albani a chiedere il sollevamento di quelli pochi decreti, che ci sono a pregiudicio, et anche di grande alteratione a nostri antichi istituti. Ma il Borromeo ebbe l'appoggio dei Vescovi di Bergamo, Federico Cornaro (1561-77) e Gerolamo Ragazzoni (1577-92); non si trattava di rapporti semplici, perchè anche un caso di "prestito" da Bergamo a Milano di un predicatore per la prossima Quaresima (1581) richiese non solo la richiesta formale al Vescovo orobico, ma l'invio di un emissario appoggiato da ben tre lettere di raccomandazione ad esponenti del patriziato bergamasco, i conti Domenico Albani e Davide Brembati più il nostro "Cavaliere in rosa".
Altri ecclesiastici, dal canonico Guglielmo Beroa, già agente del cardinale Cornaro e patrono di santa Maria maggiore, fino a pré Pasino Pisoni, vicario foraneo, si schierarono a sostegno delle riforme borromaiche, sapendo delle resistenze ed anzi impegnandosi a sconfiggerle; così il Beroa nel 1578: Si è dato principio alla riforma della nostra Chiesa, e perchè veddo alcuni contrarii mi riserverò a dargliene ragguaglio; analogamente il Pisoni, che gli segnala l'insofferenza di tre delli principali della mia terra di Mariano (ma a nome di tutto il popolo!) verso il rito ambrosiano, mentre può contare sulla collaborazione del Grumelli.
Nell'esercitare la giustizia ecclesiastica il Cardinale deve però tener conto dei propri confini: un pré Epifanio, ora cappellano a Caprino, in diocesi milanese, ma è accusato di eccessi in diocesi di Bergamo, quindi va consegnato al vescovo orobico. Analogamente, se il reo è un canonico di san Vincenzo, che ha messo incinta una ragazza ed ha fatto bandire il padre in territorio di Milano: il Cardinale deve limitarsi a proporre che la violata sposi un cugino e che si sostenga il padre davanti al Tribunale bergamasco.
Altrettanto delicato l'impegno che il Borromeo chiede al Cavaliere per sedare le faide familiari in Val san Martino, in cui sono coinvolti dei curati; tanta diplomazia richiede il caso che Borromeo, per trattarlo, combina un meeting a Pontida con il Vescovo di Bergamo, il Grumelli e Guidotto Benaglio: qui già un signore, che aveva offeso un curato, era stato punito dalla giustizia statale, dal Podestà veneto; il Cardinale non può permettersi di raggiungerlo, pur nella sua Diocesi, ma in territorio straniero, con le forze della giustizia ecclesiastica, della sua "famiglia armata".
Sono casi di confine in cui la "libertà ecclesiastica" borromaica è messa a dura prova; l'istituzione di scuole cattoliche e l'esercizio del tribunale ecclesiastico, quali gravi conseguenze abbiano portato lo si veda su un altro confine, assai meno permeabile, quello che nella corrispondenza di allora si definiva degli Suizari et Grisoni: territori, le Valli Ticinesi e la Valtellina, Bormio e Chiavenna, già appartenuti allo Stato di Milano e in più divisi, dal punto di vista ecclesiastico, da ulteriori confini, le diocesi di Como e Coira.
Qui la "libertà ecclesiastica", di pubblicare la Bolla "In coena Domini", di introdurre il calendario gregoriano, di perseguir "streghe" in Mesolcina o esuli eterodossi ospiti nella Valtellina grigiona, come Ulisse Martinengo o Francesco Cellario (questo catturato e giustiziato a Roma), e istituire collegi e scuole cattoliche, per non parlar che dei casi più clamorosi, incontrò nei Grigioni lo scoglio di uno Stato "anomalo", pluriconfessionale, non disposto a rinunciare alla propria giurisdizione, con tutte le conseguenze che esplosero nel "sacro macello" del 1620, ma erano chiare sin dai tempi dei nostri personaggi; così come erano ben noti le guerre ugonotte in Francia ed i conflitti giurisdizionali milanesi e veneti. In questo contesto la collaborazione di Giovan Gerolamo con il Cardinale assume altro rilievo: piccole cose sì, ma cose di confine, quindi in grado ognuna, se non diplomaticamente ben curata, di trasformarsi in un casus belli. Merito quindi del Cavaliere l'aver suggerito riforme in grado di soddisfare le esigenze locali, e specialmente di aver contribuito ad evitare l'inasprirsi di faide familiari, quali potevano scaturire non solo dall'occupazione di cariche ma anche dall'applicazione borromaica delle norme ecclesiastiche, quando andavano a colpire comportamenti peccaminosi (concubinato, porto d'armi in chiesa, ballo e gioco) tanto più licenziosi quando esercitati da piccoli potentati locali, garantiti anche dalla vicinanza del confine che favoriva il banditismo e l'incolumità (è il caso, per intenderci dell'Innominato e di Renzo e Lucia a "cavaliere" del confine veneto-milanese); e non è detto che simili collaborazioni fossero sempre felici, come nel caso di Arcene, ove, per rimediare a eccessi degli abitanti contro un parroco sgradito, il Cardinale chiese il sostegno di un discusso signore della zona, Gian Domenico Albani, già bandito per l'omicidio Brembati e che ora tiranneggiava la Quadra di Mezzo dal suo castello di Urgnano.
Per parte sua, il Cardinale, oltre alle benedizioni, fornì appoggio ad una causa che premeva al Cavaliere, quando il Senato di Milano decise che la moglie del Cavaliere, Isotta Brembati, potesse ereditare dal figlio (di primo letto) Flaminio Secco, i suoi beni milanesi, pratica annosa per cui i Grumelli chiesero ed ottennero per più anni il permesso di soggiornare "a cavaliere" del confine con Milano. Il carteggio dimostra anche quale fosse, nel rapporto tra i nostri due personaggi, la coscienza dei rispettivi limiti "politici": nel 1582, ad una richiesta del Cardinale di ottenere borrelli dalla fluitazione della Val Brembana, su cui la legislazione veneta aveva appena dato un giro di vite, il Grumelli risponde di non averne la facoltà, che spetta a Rettori ed Anziani di Bergamo: a loro scriva il Cardinale, convincendoli che l'ill.ma sua Persona, in cui concorrono tanti meriti, non debba sottogiacere à queste leggi, nè a quei rispetti con i quali, in casi ordinari, questa città si governa.
Sono temi ed atti che torneranno attuali, in un momento di grande tensione come l'Interdetto, mentre nel 1605 il Grumelli veniva promosso, per queste sue capacità diplomatiche, Provveditore ai confini bergamaschi.

Pier Maria Soglian

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Tra Milano e Venezia: la pieve ambrosiana di Verdello
L'arcidiocesi di Milano, che dal 1560 al 1584 venne retta da Carlo Borromeo in qualità di amministratore apostolico prima e poi, dopo la consacrazione episcopale, come arcivescovo, allungava le sue propaggini anche in terra bergamasca, contribuendo a creare un particolare intreccio di giurisdizioni civili e religiose. Tre erano i punti di sovrapposizione della realtà ecclesiastica milanese con quella civile veneta e bergamasca: nella pianura meridionale la pieve di Pontirolo Vecchio (o Canonica, come era più comunemente chiamato il minuscolo centro abduano che ospitava la collegiata pievana di S. Giovanni Evangelista) estendeva la propria giurisdizione fino a 7-8 chilometri da Bergamo, lungo una ideale linea di confine che, partendo dall'Adda a Capriate S. Gervasio, si estendeva nella pianura bergamasca da Brembate-Grignano a Osio Sotto e Osio Sopra per toccare il punto di maggior penetrazione a Sforzatica S.Andrea-Dalmine e Guzzanica e ripiegare poi attraverso Levate-Verdello-Pognano-Lurano-Arcene su Treviglio, scavalcare l'Adda e rientrare in territorio milanese con Vaprio-Trezzo-Busnago fino a Cornate d'Adda; ad ovest la parte finale della Valle S. Martino con Villa d'Adda, Cisano, Caprino e Calolzio apparteneva alle pievi di Brivio e Olginate; infine, la parte più settentrionale della Valle Brembana, cioè la Valle Averara e parte della Valle Taleggio, dipendeva dalla ambrosiana pieve di Primaluna in Valsassina. Variazione nella variazione, mentre le pievi di Primaluna, Brivio e Olginate seguivano il rito ambrosiano caratteristico della Sancta Mediolanensis Ecclesia, a Pontirolo (come d'altronde a Monza) si seguiva il rito romano.
Delle tre zone di sovrapposizione ambrosiano-bergamasca la pieve di Pontirolo presentava la situazione più problematica, almeno dal punto di vista del cardinale arcivescovo: non solo era la più vasta e popolata (contava ben 36 parrocchie), ma il prevosto di Pontirolo (da tempo espresso dalla famiglia Melzi) non intendeva riconoscere la supremazia del presule sulle parrocchie della sua pieve, in ciò difendendo una lunga tradizione di indipendenza, che si concretava nel portare insegne episcopali (mitra e pastorale), conferire benefici, nominare un vicario generale in spiritualibus ed esercitare nella pieve autorità ordinaria. Gli interventi del Borromeo dovevano perciò fare i conti con una abitudine di autonomia e con una mentalità diffusa tra popolo e clero, che faceva normalmente riferimento al preosto di Pontirolo più che a Milano.

All'ampiezza e alla particolarità della pieve di Pontirolo il cardinale rispose con un controllo territoriale serrato, suddividendola in tre vicariati foranei: Treviglio e Vaprio (poi Trezzo) con competenza sulle parrocchie poste nello stato milanese rispettivamente al di qua e al di là dell'Adda, e Sforzatica per le parrocchie sottoposte in civilibus alla Serenissima. Come suo solito, il Borromeo scelse i vicari non in base all'importanza del beneficio occupato, ma alle caratteristiche personali dei candidati, valutandone l'istruzione e la cultura. I vicari dovevano servire da collegamento diretto tra il centro diocesano e la periferia: avevano il compito di diffondere tra il clero curato ed i fedeli le direttive moralizzatrici e organizzative del cardinale e, viceversa, riferire all'arcivescovo necessità, difficoltà e anomalie della vasta pieve, tra cui spiccavano la mancata residenza dei titolari di cura d'anime, la carenza di sacerdoti idonei ed istruiti, l'occupazione dei beni ecclesiastici da parte dei laici o, più precisamente, da parte delle famiglie cui appartenevano gli ecclesiastici che, a volte per lunga trasmissione endofamiliare, ne erano i titolari canonici.
Con l'attività e lo stretto controllo esplicato attraverso i vicari il cardinale puntava ad imporre l'autorità episcopale ambrosiana a discapito delle prerogative tradizionalmente esercitate dal prevosto. Tale azione si sviluppò senza particolari intoppi nei vicariati di Treviglio e Trezzo, comprendenti paesi sottoposti in temporale al ducato di Milano e già abituati a far riferimento alla metropoli lombarda; incontrò invece resistenze nel vicariato di Sforzatica dove ebbe a confrontarsi con il "patriottismo veneto" della popolazione, delle classi dirigenti-possidenti e di parte dei titolari di cure o benefici, che risiedendo in Bergamo in aliena dioecesi e possedendo ivi altre prebende potevano sfuggire alla volontà e al braccio del cardinale. Il prevosto Melzi dal canto suo faceva leva su queste peculiarità per cercare di conservare alla propria influenza ed autorità almeno la parte "veneta" della pieve, scopo che perseguiva in particolare conferendo benefici "a preti bergamaschi per mantenerseli amichi et accrescer la giurisdittione". L'azione ottenne un discreto successo, tanto che il Borromeo dovette riconoscere, scrivendo a Roma, che "hanno avuto effetto più collationi del Prevosto che mie là su ‘l bergamasco, atteso la commodità et facilità de prevenire nei possessi di Veneti". Particolare delicatezza rivestiva quindi il ruolo del vicario di Sforzatica per gli aspetti di tipo legale e diplomatico che discendevano dalla collocazione in territorio veneto e per gli sviluppi che assunse il confronto tra il prevosto ed il cardinale. I vicari che si susseguirono durante l'episcopato del Borromeo ebbero pertanto un profilo intellettuale di buona levatura: Francesco Rognoni, vicario dal 1566 al 1577, e Pasino Pisoni, vicario nel periodo 1578-1590, erano notai; Gerolamo da Fino, vicario per pochi mesi del 1578, godeva universale fama di uomo istruito.
Nonostante le differenze tra il cardinale ed il prevosto fossero state rimesse, almeno ufficialmente, all'arbitrato del trevigliese Gerolamo Federici, vescovo di Martorano, i due non vollero rinunciare all'esercizio delle rispettive prerogative (giuridicamente parlando era fondamentale dimostrare di continuare nel possesso delle facoltà contestate dall'avversario) ed iniziarono un confronto a distanza che proseguì per più di un decennio (1566-1577). Così, quando il cardinale ed il prevosto in concorrenza tra loro per conservare la giurisdizione conferivano un medesimo beneficio del vicariato di Sforzatica a due diversi ecclesiastici, il confronto usciva dagli stretti ambiti canonici per sconfinare nel civile e trasferirsi avanti ai Rettori veneti di Bergamo o, per i benefici maggiori, direttamente davanti ai Signori di Venetia, cui spettava di concedere il placet per la presa di possesso ed il conseguente godimento delle entrate. Iniziava così un gioco di schermaglie procedurali e di manovre "politiche"che venivano condotte a Bergamo direttamente dal vicario di Sforzatica (fondamentali a questo proposito si rivelarono le comparse di don Francesco Rognoni davanti al Podestà e l'appoggio del vescovo di Bergamo e di gentilhuomini quali Davide Brembati e Gian Girolamo Grumelli) e a Venezia con l'intervento del Nunzio pontificio. Emblematica di tale sconfinamento in politica fu la vicenda del chiericato di Brembate Sotto conferito nel 1570 dal cardinale al Seminario di Somasca, che trovò forte opposizione a Venezia (peraltro abilmente fomentata da quella parte dell'establishment bergamasco che era schierato col prevosto) perché si sarebbe favorita l'estrattione de' frutti in stato alieno, cioè l'esportazione di capitali all'estero, in quanto Somasca era filiazione del Seminario di Milano. Quando però il cardinale riuscì a convincere i veneziani che nel Seminario venivano istruiti anche sudditi veneti, le successive collazioni vennero accettate dalla Serenissima come opportuno sussidio per l'istruzione del clero destinato alle parrocchie "venete" dipendenti dal cardinale.
La ragion di stato veneziana entrò di nuovo in conflitto con gli intendimenti del Borromeo, quando il cardinale si accinse a riorganizzare il territorio pievano di Pontirolo dopo che il braccio di ferro con il prevosto era terminato con un compromesso, cioè con la soppressione della pieve e il trasferimento del Melzi e canonici suoi compagni a Milano in Santo Stefano in brolio (1577). Tra le ipotesi prese allora in considerazione in curia ci fu la creazione di due nuove prepositure, "una da che rispondano le cure che sono nel territorio bergamasco, l'altra quelle del milanese". Mentre per la seconda sembrava certa la scelta di Treviglio come capo-pieve, per la bergamasca le cose erano meno definite, tant'è che il cavalier Gian Girolamo Grumelli suggerì di erigere a capo-pieve la parrocchia di Mariano perché, essendo piccola, avrebbe permesso al titolare di dedicarsi con maggiore assiduità al suo nuovo ruolo. Il Borromeo invece preferì riunire tutte le parrocchie al di qua dell'Adda, comprese quelle "venete", sotto l'unica nuova pieve di Treviglio (1583), suscitando in tal modo l'opposizione veneziana che non accettava la modifica dello status quo a favore di un nuovo capo-pieve milanese. Per tale opposizione e per l'intervenuta morte del Borromeo la decisione del cardinale rimase praticamente lettera morta, fino a quando nel 1597 per espresso ordine del cugino Federigo Borromeo, nel frattempo assurto alla guida della Chiesa ambrosiana, da Treviglio vennero staccate le 17 parrocchie poste in territorio veneto per costituire la nuova pieve di Verdello.

Marino Paganini

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