Giuristi bergamaschi all'epoca dell'Interdetto:
G.Andrea e Marcello Viscardi

La fine del ‘500, epoca di riforme ecclesiastiche ed amministrative, di liti nobiliari, di questioni di confine, fa emergere anche a Bergamo la funzione dei giuristi, in genere membri di famiglie patrizie laureati a Padova, esperti in grado di offrire consulenze ed esercitare funzioni pubbliche ed autorizzati alla professione previa ammissione al Collegio dei Giuristi, ma anche di categorie operanti in diverse branche del mondo del diritto: notai, cancellieri, secretari, procuratori, sollecitatori…Il Comune si trovò nella necessità di istituire una scuola biennale di elementi di diritto civile, eventualmente da completare con la laurea, ove insegnavano i più stimati membri del Collegio. L'accesso alle professioni di queste nuove leve, specie se di origine borghese, suscitò opposizioni e contrasti, che Venezia provvide a sanare.
Spiccano in questo contesto due giuristi in prima fila nelle vicende bergamasche: Giovanni Andrea Viscardi ed il nipote Marcello. Il primo, nato circa il 1540, compagno di studi di Torquato Tasso, frequentò letterati e politici e seguì la carriera del secretario presso il vescovo Cornaro al Concilio di Trento e presso il governatore di Monaco, ma dovette rinunciarvi, in seguito alla morte del fratello, per dedicarsi alla cura dei nipoti, tra cui Marcello, che avviò alla carriera di giurista, ostacolata in un primo tempo per essere figlio di mercante. G. Andrea, autore di opere storiche e morali di scarso valore, fu attivo come consultore nella difesa del Monte di Pietà cittadino chiuso per ordine di Carlo Borromeo e mantenne interessanti rapporti con segreterie e corti italiane.
Di lui e del nipote Marcello, si trovano notizie nell'
Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede, da cui risulta che furono per decenni consultori dell'ufficio dell'Inquisizione di Bergamo, in un periodo di massima tensione giurisdizionalistica tra la Chiesa e Venezia. In particolare si trova presso la biblioteca Apostolica Vaticana il testo di una singolare opera di Marcello, evidentemente maturata in questo clima: i Magnalia necessitatis, sottoposto alla correzione della censura.

Con l'autorizzazione dell'Autore, riportiamo le seguenti pagine da:
Vincenzo Lavenia, Giurare al Sant'Uffizio. Sarpi, l'Inquisizione e un conflitto nella Repubblica di Venezia, «Rivista Storica Italiana», CXVII, 2006, pp. 7-50

Del giurista Marcello Viscardi, nato con molta probabilità negli anni Cinquanta del XVI secolo, sappiamo quanto ci raccontano un inquisitore del Sant'Uffizio (che gli diede filo da torcere) e il biografo Donato Calvi. Marcello era nipote di Giovanni Andrea Viscardi, che, a quanto si capisce da un documento conservato all'Archivio della Congregazione della Dottrina della Fede, nel fondo centrale del Sant'Uffizio romano, entrò in conflitto con il temuto tribunale per avere difeso l'autorità dei Rettori secolari di agire come veri e propri inquisitori a fianco dei giudici nominati dalla Santa Sede (1585).
Esaltandone la fama e la clientela di «innumerevoli seguaci», il Calvi ci riferisce che Marcello fu allievo di Tiberio Deciani (1509-1582), uno dei più celebri professori di diritto dell'epoca; e come il suo maestro si dedicò alla materia criminalistica nelle pagine di un'opera (l'unica sua?) che attirò i fulmini dell'inquisitore di Bergamo: i Magnalia necessitatis (1622?).
È un testo piuttosto originale, la cui materia Calvi descrive in questi termini: «per cento sessanta casi le grandezze spiegando della Necessità [..], quanto possa, quanto vaglia, quanto richieda il bisogno, tutto in questo libro pontualmente [Viscardi] dimostra, non trascurando caso sagro o profano, di guerra o di pace, di poveri o ricchi, di giovani o vecchi, di sciolti o legati, d'huomini o donne, per qual si voglia emergente accidente, disastro, sfortuna o contingenza». Il Calvi, monaco agostiniano, non poteva tuttavia ignorare che quel libro, che gli appariva come preziosa gemma, aveva già meritato la censura ecclesiastica. Prontuario per casi estremi di rischio, manuale di eccezioni giuridiche destinato agli avvocati e a suo modo unico (vi si trattavano materie disparate come l'aborto, la "riserva mentale" e il commercio con gli infedeli), i Magnalia furono proibiti per l'intervento dell'inquisitore, fra Agostino da Reggio.
Questi era anzitutto preoccupato, con uno zelo che apparve eccessivo persino alla Congregazione del Sant'Uffizio, della dottrina esposta da Viscardi in tema di procedura inquisitoriale e di difesa dell'eretico imputato. Riprendendo un'opinione di Deciani, Viscardi sosteneva infatti che un avvocato poteva e doveva difendere un sospetto eretico a patto che non fosse già infamato. Negando l'obbligo inquisitoriale a rinunciare alla difesa e il dovere di delazione, Viscardi, che pure assolveva da trent'anni al ruolo di consultore del Sant'Uffizio, esortava inoltre i principi secolari a contrastrare lo stile inquisitoriale fondato su processi senza i nomi degli accusatori e dei testimoni, e invogliava gli avvocati a istruire gli imputati all'uso della menzogna o della riserva mentale negli interrogatori. Fu per questo che nel 1622 l'inquisitore lo accusò di fomentare una rivolta degli avvocati (innescata forse dallo stesso Paolo Sarpi, che stilò proprio allora alcuni consulti contro le pretese dell'inquisitore della città), che si rifiutarono di prestare il normale giuramento de dicenda veritate nelle mani dello stizzito inquisitore che ottenne presto la proibizione del testo donec corrigatur.
Tuttavia, a un'attenta lettura, l'opera di Viscardi mostra tratti di eterodossia ben più marcati di quelli individuati dal giudice della fede. Vi si legge, per esempio, che al cristiano occorre leggere e commentare soprattutto la Bibbia, superiore a ogni autorità umana interprete, che i laici possono assolvere dai peccati come i sacerdoti, che gli ebrei possono servirsi di nutrici cristiane. Vi si leggono definizioni dell'eresia che gli inquisitori non avrebbero gradito («haeresis non in opere, sed in errore intellectus consistit»); che è lecito allearsi con i Turchi e invocare per necessità l'aiuto degli infedeli; che i magistrati secolari anche «athei» agiscono legittimamente; che il pontefice «respectu virtutis directivae ad bonum ligatur legibus et canonibus»; che tutti i concili, compreso quello di Basilea, erano ispirati dallo Spirito Santo (Reginald Pole nel De concilio) e che il sesso, come la prostituzione, «quandoque multa iuvamenta affert».

La censura dell'opera (una sorta di testo criptolibertino) si avviò con una lettera dell'inquisitore di Bergamo del 17 agosto 1622. I cardinali risposero il 31 agosto, comunicando all'inquisitore di avere affidato il libro all'esame del Maestro del Sacro Palazzo e ordinandogli perentoriamente «ut non admittat advocatus et procuratores ad patrocinium pro reis nisi prius praestito solito iuramento». Nel settembre dello stesso anno Viscardi accettò di correggere il volume per una ristampa (l'edizione circolante fu vietata il 29 ottobre), ma la calma non tornò neppure dopo la cauta disposizione di Roma. Nel febbraio 1623 l'inquisitore di Bergamo stilò un fitto elenco di allegazioni giuridiche per attaccare le dottrine di Viscardi e convocò nuovi avvocati per sostituirli ai vecchi e farli giurare. In settembre sottolineò poi che i tentativi di correzione dell'opera erano inutili. Nel 1624 i Magnalia furono affidati a un crocifero, ma questi si limitò a isolare alcune proposizioni senza intaccare le tesi erronee del testo. «Il detto signor Marcello si scusa che havendole trovate su i libri, e perché tratta le cose grandi della necessità, non intende levarle, e tanto più perché di costà li è stato scritto che basta che emendi due o tre passi soli», scrisse l'inquisitore. Potrebbe trattarsi di una critica alla cautela del Sant'Uffizio; ma è più probabile che l'allusione fosse rivolta alla Congregazione dell'Indice, che entrò in scena dopo aver ricevuto un memoriale di Viscardi. Tuttavia, seguendo il parere dell'inquisitore, anche l'Indice rispose che il libro di Viscardi «non esse capacem correctionis» (27 novembre 1624). E così la raccolta di casi fu inserita nell'elenco dei libri che conteneva le recenti censure, e restò inaccessibile nei secoli successivi donec corrigatur. A nulla valse un nuovo memoriale di Viscardi, ormai più che ottantacinquenne, che nel 1643, «tutto dolente e pentito in se stesso», chiese una revisione del testo. L'8 ottobre la Congregazione dell'Indice scrisse all'inquisitore di Bergamo perché inviasse tre copie del testo. Il giudice provvide, riservandosi tuttavia di precisare che «la Congregatione del Santo Offitio scrisse che tal libro era pessimo, quando lo prohibì». Come a dire, in continuità con il predecessore, che una nuova decisione era sconsigliabile. La correzione fu comunque affidata a padre Giovanni Calepio e fu ultimata nel 1647. Non fu soddisfacente o, come è più probabile, Viscardi morì nel frattempo. In ogni caso, i Magnalia restarono proibiti. L'inquisitore che ne aveva ottenuto la messa all'Indice non ebbe tuttavia premio per il suo zelo. Rimosso dall'incarico a Bergamo, forse per ragioni di opportunità politica, potè essere ricordato dal podestà Pisani, alla fine del mandato nella città, in termini che non nascondono la soddisfazione per avere umiliato l'inquisitore per conto di una Serenissima disposta, dopo l'Interdetto, alla pacificazione con Roma.

Vincenzo Lavenia